tatuaggi
I nostri principi sulla pelle
testo e illustrazioni di Oliviero “Olli” Venturini
Quando abbiamo ricevuto questa lettera,
lunghissima, di un tatuatore “comunista anarchico”,
a proposito dello scritto di Gaia
Raimondi su “A” 402 (novembre), abbiamo pensato
di proporre all'autore di metterla, ben accorciata, appunto
tra le lettere. Quando poi l'abbiamo esaminato, ci è
parso un contributo decisamente interessante e lo pubblichiamo
integralmente. Il dibattito è aperto, anche ai non tatuatori.
E ai non tatuati (come noi di “A”).
Salve
a tutti/e compagni e compagne di A, volevo ringraziarvi e complimentarmi
per lo splendido articolo sui tatuaggi anarchici apparso sul
numero 402 della rivista.
La ragione per cui vi scrivo è che l'argomento che avete
trattato è oggetto di una mia ricerca personale. Negli
ultimi anni, nel mondo dei tatuaggi, che attrae sempre più
gente di ogni estrazione sociale, c'è stata una riscoperta
del tatuaggio tradizionale.
Sulle riviste specializzate è stato scritto molto e possiamo
trovare articoli sul tatuaggio: dei marinai, quello militare,
criminale, religioso, nobiliare, delle prostitute, gli artisti
circensi, la camorra, gli omosessuali, legione straniera. Ma
fino ad ora, nessuno ha svolto una ricerca approfondita su un
genere di tatuaggio, che ritengo sia stato un fenomeno importante
nella storia del tatuaggio tradizionale europeo: quello di appartenenza
politica del proletariato.
Sono un tatuatore comunista anarchico della provincia di Rimini,
ho 42 anni ed il primo tatuaggio me lo sono fatto a 15 anni
sui banchi di scuola con un compasso: un'A cerchiata. Da 20
anni faccio questo mestiere e siccome l'ideale ci guida nelle
nostre scelte nella vita reale, anche sul lavoro implica delle
conseguenze. Ad esempio, il mio rifiuto di eseguire tatuaggi
di destra, ha spinto un gruppo di Forza Nuova a compiere delle
intimidazioni (ronde in macchina davanti allo studio, svastiche
sulla cassetta delle poste). Per fortuna, all'epoca, lo studio
era trafficato da punks, redskins, militanti dei centri sociali
e da tutta una serie di individui estranei alla politica, ma
poco raccomandabili. Ho saputo anni dopo, da un “pentito”
di Forza Nuova, che un giorno, durante una di queste ronde,
mi videro fuori dallo studio, ma siccome ero con altre persone,
decisero di non agire. Potete anche immaginare che ho tatuato
decine di compagni ed antagonisti di ogni tendenza. Qui entro
nel vivo dell'argomento che mi preme trattare: la storia del
tatuaggio anarchico e politico della classe operaia in generale.
La simbologia del tatuaggio contemporaneo, a parte il messaggio
che vuole trasmettere, non ha niente a che fare con quello tradizionale
perché prende ispirazione dal punk e da tutto il bagaglio
culturale della sinistra post '68, con slogan, volti del Che,
A cerchiata, simboli anti fa, ecc., mentre quello tradizionale
non è stato tramandato, saltando diverse generazioni.
Questo mi ha spinto, da due anni a questa parte, ad un'estenuante
ricerca di materiale, per cercare di mettere assieme i pezzi
e riportare alla luce una pratica che in Europa era molto diffusa
fino all'avvento del nazismo (più avanti vedremo perché).
