grandi opere/3
Il mostro dello Stretto
di Pippo Gurrieri
Dopo il sottoattraversamento
Tav a Firenze (“A” 405) e un bilancio
di Expo 2015 a Milano (“A” 406), ci occupiamo
da questo numero della Sicilia e lo facciamo con tre successive
puntate curate da Pippo Gurrieri, redattore del mensile “Sicilia
Libertaria” e attivo militante anarchico. Dopo la sua
presentazione del panorama Grandi Opere sull'isola, pubblichiamo
una sua intervista a due militanti No Ponte. Sui prossimi numeri
proseguiremo con le lotte No Muos e No Triv.
Mille
e una lotta
di Pippo Gurrieri
La Sicilia è da sempre terreno di numerose
lotte. Ciò che le accomuna è una sostanziale avversione
per le politiche economiche di impronta colonialista, che hanno
distrutto i legami comunitari, l'ambiente naturale e le attività
lavorative.
Le lotte territoriali sollevano problemi che non hanno nulla
di locale, se non l'essere l'aspetto terminale di politiche
e strategie pensate e imposte globalmente. Le resistenze che
nascono e si organizzano in ogni angolo del paese rappresentano,
in questa fase storica, una modalità diffusa di opposizione
che, mentre mette in discussione la strategia complessiva degli
apparati economici, finanziari, militari, istituzionali, supplisce
alla mancanza di una estensione delle risposte sul piano generale,
con una maggiore densità e profondità del percorso
di lotta sul piano locale.
Sono anni che, movimenti che si vorrebbero globali, steccano
facilmente nella loro pretesa di rappresentare risposte complessive
o anche alternative al sistema; ad esempio, sul piano delle
politiche militariste o dell'imposizione delle grandi opere,
è mancata una valida opposizione generale, e quando si
è provato a metterla in piedi, è scivolata alla
prima tornata elettorale, al primo referendum, ai primi tentativi
di trovare una sintesi tra le varie anime presenti.
Così da molto tempo sono i movimenti radicati nei territori
a tenere alta la bandiera dell'opposizione; una opposizione
che, partita dalle questioni locali, è riuscita a darsi
continuità e incisività grazie alla capacità
di rompere la gabbia localista e fornire una lettura complessiva
delle dinamiche che avvinghiano quella fetta di popolazione,
facendo diventare quell'esperienza un esempio da esportare,
soprattutto per i metodi e le capacità di analisi, che
forniscono altrove elementi di comprensione utili alla costruzione
di percorsi analoghi, caratterizzati però dalla specificità,
appunto, di ogni territorio.
La Sicilia da sempre esprime una grande conflittualità,
spesso contraddittoria, come quella del movimento dei Forconi,
o quella degli operai di varie grandi aziende, come la FIAT
di Termini Imerese, i petrolchimici di Gela, Priolo-Melilli,
Milazzo, la cui morte annunciata provoca reazioni scomposte
e anch'esse contraddittorie; la lotta contro i termovalorizzatori
nella valle del Mela, nel messinese; la stessa frammentata ma
costante lotta che molte realtà associative combattono
contro le politiche segregative e repressive sui migranti, dal
CARA di Mineo a Lampedusa, Trapani, Caltanissetta, Catania,
Messina, ecc., che il 16 aprile si è data un momento
nazionale a Catania, contro Frontex, che nel capoluogo etneo
ha trasferito la sua sede centrale.
|
Messina - Una manifestazione No Ponte |
Radici comuni
Si tratta di conflittualità il cui tratto comune è dato dal disagio che le politiche economiche, qui anche con forte impronta colonialista, hanno provocato, distruggendo legami comunitari, ambienti naturali, attività lavorative, portando alla scomparsa di interi comparti o ad una insopportabile subalternità.
