Questo grande paese
“Fare di nuovo grande l'America” Lo slogan di Donald Trump
“L'America è già grande” La risposta di Hillary Clinton
Caucus, Front Runner, Super Tuesday... sto imparando,
mio malgrado, il dizionario minimo della democrazia made
in USA. Mentre scrivo un super martedì è passato
lasciando qualche candidato sul tappeto, un altro è in
arrivo e per quando questa lettera andrà in stampa si
sapranno già i nomi dei due gladiatori pronti ad affrontarsi
nell'abbagliante arena elettorale americana. A giochi fatti
saranno congratulazioni e pacche sulle spalle, ma per il momento
se le danno di santa ragione, come Arlecchino e Pulcinella,
si accapigliano, si insultano, si screditano: battute feroci,
accuse, tutto sempre sopra le righe. L'America è in onda.
E se spegnessi la televisione e decidessi di ignorare il circo?
Si trattasse del Canada o del Portogallo, non esiterei. Ma quei
paesi mica decidono dei destini della Terra.
Noam Chomsky una volta definì le elezioni americane una
“extravaganza” dove i pochi che votano devono scegliere
tra candidati che hanno studiato nelle stesse università
elitarie, sono membri delle medesime società segrete
e possono correre per la presidenza solo perché finanziati
dai grandi gruppi economici. Concludeva: “il paese che
pretende di esportare la democrazia nel mondo ha un disperato
bisogno di ricostruire il processo democratico al suo interno”.
Qualche volta però il meccanismo si inceppa, un candidato
improbabile conquista la ribalta, come nel caso del miliardario
Donald Trump, un tragicomico Paperone che indigna il mondo con
le sue uscite da cowboy razzista ma entusiasma il popolo conservatore,
l'americano medio che vuole le antiche certezze e rumoreggia
contro l'establishment repubblicano da quando c'è
un nero alla Casa Bianca. Trump, leghista in salsa americana,
rimesta nel torbido, tira fuori il peggio dalla gente comune
e preoccupa il mondo, ma farà davvero differenza per
i nostri destini che il presidente USA sia un imprevedibile
buffone o un politico navigato?
Non volevo occuparmi di elezioni ma, trovandomi nel cuore dell'impero
ai tempi delle presidenziali, mi è venuta voglia di capire.
Fin qui non ho molto da raccontare: la vita di New York continua
frettolosa e distratta come sempre, in giro non c'è quasi
segnale di primarie, neanche un poster col faccione di qualche
candidato. Qualche volta mi è capitato di incrociare
un banchetto coi volontari a distribuire volantini: le gentili
signore che cercavano di attirare l'attenzione dei passanti
parevano una sorta di anacronismo in questa città pulsante
dove milioni di esseri umani corrono come palline impazzite.
Preistoria dell'attivismo politico al tempo di internet.
Con una missione da compiere
Ci sarebbero le cene di finanziamento, dove si può godere
del privilegio di ascoltare il proprio candidato dal vivo. Ho
pensato di provare, per vedere la politica fatta a tavola, col
mento umido e il tovagliolo sulle ginocchia, le strette di mani
unte di pollo fritto, i drink con le brillanti battute di spirito.
Sono stato tentato, ma proprio non mi va di regalare soldi al
circo della politica, in fatto di beneficenza ho le mie priorità.
Di recente il signor Plenty, un gigante nero addetto alla manutenzione
nel mio condominio, mi ha raccontato di quando Reagan, nel 1983,
mandò bombardieri e marines ad attaccare il suo paese,
Grenada: l'esercito più potente del mondo contro un'isola
di centomila abitanti. I sondaggi dicono che la grande maggioranza
degli americani ritenne quell'invasione giusta e legittima e
gli USA celebrarono pure la vittoria con grande enfasi e cinquemila
medaglie al valore.
Con in mente quei fatti mi è venuta voglia di andare
a spulciare nei programmi dei candidati più in vista,
per capire le loro intenzioni rispetto al mondo fuori da questi
confini.