La cosa più difficile da reperire è il materiale
fotografico, fino ad ora, l'immagine più interessante
è quella che ci arriva da Favignana, che ritrae un anarchico
a torso nudo, con il petto decorato in questo modo: W.L.R.S.A
(Viva la Rivoluzione Sociale Anarchica), una fiaccola ed un'ascia
incrociate con sopra il sol dell'avvenire e sull'avambraccio
sinistro, il nome Caserio. Potete immaginare la mia gioia quando
ho letto sul blog “Oltre la Pelle”, l'articolo sugli
internati di Favignana. Per la prima volta, potevo leggere cosa
si tatuavano i nostri vecchi compagni, qui in Romagna, come
in Toscana e nelle Marche: le iniziali W.A (Viva l'Anarchia),
W.L.R.S (Viva la Rivoluzione Sociale), il guerriero con pugnale
alzato, elmo e gambali, capeggiato dalla scritta Viva l'Anarchia;
si tratta probabilmente di Spartaco, una figura cosi stimata
dai militanti dell'epoca, che in molti decisero di omaggiarlo,
dando ai loro figli lo stesso nome.
Il divieto da parte della Chiesa cattolica
Un'altra preziosa testimonianza l'ho trovata sul sito di Radio
Maremma Rossa, che riporta la memoria di Lelio Iacomelli. Ve
ne riporto un estratto: il padre si chiama Alfredo ed è
un anarchico poverissimo che fa lo straccivendolo. Lelio nasce
nel 1903 a Ravi e comincia a lavorare appena terminato le elementari.
Attorno ai 15 anni si avvicina agli anarchici di Gavoranno e
Scarlino, e comincia a frequentare, i circoli Germinal e Pietro
Gori di Grossetto. Nel Biennio Rosso partecipa alle manifestazioni
proletarie di protesta, che hanno luogo in Maremma, e si fa
tatuare sull'avambraccio sinistro una bomba con miccia, circondata
dalla scritta “W la Liberta e l'Anarchia”, ed una
stella con falce e martello. Iscrittosi alla gioventù
comunista, ne uscirà poi insieme ad altri compagni, per
tornare nel movimento anarchico. Uno di questi, Soldati Otello,
farà questa dichiarazione al segretario dell'organizzazione:
“noi diamo le dimissioni dalla federazione giovanile comunista,
perché abbiamo fatto un passo in avanti, siamo diventati
anarchici”.
Il
tatuaggio della Falce e Martello, lo ritroviamo anche sul libro
“Ndrangheta Eversiva”, dove spiega che in molti
comuni della fascia ionica, i mafiosi che tornavano dal confino,
imposto dal regime fascista, portavano tra i vari tatuaggi,
anche una falce e martello. Erano stati i confinati politici
di area social comunista ad indottrinarli. I mafiosi, come gli
oppositori del regime, s'erano infatti ritrovati a vivere gomito
a gomito lontani dalle terre d'origine.
Ma quanto è antico il nostro tatuaggio tradizionale?
Mi sono posto questa domanda. Nel 786 d.c . il tatuaggio fu
proibito dall'istituzione più reazionaria che conosciamo,
la chiesa, con il concilio ecumenico di Papa Adriano I. Nonostante
il veto papale, due categorie di tatuaggi resistettero e sopravvissero
in clandestinità: il tatuaggio dei pellegrini, praticato
dai frati e quello degli artigiani, che quasi in tutta Europa,
portavano avanti la tradizione di tatuarsi il simbolo del loro
mestiere.
Dovranno trascorrere quasi mille anni, perché l'Europa
assista ad una rinascita del tatuaggio. L'evento significativo
fu la scoperta di Tahiti, da parte di James Cook, nel 1769.
Descritta da lui come un “paradiso terrestre”, abitato
da esseri liberi e incontaminati. Philibert Commerson, membro
di una spedizione che approdò sull'isola pochi anni dopo,
scrisse: “quell'isola mi parve tale che le attribuì
subito il nome di Utopia, come Thomas More alla sua repubblica
ideale. Il nome che le destinai, si addiceva ad un paese, forse
l'unico sulla terra, in cui gli uomini vivevano senza vizi,
senza pregiudizi e senza discordie interne.” Le notizie
sul paradiso terrestre furono usate dall'illuminismo, per criticare
l'Europa assolutistica. Tahiti rappresentava un altro mondo
possibile ed il tatuaggio apparve agli europei come la scrittura
di tale mondo. A Tahiti, non solo si erano fatti tatuare gli
equipaggi e gli ufficiali, ma il capitano Cook ne aveva esportato
il termine Ta-Tau e portò con se Omai, il primo indigeno
tatuato, esposto in Europa, suscitando interesse e ammirazione.