Il disagio di contadini, ceti medi impoveriti, artigiani sempre più marginalizzati, è stato alla base della nascita del movimento dei Forconi, che ha provato a intercettarlo, senza però riuscire a dargli un respiro capace di permettere alle diverse realtà giustamente mobilitate e fortemente arrabbiate, di potersi dare un livello decente di autorappresentazione. Così la spaccatura fra settori (anche politici) e fra correnti, ha partorito l'ennesimo movimento che si è dato uno sbocco elettorale dal quale è uscito devastato e ridimensionato.
Eppure quello dei Forconi, visto da vicino, aveva in sé tutte le basi per diventare un movimento di emancipazione reale, rappresentando l'irrompere sulla scena di un protagonismo popolare per anni tenuto a bada da sindacati e associazioni di categoria; i blocchi del 2011 sono stati veri momenti di democrazia dal basso; purtroppo, l'immaturità dei soggetti, l'ingenuità diffusa dopo anni di gregarismo, la composizione sociale e la scelta di campo delle realtà politiche militanti, che nella stragrande maggioranza hanno osservato con la puzza sotto il naso e i paraocchi la realtà che si manifestava tutti i giorni, han fatto si che i Forconi venissero lasciati a se stessi, terreno di caccia per vecchi, e soprattutto nuovi politicanti.
Come accennato prima, le lotte operaie, in una terra a bassa intensità lavorativa, sono state prevalentemente quelle nei grandi poli industriali; lotte ondivaghe, quasi sempre per la difesa del posto di lavoro, e per ciò, cieche rispetto alle gravi ripercussioni che l'industrializzazione aveva avuto sulla salute degli abitanti (e degli stessi lavoratori) e sull'ambiente, senza parlare della corruzione materiale e morale che l'impatto della chimica ha portato, trasformando le società preesistenti, generalmente contadine-artigiane, in succursali clientelari della grande industria e della politica ad essa asservita, con irruzione della mafia nel settore degli appalti. Solo dopo il progressivo esaurirsi delle politiche assistenziali, che per decenni hanno dato ossigeno a industrie agonizzanti e tenute in piedi solo da necessità politiche, le recenti minacce di chiusura, collegate alla crisi della chimica, hanno imposto una nuova sensibilità, in cui trovano spazio finalmente le proteste contro l'impatto dell'inquinamento, le malformazioni neonatali, le morti per cancro, la necessità di bonificare l'ambiente e di ristrutturare in senso “ecologico” le industrie (a Gela si parla di biochimica, un ossimoro tragico e comico nello stesso tempo).
L'ideologia delle grandi opere
La grande mobilitazione contro il Ponte sullo Stretto, da come
si evince nella narrazione che ne fanno Antonio Mazzeo, mediattivista,
e Luigi Sturniolo, della Rete No Ponte - Comunità dello
Stretto, è riuscita a costruire una coscienza diffusa
attorno a un tema niente affatto facile. L'idea-sogno di un
attraversamento stabile dello Stretto è antica forse
quanto la Sicilia, ma solo con l'arrivo al potere della banda
di pescecani che negli anni novanta ha imposto l'ideologia delle
Grandi Opere, permeando di sé tutto l'arco politico parlamentare
e i governi che ne sono scaturiti, essa è diventata realtà.
Smontarla pezzo per pezzo è stato compito arduo, costruito
con la pazienza della famosa vecchia talpa, giorno per giorno,
fino a quando l'insostenibilità del ponte non è
apparsa non solo una questione tecnica o ambientale, ma soprattutto
una questione sociale.
E allora le cose sono cambiate, a Messina, in Sicilia, in Calabria,
terre affette da problemi gravissimi, volutamente irrisolti,
ma senz'altro prioritari per la gente. Da allora - siamo già
al primo decennio del 2000 - le certezze sul ponte non sono
più state tali, e l'opinione pubblica in generale lo
ha visto solo come l'ennesimo tentativo di drenare denaro pubblico
sottraendolo ai servizi essenziali, alla salvaguardia del territorio,
alla ristrutturazione della disastratissima rete dei trasporti
pubblici. Altro che ponte.
