Rivista Anarchica Online




Recinti

Guardo la cartina d'Europa, pubblicata su “Internazionale” il 7 marzo 2016, con evidenziate in giallo le frontiere parzialmente o interamente recintate. Stando qui, al sicuro, dove nessuna bomba ci può raggiungere e nessun terrorista ben armato può infiltrarsi, è difficile rendersi conto di cosa significhi stare dietro a una rete bordata di filo spinato. Col caldo e col freddo, ieri come oggi, il recinto è un limite, una partizione che ti impedisce di continuare la tua strada, di completare il Viaggio. E per chi sta dentro, il recinto è protezione irragionevole (da cosa? Da gente disarmata e senza più nulla? Dal contagio? Dalla responsabilità di queste morti? Di tutte queste cose insieme?): ce ne sentiamo rassicurati, e ci conforta che qualcuno stia di guardia. Non importa chi. La cosa fondamentale è che indossi una divisa, perché questo lo rende tramite di un dovere istituzionale al quale vogliamo credere di poterci affidare. E che non ci dica quello che fa, in concreto, per tenere lontana la minaccia dell'invasione. Non vogliamo la responsabilità del rifiuto, ma neanche quella dell'accoglienza.
Vorrei evitare le facili demagogie, che credo siano da tutte e due le parti del confine di cui sopra.
È demagogico ripetere, come ho sentito dire da una sedicente politica alcuni giorni fa, che invece di accoglierli, dovremmo andare in Africa a sostenere il “governo legittimo” del loro paese. La signora in questione, forse, dovrebbe, prima di dire una cosa del genere, guardare anche soltanto su Wikipedia in quante differenti tribù è divisa la Nigeria, quante religioni si professano, quante lingue vi si parlano, e come mai un Igbo non può scrivere nella sua lingua. Come dice Chris Abani, prodigioso poeta e romanziere nigeriano, si scrive in inglese perché si è costretti, se si vuole essere capiti da più di 50 persone. Il numero limitato dei parlanti nativi trasforma un apparente atto di infedeltà in una scelta di divulgazione efficace di tematiche e vicende che con la Nigeria hanno a che fare. Dunque chi vuole andare ad “aiutarli a casa loro” esibisce al meglio ignoranza, al peggio la strumentale demagogia dell'occidentale che scorpora i canali di vendita di armi da quelli dell'aiuto benefico, armato o disarmato.
All'altro estremo, c'è chi si batte il petto, piangendo il dolore dei profughi, osservandone le mille morti, ascoltandone le storie purché a distanza e disperandosi “senza entrare nel merito della politica”. Perché entrare nel merito significherebbe tentare di capire, raccogliere informazioni, tentare almeno di mettere insieme i pezzi di un puzzle che è complessissimo e che tuttavia va dipanato. Costoro sono quelli che si accontentano della “facile pseudosolidarietà” che ci assolve dalla possibilità di provare davvero dolore, scrive il teorico inglese Paul Gilroy. E appunto.
Il problema, per quel che mi concerne è questo: possiamo simulare l'estraneità e la prigionia, ma sono entrambe esperienze che, se non provate, non possono essere immaginate in modo attendibile. Trarre conclusioni frettolose oppure pretendere di capire sono entrambi comportamenti inutili e pericolosi. Ci allontanano dalla necessità di documentarci e anestetizzano ogni possibilità di capire.
Quando furono espulsi da Israele nel 1948, i palestinesi conservarono la chiave delle loro case. In un disegno di Naji al-Ali, un disegnatore palestinese assassinato perché incapace di piegarsi, Hanthala sogna di tornare a casa sua, voltando le spalle a un recinto di filo spinato al quale sono appese tutte le chiavi. Non riusciamo a capire se il piccolo Hanthala sia dentro o fuori dal recinto, ma sappiamo solo che non può tornare a casa: c'è un recinto, e non è valicabile.
Perché nessun recinto, fisico o simbolico lo è. Non nell'immediato e non senza parecchia fatica. Oggi molto più di ieri, perché le differenze si sono moltiplicate, e forse dovremmo finalmente ammettere una verità radicale: è più corretto, oggi, ragionare in termini di individualità che procedere per categorie. Questo siamo, di qualunque etnia e provenienza: individui, tutti diversi.

Nicoletta Vallorani