Di li in avanti, il tatuaggio tornerà a diffondersi nel
vecchio continente.
Se abbiamo visto che durante il proibizionismo, per una delle
due categorie di tatuaggi, centrale è il tema del lavoro,
per il tatuaggio rivoluzionario vero e proprio, si dovrà
aspettare una vera e propria rivoluzione: quella francese. Anche
qui reperire informazioni è molto dura, ma si sa che
in tanti si fecero tatuare il cappello frigio con i motti della
rivoluzione. L'unica testimonianza che ho raccolto, sembra frutto
di una barzelletta antimonarchica e si tratta del misterioso
tatuaggio di Jean Bernadotte, maresciallo francese, veterano
della rivoluzione, incoronato re di Svezia nel 1818.
Su Wikipedia è riportato l'aneddoto (mai confermato)
che durante il suo regno non abbia mai permesso ad alcun medico
di esaminargli il petto. Il mistero svanì con la sua
morte, quando in occasione della toelettatura funebre fu scoperto
un tatuaggio: “morte ai re”. Quest'aneddoto è
stato inserito in alcuni testi di storia, con l'unica differenza
che alla scritta “morte ai re”, seguiva un “viva
la repubblica”.
Si possono trovare anche versioni differenti, come quella fornita
dal dizionario del tatuaggio, di Luisa Gnecchi Ruscone: qui
il medico che dovette eseguire un salasso, scoprì sulle
braccia una serie di segni, tra questi vi era un berretto frigio
ed il motto “libertè, egalitè, fraternitè,
morte ai re”.
C'è chi sostiene che il tatuaggio sia invenzione di un'opera
teatrale presentata a Parigi nel 1833, che metteva in scena
il dialogo tra il monarca e l'ex granatiere che lo aveva marchiato
con polvere da sparo.
Non so dirvi se la verità stia nel mezzo o altrove. Non
è così assurdo che Barnadotte avesse un tatuaggio
di questo tipo, se consideriamo che egli non era di sangue nobile,
ma figlio di un'avvocato, e che durante la rivoluzione aderì
al club dei Giacobini.
Il dato interessante ai fini della mia ricerca, è che
se qualcuno abbia potuto speculare sull'esistenza o meno di
questo tatuaggio, lo ha potuto fare, in quanto marchiarsi era
pratica diffusa tra i rivoluzionari.
Se la rivoluzione francese segna l'inizio di questo fenomeno,
nella seconda metà del '800 si verificò un boom
del tatuaggio paragonabile a quello odierno. Si suppone che
circa il 15% della popolazione europea fosse tatuata. La percentuale
più alta era costituita dal proletariato, ed agli artigiani
si aggiunsero i braccianti e gli operai. La febbre del tatuaggio
contagiò categorie di persone socialmente e culturalmente
molto distanti tra loro, dai militari alle prostitute, dall'aristocrazia
ai galeotti, risparmiando invece la borghesia, che ebbe sempre
nei confronti del tatuaggio, un atteggiamento di netto rifiuto.
Il periodo che va dalla seconda metà dell'800 ai primi
decenni del '900, dove abbiamo visto che una folta minoranza
di lavoratori era tatuata, corrisponde al periodo nel quale
le masse operaie iniziano ad emanciparsi e ad organizzarsi in
movimenti di massa. Molti di loro conosceranno anche le carceri
o il confino dove incontreranno altre categorie di tatuati.
Tra la popolazione carceraria dell'epoca, oltre alle scritte
anarchiche e garibaldine di Favignana, ho trovato queste: “ne
dio, ne padrone”, “morte agli sfruttatori”,
“senza patria”, “vittima del militarismo”
ed una tomba con scritto “qui troverò l'uguaglianza”.
