Una goccia che non fa traboccare il vaso
ovvero Umberto Eco tra cultura e quattrini
1.
Nel suo Secondo diario minimo, Umberto Eco consiglia
scrittori e scrittrici sui modi di salvarsi dalla posterità,
ma, contraddittoriamente, intitola questi consigli Come guardarsi
dalle vedove. I vedovi, evidentemente, li considerava posterità
più inoffensiva. Comunque sia, i rischi che corre il
morto sarebbero i seguenti: che vengano pubblicati inediti “dalla
lettura dei quali emerga che eravate un perfetto idiota”;
che vengano organizzati congressi alla memoria – congressi
che avrebbero un effetto controproducente presso i lettori;
che vengano pubblicate “lettere private” che rivelerebbero
quanto e come lo scrittore in questione appartenga alla sfera
dei “comuni mortali”. A mio modesto avviso questi
consigli, da un lato, presuppongono la convinzione che, al di
là della specificità dello scrittore – tutta
da discutere -, vita privata e opere debbano esser tenute ben
distinte – il che è privo di senso, come se l'opera
potesse scaturire da un'insufflata divina – e, dall'altro,
questi consigli riposano su una palese omissione. Più
che dalle vedove e dagli studiosi, infatti, lo scrittore che
voglia rimanere caro ai posteri farebbe bene a guardarsi da
se stesso.
2.
Due giorni dopo l'annuncio della sua morte e il giorno prima
del funerale, i grossisti annunciavano già la possibilità
di prenotare le copie del suo nuovo libro pubblicato da una
casa editrice di cui lui era co-fondatore e che non aveva ancora
pubblicato nulla. Umberto Eco apparteneva a quel mondo –
ad un mondo, voglio dire, in cui cultura e quattrini non sono
dissociabili e in cui la condizione della prima risultano essere
i secondi.
Di quel mondo, Eco non è stato soltanto oggetto –
manipolato dalle ambizioni e dagli interessi altrui –,
di quel mondo non è stato soltanto il palo, ma anche
soggetto attivo, attivissimo, partecipe e ben remunerato interprete
di rilievo. Coerentemente e senza indugi ha sempre parlato di
sé come di uno “scrittore” – di cosa
fa uno scrittore, di come vive uno scrittore – e come
di un “intellettuale” – di quali sono i suoi
impegni e i suoi doveri, compresi quelli di “divertirsi”
– palazzeschiano quanto si voglia il verbo designa pur
sempre un limite al coinvolgimento – guardando al mondo
dall'altezza di uno scetticismo così ben temperato non
tanto e non solo da farlo andare d'accordo con “quasi-tutti”
ma da questi “quasi-tutti” farsi stimare –
per ragioni della cui qualsivoglità non poteva importargli
di meno. Qui stanno i limiti entro i quali dobbiamo pensare
alla sua persona, alla sua vita e a quanto ci ha saputo dare.
Che è stato tanto e, soprattutto, è stato meglio
di quel che la maggior parte degli intellettuali italiani di
questi anni ci hanno saputo o voluto dare.
3.
Il livello culturale del mondo che abitiamo è chiaramente
indicato dal fatto che, nel primo giorno di vendite, Pape
satàn aleppe – il libro su cui si specula a
funerali dell'autore appena avvenuti – è andato
a ruba, costringendo le tipografie ad affannose e insoddisfacenti
ristampe. Il fatto che il “nuovo” libro di Eco sia
costituito da un insieme di articoli “vecchi” non
ha tenuto lontano i lettori e non ne ha smorzato le mistiche
riverenze. Mi immagino, pertanto, che, ancora una volta, sarò
solo soletto nel rimanere deluso da quanto detto nella prefazione,
confermato nel testo e rafforzato dal sottotitolo. Unendosi
all'entusiasmo degli intellettuali in genere, infatti, Eco accoglie
quella metafora lanciata da Zygmunt Bauman per descrivere un'entità
già abbastanza equivoca di suo come la “società
moderna” – che, per l'appunto, parola del filosofo
polacco, sarebbe “liquida”. Confesso che già
mi bastava e avanzava la metafora della “liquidità”
per parlare del denaro disponibile – visto, evidentemente,
come fluente.