E anche oggi, nonostante il via vai di dichiarazioni di Alfano,
Renzi, Del Rio, la questione rimane appunto questa: il ponte
non è prioritario, e si farà, se si farà,
solo dopo aver realizzato le opere più urgenti per le
aree delle due sponde. Cioè: mai.
Pippo Gurrieri
Storia
di un ponte senza ponte
intervista ad Antonio Mazzeo e Luigi Sturniolo
di Pippo Gurrieri
Il ponte non c'è mai stato e probabilmente
non ci sarà. C'è invece una “narrazione”
del ponte, un modello culturale che si vuole imporre. Fatto
di drenaggio di risorse pubbliche in favore di interessi privati,
di esautoramento delle volontà locali e di devastazione
ambientale.
Qual è lo stato attuale della questione ponte?
Può definirsi chiusa o solo sospesa? Sono prevedibili
scenari futuri, anche alla luce dell'ambiguità del governo
Renzi e degli annunci di Alfano e Patuelli?
Il Ponte non c'è mai stato, non c'è, né
ci sarà. Esiste invece una “narrazione” del
Ponte, quella sì che continua ad esistere, strumentalmente
riesumata, una volta dalle imprese General contractor (contraenti),
un'altra da qualche soggetto politico.
Il fine rimane l'imporre il modello “culturale”
dominante delle Grandi Opere, la depauperazione delle sempre
più ridotte risorse pubbliche a favore degli interessi
dei grandi gruppi economico-finanziari privati, l'esautoramento
delle volontà popolari locali e dei soggetti amministrativi
che dovrebbero governare i territori, il saccheggio urbanistico
e la devastazione ambientale.
Per ritentare la narrazione del Ponte c'è chi sfrutta
ovviamente la crisi socio-economica (quella generata dal modello
neoliberista imperante), gli alti tassi di disoccupazione generale,
la precarietà delle vite di milioni di persone, il falso
spauracchio delle “penali” (si arriva a parlare
perfino di un miliardo di euro che lo Stato dovrebbe rimborsare
al pool di società vincitrici della gara per la progettazione
ed esecuzione dell'ecomostro sullo Stretto). Si tace, invece,
sul fatto che la politica delle Grandi Opere è caratterizzata
in larga misura da progetti senza opera, senza cantieri, senza
lavoratori.
Sulle “penali” abbiamo ripetuto per anni che sarebbe
stato doveroso porre nelle sedi istituzionali la questione della
loro legittimità. Comunque ricordiamo che esse potevano
essere prese in considerazione solo dopo l'approvazione da parte
del CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica)
del progetto definitivo ed esecutivo del Ponte. Evento, che
sino ad oggi non risulta essersi mai verificato.
Resta comunque forte il rischio che si possa dare il via al
Ponte senza Ponte, dirottando l'ammontare delle presunte
“penali” per la realizzazione della sterminata lista
di opere pseudo-compensative che amministratori, studi di progettazione
e potentati economici locali hanno strappato in cambio del loro
sì o dei loro “nì” alla costruzione
del manufatto. Una lista che di tanto in tanto ritorna in vita
anche per bocca di alcuni di quei soggetti che sono stati attivi
nel movimento No Ponte. Pensiamo, ad esempio, all'amministrazione
comunale di Messina del sindaco Renato Accorinti che ha ottenuto
l'inserimento nel cosiddetto Masterplan della città metropolitana
(l'ennesima lista di opere in buona parte inutili o altamente
impattanti per l'ambiente e il territorio che sono riproposte
ad ogni buona occasione per strappare consensi o fomentare clientele)
del Piano di “riqualificazione” dell'area di Capo
Peloro, un progetto risalente al 1999, funzionale alla cementificazione
della fragile costa e alla privatizzazione delle spiagge, realizzato
dallo studio di cui è co-titolare l'odierno assessore
all'Urbanistica e ai lavori pubblici, l'ingegnere Sergio de
Cola, e che era stato inserito dal General contractor tra le
opere da realizzare con i fondi compensativi e che successivamente,
la stessa amministrazione Accorinti “No Ponte” aveva
chiesto di finanziare attingendo alle (ex) risorse pro-Ponte.