Questo ritengo sia il periodo di massima diffusione del tatuaggio
che ci riguarda e come vi ho anticipato ebbe il suo epilogo
con l'avvento del nazismo. Nella Germania di allora, chi si
tatuava apparteneva con l'esclusione di pochi aristocratici,
alla classe operaia. I soggetti più comuni dei loro tatuaggi
erano quelli classici d'amore, dei marinai, quelli legati alla
professione e quelli politici di tipo comunista. Per questo
motivo, i tatuatori accusati di essere sovversivi, furono tra
i primi deportati in campi di concentramento. Vennero imprigionati
alcuni tatuatori famosi come Willy Blumberg di Kiel che mori
durante la prigionia, Hans Kuchenbecker di Emden e Albert Heinze
di Berlino. Soltanto ad Amburgo, che era allora il porto principale
di comunicazione con gli Stati Uniti, fu concesso a Warlich
di continuare a tatuare. Warlich non era nazista, probabilmente
gli fu concesso di lavorare perché Amburgo era piena
di marinai americani e il regime nazista non voleva mostrare
all'estero la sua immagine repressiva.
Quel numero maledetto tatuato nei lager
Parlare del tatuaggio in Germania, ci dà l'opportunità
di elencare alcuni fatti che servono a ricostruire una memoria
storica, riportando alcune delle atrocità commesse nei
campi di sterminio, che hanno tristemente a che fare con i tatuaggi:
la pratica di marchiare gli ebrei con un numero sull'avambraccio,
come segno di riconoscimento, ma anche di spregio, o la macabra
moda di uccidere i prigionieri con tatuaggi di buona fattura
e conciarne la pelle per realizzare lampade, borsette ed altri
oggetti, che ricordano tanto le teste maori tatuate, vittime
dell'imperialismo coloniale che adornavano i salotti europei,
fenomeno che ha costretto il popolo maori ad interrompere per
un lungo periodo la pratica del tatuaggio facciale.
Ma torniamo alla Germania, l'idea di quanto fosse diffuso il
tatuaggio fra la classe operaia tedesca, ce la fornisce Herbert
Hoffman, tatuatore di Amburgo, classe 1919, che ho avuto il
piacere di incontrare in un paio di occasioni. Nel 2004, cinque
anni prima della sua morte, pubblica un libro fotografico di
ritratti (quasi tutti di lavoratori, tatuati tra 1878 e 1952)
Bilderbuchmenschen. Un documento straordinario che ci mostra
decine di lavoratori di ogni categoria, alcuni con il classico
cappello degli spartachisti, fotografati con i loro tatuaggi
e con a fianco una breve storia della loro vita.
Alcuni
sopravvissuti all'orrore e alla barbarie dei campi di concentramento,
portavano sulla loro pelle tatuaggi inquietanti, come Alfons
Devinast di Mainz, classe 1892, militante comunista, che portava
sul petto un'enorme tatuaggio raffigurante un antro oscuro con
un ingresso fatto di mattoni, dove all'interno erano ammassati
una miriade di teschi. Ma tatuaggi del genere sono la minima
parte, il grosso è costituito da tutto il catalogo del
tatuaggio tradizionale europeo, ed anche qua scovare immagini
di tatuaggi politici è arduo. Un motivo è che
le foto del periodo che interessano noi spesso mostrano tatuaggi
che sono diventati delle macchie informi, delle figure illeggibili.