Il neologismo della “società liquida”, secondo
la Treccani, servirebbe a designare una “concezione sociologica
che considera l'esperienza individuale e le relazioni sociali
segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo
e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido
e volatile” – definizione che non è un granché
perché ho l'impressione che si adatti bene ad ogni società
nei periodi di cambiamenti. Laddove ci sono conflitti –
e laddove ci sono spostamenti il conflitto è sempre lì
lì per deflagrare – c'è incertezza nelle
persone che sono costrette a viverli. La “decomposizione”
e la “ricomposizione” delle relazioni sociali e
delle loro strutture sono per l'appunto quel cambiamento. Che
poi, gratta gratta, Bauman spieghi questo cambiamento con la
trasformazione dei protagonisti da produttori a consumatori
non mi sembra che muti di una virgola i modelli di spiegazione
che almeno da Marx in poi – senza bisogno di metafore
idrauliche – abbiamo imparato ad applicare ai fenomeni
sociali che ci hanno riguardato.
È scoprendo la “società liquida” di
cui tutti noi saremmo allora gocce, dunque, che Eco dice di
scoprire l'“individualismo sfrenato” (come se nei
tempi passati ce ne fosse stato di ben tenuto a freno), la “perdita
della certezza del diritto” (come se nel passato i poveri
l'avessero mai avuta questa certezza) o la “bulimia senza
scopo” dei consumi (come se il sistema capitalistico avesse
mai dato tregua su questo fronte). Si vivrebbe, secondo lui,
“in una società liquida” che richiederebbe,
“per essere capita e forse superata, nuovi strumenti”.
E qui parrebbe legittimo il sospetto che la metafora della liquidità
– questo nuovo che sarebbe avanzato – serva semplicemente
a nascondere l'antica solidità delle consapevolezze relative
a ciò che, nel pianeta, proprio non va. Non c'è
bisogno di nuove metafore per capire come sono andate le cose
e viene invece il sospetto che nuove metafore servano a nasconderlo
meglio. Al colmo del qualunquismo e delle comode generalizzazioni,
per Eco, il guaio, allora, sarebbe che “la politica e
in gran parte l'intellighenzia non hanno ancora compreso la
portata del fenomeno” – anche questa un'affermazione
che non va a suo onore perché i due soggetti cui fa riferimento
sono due finzioni utili al regime per mantenere e incentivare
ulteriormente la propria autorità (non ho bisogno di
generalizzazioni pietose: mi si dica quali “politici”
e quali membri di una presunta intellighenzia – e, soprattutto,
per salvare questo mondo non ho bisogno di compagni che lanciano
il sasso e ritirano la mano).
4.
Il termine “liquido” può essere ricondotto
ad alcune parole latine – “lixa”, acqua, “liqueo”,
fluisco, “liquidum”, chiaro, limpido – e,
forse, a una radice indoeuropea – “ri” o “rik”
(le erre trasformate in elle costituiscono un fenomeno linguistico
piuttosto diffuso), effondere, versare, lasciare andare, sciogliere.
Raramente si pensa che è la stessa fonte del verbo “delinquere”,
da cui la nota figura del delinquente come disordinatore sociale.
Infatti, da lasciare ad abbandonare, il passo è piuttosto
breve e nell'abbandonare la via della giustizia, nel porsi fuori
legge, si conferisce semplicemente un altro giro di vite alla
metafora. Si potrebbe ipotizzare, pertanto, che il successo
della metafora stia tutto nel sottinteso moralismo e nella nostalgia
di un passato che peraltro non c'è mai stato con cui
qualcuno – qualcuno dal piglio aristocratico, qualcuno
che all'intellighenzia del suo tempo ritiene di dover appartenere
– guarda al proprio tempo presente. Liquida, poi, è
detta una materia la cui massa, voluminosa quanto si voglia,
si adatta al recipiente che la contiene. E qui, allora, non
si può evitare di porsi una domanda: non sarà
che Eco ha accolto tanto entusiasticamente una metafora che,
a prima vista, sembrerebbe vana e ben poco esplicativa, soltanto
perché, inconsapevolmente, si è sentito liquido
lui stesso, ovvero perfettamente adattato alla società
intellettuale che lo ha contenuto? Qualsiasi risposta si voglia
dare alla domanda, comunque – ci tengo a dirlo e a ribadirlo
–, rimarrebbe vero che Eco di questa società intellettuale
è stato il protagonista e l'interprete più significativo.
Felice Accame
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