Bernie Sanders, senatore con una reputazione socialista, promette
addirittura una rivoluzione politica. In passato ha votato contro
l'intervento in Iraq, ma neanche lui escluderebbe la guerra,
se diventasse presidente: “L'America deve difendere la
libertà in patria e all'estero”, si legge nel suo
programma: “L'uso della forza deve sempre restare una
possibilità”. Anche lui è convinto che l'America
abbia una missione da compiere.
Hillary Clinton ha il cinismo pragmatico del vero politico,
se comanderà il paese non esiterà a intervenire
con ogni mezzo quando le circostanze lo richiederanno. Come
segretario di stato, parlando della Cina, ha dichiarato: “la
questione dei diritti umani non può interferire con altre,
più importanti, questioni bilaterali”. Bel
biglietto da visita.
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Manhattan,
New York (Stati Uniti) - Non solo grattacieli
di lusso, ma anche tante case popolari, spesso autentici
formicai umani. Con gli affitti alle stelle il 56% dei
newyorchesi impegna oltre il 30% del salario per
garantirsi un alloggio, spesso microscopico |
Non dobbiamo chiedere scusa
“Siamo il più grande paese che il mondo abbia mai conosciuto, non dobbiamo chiedere scusa a nessuno per quel che ha fatto l'America”. Donald Trump non ha scritto un programma di politica estera ma i suoi deliri non fanno presagire nulla di buono.
Il programma ce l'ha invece il giovane repubblicano Marco Rubio ed è un trionfo di retorica nazionalista e militarista. Rubio elenca già i teatri mondiali nei quali gli USA, sotto una sua presidenza, rafforzerebbero la presenza militare e aprirebbero nuovi fronti e conclude: “il mondo è sicuro solo quando l'America è forte”. Musica celestiale alle orecchie dei Masters of War raccontati da Bob Dylan in una bella canzone degli anni sessanta. Rubio non vincerà queste primarie ma è giovane e promettente. Ricordiamoci di lui.
L'unica che si distanzia da queste folli idee è Jill Steyn, candidata del Green Party, che promette un'era di diplomazia per la pace e il drastico taglio del bilancio militare in favore di sanità, istruzione, lavoro e green economy. Ma chi ha mai sentito parlare di lei? È solo una comparsa, una candidatura senza storia.
Tutto ciò mi ricorda che queste elezioni non riguardano solo il destino degli agricoltori della Virginia o dei portuali di Boston, degli immigrati irregolari o degli anziani senza assistenza medica. Riguarda tutti: la bandiera a stelle e strisce l'hanno piantata persino sulla Luna.
Ma i miei attuali concittadini sembrano poco inclini a occuparsi di quel che accade al di fuori di questi sacri confini, sono preoccupati dalla quotidianità. Così li descrive lo scrittore anarchico di New York, Wayne Price: “La massa degli americani è formata da gente onesta e in buona fede ma poco istruita, tenuta all'oscuro, abituata a credere alle bugie dei suoi governanti, convinta che gli Stati Uniti siano un paese pacifico che aiuta le altre nazioni in maniera totalmente disinteressata”.
Questa gente onesta e distratta si appassiona però alle parole d'ordine scelte con cura dai pubblicitari che disegnano le campagne elettorali. Trump entusiasma il popolo conservatore col suo: “Make America Great Again” (Rendere di nuovo grande l'America), la Clinton risponde che l'America è già grande. Ma che significa? Cerco una risposta interrogando le storie minime attorno a me.
Guardo Lorna, quarantenne messicana, due figlie da tirar su e il corpo già provato. Da vent'anni ogni mattina lascia l'infida giungla delle case popolari del Bronx, scansa tossici e spacciatori e scende in metro a Manhattan, dove fa la guardia privata in una sala affollata da un pubblico variegato e litigioso. La ditta si divora quasi tutto, a lei resta in tasca il salario minimo, otto dollari l'ora al lordo delle tasse. Per arrotondare fa la guardarobiera e la cuoca. Sul lavoro sa essere dura, dopo getta la maschera e la vedo sorridente e triste.