Le vicende relative alla “narrazione” delle penali
e alla stessa regolarità della gara per l'identificazione
del General contractor sono piene di ambiguità, colpi
di scena, eventi su cui avrebbe fatto bene ad indagare la stessa
autorità giudiziaria. In passato abbiamo ricostruito
le innumerevoli zone d'ombra di quella che continuiamo a ritenere
una delle opere “immaginarie” su cui la borghesia
mafiosa locale e internazionale ha più puntato.
Recentemente si è tornato a parlare del pressing che
le grandi società di costruzione hanno esercitato sul
governo e il parlamento per capitalizzare perlomeno le risorse
fittiziamente destinate alle “penali”. La Procura
di Reggio Calabria, nel corso di un'indagine, ha acquisito i
tabulati delle telefonate intercettate alla fine del 2012 alla
storica portavoce dell'ex ministro Maroni, odierno presidente
della regione Lombardia, nelle quali l'amministratore delegato
del gruppo Salini, oggi al controllo del colosso Impregilo,
chiedeva con insistenza che la Lega impedisse l'approvazione
del decreto Monti che “riduceva” l'ammontare delle
penali al mero pagamento dei costi reali di progettazione.
Come si è giunti all'attuale situazione? È
stata tutta “colpa” delle lotte o anche della situazione
economica in cui si dibatte l'Italia?
Sarebbe del tutto storicamente ingiusto e ingeneroso non riconoscere
il ruolo, la determinazione, la forza e le capacità di
mobilitazione e analisi del Movimento No Ponte e come le sue
campagne di lotta siano state determinanti per “chiudere”
almeno sino ad oggi la partita sul Mostro dello Stretto.
Certo, l'esplosione della crisi, congiuntamente ad altri eventi
che hanno segnato la recente visita economica nazionale e internazionale
(le politiche di aggiustamento strutturale Ue, le dimensioni
del debito pubblico, le distorsioni anche criminali generate
dalle Grandi Opere e dallo stesso modello di project financing
e intervento dei “privati”, ecc.) hanno contribuito
alla sconfitta del pensiero unico del Ponte. In particolare,
è risultato sempre più indifendibile il Piano
Finanziario del Ponte, basato su previsioni di attraversamento
clamorosamente contraddette dall'esperienza empirica.
Crediamo, comunque, che vada difesa sino in fondo la straordinaria
esperienza messa in campo per oltre 15 anni dalle variegate
realtà che hanno contribuito al Movimento. Forse, oggi,
col senno del poi, potremmo affermare di aver sopravvalutato
i rapporti di forza all'interno delle diverse soggettività
che hanno caratterizzato il fronte del No, anch'esso –
come i movimenti che tradizionalmente si sono opposti in Italia
alle Grandi Opere e ai processi di militarizzazione del territorio
– contraddistinto dal pluralismo politico-sociale e di
classe. Forse, cioè, abbiamo peccato nella convinzione
che le ragioni nostre, quelle delle aree più radicali
e antagoniste, fossero pienamente condivise finanche dalla borghesia
locale “illuminata” schieratasi contro il Ponte.
Si è trattato di un errore di valutazione che stiamo
pagando pesantemente oggi con l'esperienza dell'amministrazione
Accorinti a Messina, un'elezione avvenuta grazie alla lotta
No Ponte ma senza le ragioni, la visione altra e i protagonisti
veri della lotta No Ponte.
|
Torre
Faro e Ganzirri (Messina) - Il luogo dove avrebbe
dovuto sorgere il pilone siciliano del ponte |
|
Un mostro divoratore di risorse
Parlaci della Società Stretti di Messina, per
anni una centrale di potere e di propaganda pontista, ha divorato
milioni (quanti?) e non ha prodotto nulla. Perché? Grazie
a chi?