Gli unici che hanno attirato la mia attenzione sono quelli di
una coppia tedesca di anziani coniugi, completamente inchiostrati,
che hanno rispettivamente: lei la scritta “libertè”,
centrata sul petto, alla base del collo e lui il volto di Garibaldi,
sul pettorale sinistro. Come abbiamo visto, fra gli internati
di Favignana, il tatuaggio garibaldino era molto popolare. All'epoca,
l'immagine dell'eroe dei due mondi era paragonabile alla figura
del Chè ai giorni nostri (non a caso, il soggetto più
tatuato tra i militanti di sinistra). Celebrato con una miriade
di quadri, cartoline e opuscoli con l'immagine di Garibaldi
e gli inni delle camice rosse, giravano ovunque. Divenne così
oggetto di un vero e proprio culto, tra quelle masse diseredate
che vedevano in lui un santo protettore, l'eroe a cavallo pronto
ad intervenire ovunque vi sia un sopruso. Un soggetto perfetto
da incidere sulla pelle!
Un altro simbolo piuttosto ricorrente fra i lavoratori immortalati
da Hoffman, è un tradizionale arrivato ai giorni nostri
e lo si può ancora trovare sui cataloghi di disegni nei
Tattoo Shop, si tratta delle due mani che si stringono, spesso
sormontate da un sole che sorge. Le mani rappresentano ovunque
il simbolo delle antiche società operaie di mutuo soccorso,
ma in Germania le troviamo anche sulla bandiera della lega Spartachista
del 1914 ed il sole è il sol dell'avvenire.
A proposito di tatuaggi che ancora oggi si possono trovare nei
cataloghi, ne esiste uno tradizionale americano che noi anarchici
conosciamo molto bene: il gatto nero arruffato, simbolo dell'anarcosindacalismo
americano. Chiudiamo la carrellata dei tatuaggi interessanti
trovati sul libro, con due coppie di martelli incrociati, una
esibita da Gerhar Meyer, muratore di Dusseldorf, classe 1891,
mentre gli altri due martelli, sormontati da un sole che sorge,
sono sul polso di un anonimo che Hoffman ritrae a fianco ad
Harry Hirsch, anch'egli tatuato, portuale di Amburgo con origini
ebraiche, fu costretto a cambiare nome per fuggire alle persecuzioni,
verrà arrestato nel '43 dalla Gestapo, in seguito ad
una soffiata.
Purtroppo, i due martelli incrociati sono oggi spesso esibiti
dal movimento naziskin. La cultura skinhead nasce alla fine
degli anni '60, fra i giovani proletari inglesi e ne fanno parte
anche figli di immigrati giamaicani. Non ha alcuna connotazione
politica, solo nei primi anni '80 il movimento si divide in
rossi e neri. Non so dire se gli skins abbiano preso i due martelli
dai simboli della classe operaia di cui facevano parte o dallo
stemma del Westham United, di cui erano tifosi, ma per quello
che riguarda i due lavoratori tedeschi, tenendo conto che si
sono tatuati molto prima dell'avvento del nazismo, si tratta
nel primo caso di un tatuaggio di mestiere, visto che a portarlo
era un muratore; ed il secondo potrebbe essere una variante
della falce e martello, dato che è sormontato dal sole
che sorge.
Herbert Hoffman, in un'intervista rilasciata a Luisa Gnecchi
Ruscone e pubblicata sul numero 67 della rivista Tattoo Life
ci parla dei tatuaggi della classe operaia tedesca: “Sono
cresciuto in una famiglia di artigiani e contadini di una piccola
città della Pomerania. I miei genitori hanno educato
me e miei fratelli, secondo il principio che l'uomo deve lavorare.
Intorno a me tutti lavoravano, gli uomini erano forti e le loro
mani erano grandi e callose, i tatuaggi erano piuttosto comuni,
disegni semplici, blu, sulle braccia e sulle mani, talvolta
sotto le camice da lavoro grigie si potevano intravedere grandi
tatuaggi sul petto. Nella mia immaginazione, i lavoratori ed
i tatuaggi erano tutt'uno, provavo un profondo rispetto per
quegli uomini senza pretese, laboriosi e soddisfatti. Osservavo
con attenzione ogni operaio, contadino, cocchiere, pecoraio
e garzone di stalla e ogni spacca pietra, o lastricatore stradale
che incontravo, guardavo loro le mani ed ero molto contento
quando le scoprivo tatuate.