Sì la Società Stretto di Messina, per lunghi anni
è stata allo stesso tempo divoratrice di ingentissime
risorse finanziarie (oltre 300-350 milioni di euro sperperati
per l'affidamento di studi di massima, più altri 8-9
milioni all'anno in stipendi e inutili uffici di rappresentanza
), strumento di propaganda e imposizione del consenso, finanche
cimitero degli elefanti per quei politici trombati da lunga
data. Una società-affaire funzionale al capitale bancario
e finanziario che controlla le grandi società di costruzioni
e i cui consigli di amministrazione sono seme e frutto dei legami
mai recisi tra politica e imprenditoria, con le conseguenze
e le storture – vedi in particolare i capitoli relativi
alla gestione delle risorse e delle spese – che abbiamo
conosciuto e denunciato in tutti questi anni.
Com'è cominciata la lotta No Ponte; raccontaci
alcuni momenti salienti.
Ricordiamo ancora, a metà anni '80 un primo incontro-dibattito
promosso da Democrazia proletaria e dal Comitato Messinese per
la pace e il disarmo unilaterale in cui un manipolo di attivisti
e un paio di sociologi dell'Università di Messina espressero
il proprio No incondizionato a un'opera-immagine che iniziava
a fare da protagonista nel dibattito politico-amministrativo
della città, con il consenso unanime delle forze politiche
(PCI in testa), delle organizzazioni sindacali e dell'associazionismo
in genere.
Bisognerà però attendere la seconda metà
degli anni '90 perché il tema venisse seriamente discusso
tra le aree di movimento, la sinistra radicale e le associazioni
ambientaliste. Ovviamente quando l'utopia Ponte divenne
il progetto centrale della borghesia imprenditoriale locale
e interregionale, sostenuto da quasi tutti i partiti e dalle
amministrazioni locali di centrodestra e centrosinistra e ben
oleato e sponsorizzato dai quotidiani e dalle emittenti televisive
locali (fino alla cooptazione del loro direttore alla guida
della Società Stretto di Messina Spa), si iniziarono
a sviluppare reti di confronto e dibattito tra le realtà
che nelle due sponde dello Stretto iniziavano a prendere coscienza
dell'insostenibilità socio-economica e ambientale del
Ponte e del modello stesso delle Grandi opere sostenuto dal
neoliberismo. Ambientalisti, centri sociali autogestiti, militanti
No Global e No War, alcune mosche bianche delle Università
calabresi e di Messina, il sindacalismo di base, i Verdi, prima
alcuni iscritti poi tutto il Prc, collettivi di anarchici, ex
occupanti delle Università contro i piani di privatizzazione
del sapere, ecc., diedero vita a forme di coordinamento dal
basso copromuovendo campagne di sensibilizzazione, le prime
manifestazioni con cortei e i campeggi estivi No Ponte, certamente
queste ultime tra le esperienze che più hanno contribuito
alla crescita della mobilitazione generale e alla presa di coscienza
di sempre più ampie fasce di popolazione locale.
Così sino all'affermazione - nei primi anni del 2000
- del Movimento No Ponte come uno dei soggetti politici più
rilevanti nel panorama delle lotte dal basso, con capacità
di mobilitazione e di consenso ormai sempre più rare
nella recente storia del Sud Italia.
La svolta del Movimento avviene nel 2002. È l'anno del
primo campeggio No Ponte. Ne seguiranno altri due, su entrambe
le sponde, nei due anni successivi. I campeggi segnano il passaggio
dal movimento d'opinione alla mobilitazione di piazza. Siamo
negli anni di quello che viene definito movimento no global
e a Messina si è reduci dalla mobilitazione contro l'attraversamento
della città da parte dei Tir. La prima manifestazione,
che si svolge al termine del primo campeggio, vede la partecipazione
di centinaia di persone. Ne seguiranno tante altre, fino a culminare
nel corteo del gennaio 2006, formato da circa 20.000 persone,
con delegazioni provenienti da molte città italiane.
Importante la presenza di 300 attivisti No Tav che aprono il
corteo. Sono gli anni del massimo fulgore della Legge Obiettivo
e l'analisi del movimento, che va ben al di là di una
opposizione di carattere meramente ambientalista, è capace
di dare una lettura politica della speculazione finanziaria
e della trasformazione in senso autoritario dei meccanismi di
realizzazione delle opere pubbliche.
L'ascesa al governo del centrosinistra e di Prodi mette il Ponte
in stand-by. Sarà il nuovo governo Berlusconi
a rilanciarne il progetto. Ripartono, quindi, nel 2009, le manifestazioni.
L'ultima di queste, a ponte ormai bloccato, avrà come
piattaforma il rifiuto del riconoscimento delle penali alla
società Impregilo. Siamo, praticamente, alla fase attuale.
Intanto la Rete No Ponte a Messina è diventata un'aggregazione
politica che va oltre il tema della lotta contro il Mostro sullo
Stretto e produce una generazione di giovani attivisti che saranno
i protagonisti della nuova fase del Movimento.
Di certo quella esperienza è alla base di quello che
si muoverà poi intorno alla categoria dei beni comuni
e avrà influenze importanti sull'esperienza elettorale
di Renato Accorinti e Cambiamo Messina dal Basso.
|
Messina - L'occupazione di un traghetto da parte degli attivisti
No Ponte |
Irrealizzabile. Da sempre
Ci sono stati momenti in cui si profilava una sconfitta?
Siamo stati sempre consapevoli della disparità di forze
in campo tra il Movimento No Ponte e i gruppi finanziari, bancari,
industriali e politici che per decenni hanno rappresentato il
fronte pontista, ma non crediamo che le preoccupazioni nostre
fossero determinate dalla possibilità che alla fine l'Ecomostro
dello Stretto venisse alla luce, quanto invece che si sarebbero
potuto avviare le opere “propedeutiche” alla realizzazione
dell'opera, o quelle ad esempio, cinicamente presentate come
“compensative” delle amministrazioni locali, in
concreto cioè le devastanti arterie stradali e ferroviarie
di collegamento nel messinese e in Calabria, lo sventramento
delle colline a monte, la movimentazione di milioni di metri
cubi di terra, la cementificazione delle aree sopravvissute
all'urbanizzazione selvaggia dei territori, ecc.
Stiamo parlando di quel Ponte senza Ponte che descrivevamo
prima, in linea con il modello della progettazione per la progettazione
che ha segnato la storia del manufatto-fantasma, prorogando
all'infinito il saccheggio di enormi risorse pubbliche da parte
dei Padrini del Ponte. Non abbiamo creduto cioè, mai,
che il Ponte fosse realizzabile (per ovvi motivi di ordine strutturale-ingegneristico,
economico, ecc.) ma abbiamo sempre temuto che i disegni e i
progetti meramente speculativi e fortemente impattanti dal punto
di vista sociale e ambientale che ruotano attorno al “Ponte”
– mai contrastati del resto da quelle aree di borghesia
“illuminata” che a parole si sono schierate contro
– possano andare avanti ancora.
Qual è stato il rapporto tra movimento e popolazione
(messinese, calabrese, siciliana)?
Il Movimento No Ponte ha avuto una dimensione consistente, ma
non è mai diventato davvero popolare. Le manifestazioni
calabresi sono state prevalentemente partecipate da attivisti.
A Messina c'è stato un maggiore coinvolgimento della
cittadinanza, ma questo ha riguardato soprattutto le fasce,
prevalentemente giovanili, più scolarizzate, del centro
cittadino e della zona di Torre Faro (dove era prevista la torre
del lato messinese). Per quanto almeno la parte più radicale
abbia provato a legare i temi sociali alla battaglia No Ponte,
in realtà non si è mai riusciti a coinvolgere
gli strati più poveri e le periferie. Da indagare sarà,
soprattutto per le prossime esperienze delle lotte in difesa
del territorio, la componente più nimby, che è
stata di sicuro presente anche nell'esperienza messinese. Così
come da indagare sarà il tema della difesa della proprietà
dalla devastazione della grande opera.
Solo dimostrando che la grande opera non è opera pubblica
sarà possibile non cadere, cioè, nella contraddizione
della difesa della villetta, magari del ricco locale, contro
l'opera infrastrutturale.