Le persone altolocate, benvestite, gli impiegati, i commercianti
ed i funzionari non erano mai tatuati. Queste persone per me
erano aria, mi erano totalmente indifferenti, non li vedevo
nemmeno. In compenso, il mio interesse per la gente semplice,
povera e tatuata cresceva di continuo. Provavo ammirazione per
il loro atteggiamento e l'orgoglio con cui portavano i loro
tatuaggi. Più vi facevo caso e tanto più spesso
vedevo gente tatuata anche nelle nostre campagne, lontano dalla
città. Più tardi ne incontrai molti altri ancora
a Stettino e a Berlino: cocchieri, spazzini, personale dei circhi,
posatori di pietre per la strada, muratori, facchini, gente
che lavorava sulle chiatte dei fiumi, marinai, operai dei parchi
giochi e portuali. Li guardavo tutti con ammirazione e ogni
volta dicevo a me stesso che appena fossi stato un po' più
grande mi sarei tatuato. Sul molo di Stettino incontrai un ex
portuale sulla sedia a rotelle per un incidente. Quando gli
domandai dei tatuaggi che aveva sulle mani e sui lobi delle
orecchie, si denudò le gambe e mi mostrò che anche
esse erano piene di tatuaggi, cosi come il petto, la schiena
e tutte due le braccia. Mi diede suo indirizzo di casa e per
tanti anni, fino alla fine della guerra, non ho mai scordato
di mi mandargli di tanto in tanto, un pacchetto di sigarette.
Durante la campagna russa, nelle vicinanze di Starjerussa, incontrai
un gruppo di operai russi, prigionieri di guerra. Uno di loro
aveva le mani tatuate e, nonostante ci fosse divieto di parlare
con i russi, trovai il modo di rivolgergli la parola. Era molto
disponibile, mi mostrò che era tatuato anche sul petto,
le braccia e la schiena, che era decorata con una grande testa
di donna caucasica. Finché la mia divisione rimase nella
zona, l'ho approvvigionato quotidianamente di pane e sigarette.
I marinai, i più tatuati
Durante
un periodo di licenza a Stettino, incontrai sul molo un operaio
che aveva le mani completamente tatuate e gli domandai se sapeva
dove e da chi potevo farmi tatuare anch'io. Mi rispose: “sono
uscito or ora dal campo di concentramento e non ho proprio intenzione
di ritornarvi! Venni a sapere da lui qual' era la situazione
dei tatuatori e dei tatuati sotto il regime nazista. Nel 1944
la nostra divisione fu imbarcata a Reval. Nel breve periodo
in cui fermammo nel porto, riuscii a vedere ben tredici portuali
estoni tatuati! Quello stesso anno fui fatto prigioniero e deportato
nel campo di prigionia di Riga, dove incontrai in un deposito
di legname un sorvegliante che aveva i dorsi delle mani e gran
parte del corpo tatuati. Gli rivolsi la parola in russo, ma
mi rispose in un ottimo tedesco: era il lettone Gustav Wulf,
allora 69enne, che nel 1904 e 1905 fu imbarcato sulla corazzata
Potemkin (il 26 giugno 1905, dopo la fine della guerra russo
giapponese, con la disfatta navale russa, a Odessa era stato
dichiarato lo sciopero generale e il giorno dopo, per una questione
di cibo avariato, al largo della città si verificò
l'ammutinamento dei marinai della Potemkin. Il 28 giugno, quando
la salma del marinaio Vaculencuk fu portata a terra, a Odessa
scoppiò una rivolta ed a Liepaja insorsero gli equipaggi
della superstite flotta del baltico.) Quest'incontro di Hoffman
col suo carceriere, il vecchio marinaio rivoluzionario ci apre
scenari interessanti! In quel periodo, i marinai erano ovunque
la categoria più tatuata.
Resta difficile, dunque, credere che la febbre del tatuaggio
abbia risparmiato la flotta del baltico ed i nostri martiri
di Cronstadt. Va detto che in Russia vedremo anche la nascita
di un tipo di tatuaggio anticomunista, molto complesso ed articolato
nella simbologia, che si svilupperà all'interno dei gulag,
del quale esiste una vasta documentazione, anche fotografica.
Tornando ad Hoffman, nel 1949 fu rilasciato dalla prigionia,
tornò ad Hof, dove conobbe lo spazzino tatuato Hans Krauss,
che gli fece il suo primo tatuaggio. Coprì gratuitamente
i numeri sulle braccia a diversi ex internati e diventò
uno dei massimi esponenti nel tatuaggio moderno europeo.
Giunti a questo punto, prima di concludere questa lunga lettera,
vi vorrei elencare alcuni fatti curiosi inerenti all'argomento
trattato, che incrociano la nostra storia, iniziando con un
paio di vicende tratte dalla vita di Les Skuse, tatuatore di
Bristol, classe 1912, arruolatosi nell' artiglieria reale, era
conosciuto come “il tatuatore del regimento”. Per
tatuare, usava le batterie delle grandi contraeree. Amava raccontare
che durante l'attesa sulla costa meridionale del Inghilterra,
aspettando l'invasione tedesca, passò il tempo a tatuare
i suoi compagni. Quando alla fine furono avvistati gli aerei
tedeschi, l'ufficiale gridò: l'artigliere restituisca
le batterie e quando Les finì di montarle, si accorse
che erano scariche. Alla fine della guerra, tornò a Bristol
e apri un tattoo studio, ma nonostante la richiesta fosse alta,
non poteva farsi pagare tanto, perché la Gran Bretagna
attraversava una profonda crisi e la gente non aveva soldi.
Dato che aveva cinque figli da mantenere, dovette trovare un
impiego all'ufficio postale, cosi dalle 06:00 alle 12:00 lavorava
per le poste e dalle 14:00 alle 22:00 tatuava. Les Skuse, come
Hoffman, tolse gratuitamente i numeri tatuati sulle braccia
di molti sopravvissuti ai campi di concentramento: “mi
sembrava di aiutarli a cancellare una memoria dolorosa.”.
Ci fu anche un tatuaggio ricercato dai nazisti, quello di Montgomery.
L'alto comando tedesco diramò l'ordine di uccidere, qualora
fosse stato catturato, l'uomo con la farfalla sul polso. Molti
ufficiali britannici venuti a conoscenza del fatto, si fecero
fare lo stesso tatuaggio per confondere il nemico.
Alla memoria di Willy Blumberg
Per concludere, i tre leader che s'incontrarono a Yalta nel
febbraio 1945, erano tatuati: Roosevelt, come tutta la sua famiglia;
Churchill aveva un'ancora sul braccio e Stalin un teschio (quest'ultimo
è un chiaro esempio di quanto un tatuaggio, nella sua
semplicità, possa rivelare la personalità del
soggetto che lo porta addosso). Vi ringrazio dell'attenzione
e spero di non avervi annoiato! Allego alcune tavole (altre
sono in cantiere), che vi svelano il motivo di questo mio approfondimento,
in quest'epoca, dove il tatuaggio è tornato ad essere
un fenomeno trasversale di massa, dove assistiamo ad un recupero
del tatuaggio tradizionale di tutte le categorie, spesso esibito
senza comprendere il significato originale.
È mia intenzione ridare al nostro tatuaggio il posto
che si merita, con una serie di tavole, che prendono ispirazione
dal tatuaggio antagonista tradizionale e che dedico alla memoria
di Willy Blumberg, tatuatore morto in un campo di concentramento
e a quanti pagarono con la deportazione l'affronto di esibire
sulla pelle, in modo definitivo, i nostri antichi simboli di
libertà. Uguaglianza, solidarietà, lotta e giustizia
sociale.
W.L.R.S
Saluti libertari
Oliviero “Olli” Venturini
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