Parlaci del ruolo di tecnici e scienziati nella costruzione
dell'opposizione al Ponte
Come in qualsiasi relazione dialettica tra soggettività
differenti (“esperti”, “tecnici” e “accademici”
da una parte, attivisti e movimentisti dall'altra), le relazioni
sono state complesse, talvolta tormentate (specie quando i primi
tentavano di far pesare il loro ruolo nella fissazione degli
obiettivi a breve e medio termine della mobilitazione o a proporsi
loro stessi alla “guida” delle campagne), ma comunque
alla fine determinanti per la crescita qualitativa delle analisi
e delle ragioni del “No”. Certamente va riconosciuto
ai “tecnici” un ruolo decisivo sul fronte più
prettamente “formale” nel Movimento No Ponte, nella
predisposizione ad esempio delle centinaia di osservazioni ingegnerestiche,
socioeconomiche, ambientali per sbugiardare la presunta sostenibilità
del manufatto, dell'intero modello delle Grandi Opere e dello
strumento del General contractor.
Tuttavia c'è un ruolo “scientifico” che va
riconosciuto anche a soggettività più meramente
movimentiste. Non è un caso che alcune delle pubblicazioni
di tipo documentale-informativo e la predisposizione di archivi
e siti internet specializzati, ampiamente utilizzati nelle campagne
di controinformazione con la popolazione, siano stati autoprodotti
da attivisti e magari pubblicati da case editrici di movimento
(pensiamo ad esempio a Terrelibere.org e Sicilia Punto
L degli anarchici ragusani). Nonostante cioè le ovvie
tensioni, si sono creati circuiti di reciproca alimentazione
tra “tecnici” e “attivisti”, che ha
avuto effetti importanti anche dal punto di vista dell'uso e
della contaminazione dei distinti linguaggi e, ovviamente, per
l'esito delle campagne di lotta.
Come si è sviluppato il rapporto del movimento
No Ponte con altre realtà di lotta sia in Sicilia sia
“in continente”?
La presenza delle realtà politiche esterne all'area dello
Stretto è stata decisiva soprattutto nella fase iniziale
delle mobilitazioni. Senza la Rete del Sud Ribelle il
primo campeggio non si sarebbe neanche svolto, ma anche successivamente
gli attivisti esterni che hanno generosamente portato il loro
contributo alla lotta (pensiamo ad esempio ai No Tav)
sono stati importantissimi, sia nel numero che nelle sollecitazioni
dal punto di vista dell'analisi. Migliaia di compagni hanno
partecipato a campeggi e cortei. Alcune centinaia di questi
sono tornati ripetutamente. Se un limite c'è stato, forse
questo è consistito nel non essere riusciti ad approfittare
di questa “occasione” per costruire una vera rete
di realtà capace di una forte battaglia generale contro
la Legge Obiettivo e la strategia delle Grandi Opere. Si fosse
realizzata quella, forse saremmo stati in grado di reggere,
poi, successivamente, anche all'avanzata dei processi di privatizzazione
dei beni comuni e dei servizi pubblici locali.
Esistono ancora oggi le condizioni per una eventuale ripresa
della mobilitazione?
A Ponte fermo è difficile ipotizzare una mobilitazione.
Il tema delle penali è fondamentale, ma, evidentemente,
non è capace di stimolare una larga partecipazione. Purtroppo,
bisogna registrare che la diffusione della lotta continua ad
essere più semplice quando il processo di devastazione
del territorio appare più evidente, con l'apertura dei
cantieri o la formalizzazione dei progetti. È di certo
un limite dei movimenti non essere capaci di far capire quanto
una politica delle infrastrutture che genera pochi cantieri
e mobilita pochi lavoratori dilapidi in realtà ingenti
quantità di denaro pubblico che andrebbero usate per
opere prossime ai cittadini.
Sarà questa, noi riteniamo, la scommessa dei futuri movimenti
territoriali.
Pippo Gurrieri
|