Guardo a Ernesto: mestizo guatemalteco con evidenti tratti maya, vive qui ma non parla inglese. Trascorre le notti in solitudine a pulire una grande scuola. Otto dollari l'ora e le tasse da pagare. È sorridente ma taciturno, forse troppo abituato al silenzio delle lunghe ore di fatica solitaria. New York però lo fa sentire al sicuro, non è una città pericolosa come la capitale che ha lasciato anni fa. Vero, però mi chiedo come sarebbe oggi il suo paese se nel 1954 la CIA non avesse deciso di rovesciare il governo democratico che aveva tolto la terra alla United Fruit Company per distribuirla ai contadini, organizzando un sanguinoso colpo di stato costato al paese trent'anni di feroce dittatura e duecentomila morti. Lui quella vecchia storia neanche la conosce e la sua consolazione è la bottiglia.
Guardo Elisa. Sessant'anni e un lavoro da cinque o sei dollari l'ora in un fast food. L'impiego le serve per garantirsi una copertura sanitaria, che altrimenti non potrebbe permettersi.
Per chi voteranno i milioni di Ernesto, Lorna ed Elisa? Forse non voteranno. Comunque non farà gran differenza nella loro vita zoppicante.
Il bilancio militare più elevato del mondo
Lascio questo orizzonte deprimente per rivolgere lo sguardo
verso un po' di speranza. Da quando vivo qui ho avuto modo di
conoscere parecchi movimenti, piccoli ma combattivi. Anche nel
cuore dell'impero la società civile si organizza con
ammirevole caparbietà e mi fornisce un metro per misurare
questo strano paese.
Il Legal Defense Fund, ad esempio, da settantacinque
anni si occupa dei diritti degli afroamericani. Oggi porta avanti
quattro campagne: contro l'esclusione di milioni di neri dal
diritto di voto; per l'uguaglianza nell'accesso allo studio;
per un sistema giudiziario libero dai pregiudizi; per le pari
opportunità nell'accesso al lavoro. L'American Indian
Movement, che nel 1973 organizzò la clamorosa occupazione
armata di Wounded Knee, si batte per i diritti delle nazioni
indigene con campagne contro il razzismo e l'esclusione sociale.
La Everytown for gun safety lotta per limitare lo strapotere
delle lobby che negli ultimi decenni hanno ottenuto una pericolosa
deregulation nella vendita delle armi. Tanti ex combattenti
si sono uniti nella Iraq Veterans Against the War per
dar voce alle ragioni contro quella ed altre guerre made in
USA. Vari gruppi contestano le aberrazioni del sistema giudiziario
e la spietata applicazione della pena di morte.1
Diritti violati, abusi, violenza istituzionale: come ovunque
nel mondo i problemi sono tanti. Ma qui si fanno le cose in
grande: gli USA hanno il bilancio militare più elevato
al mondo, l'esercito più potente, il record delle invasioni
militari. Pro-capite sono al primo posto nell'uso di energia,
l'emissione di gas serra, la produzione di rifiuti e carne bovina,
il consumo di patrolio e gas naturali e l'elenco potrebbe continuare.
Dove invece gli USA non primeggiano è nell'istruzione,
nella salute, nell'educazione sessuale e contraccettiva, nell'assistenza
prenatale e in quella psicologica, aspetti che si riflettono
nei dati relativi al suicidio dei minori, alla violenza sessuale
sulle donne, alle gravidanze giovanili indesiderate, alla diffusione
della malattia mentale.
Riflettendo su tutto ciò ho capito che quando Trump e
la Clinton parlano con orgoglio del loro grande paese, dimenticano
di aggiungere un aggettivo indispensabile: gli Stati Uniti sono
un grande paese capitalista. Ecco il nodo: qui a Manhattan
c'è la più grande concentrazione al mondo di supermiliardari,
ma la differenza nella speranza di vita fra ricchi e poveri
è di oltre undici anni, una forbice che si allarga a
venti spostandosi a Baltimora, duecento miglia più a
sud. Sono dati da quarto mondo, ma questi candidati sono pronti
a spendere somme da capogiro per continuare a garantire l'egemonia
militare americana nel mondo, al prezzo di milioni di vite spezzate.
Il grande paese non si ferma a riflettere sulle sue aberrazioni.
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Il fotografo Matt Black documenta con immagini scattate in
tutto il paese la “Geografia della povertà”
negli USA. A dispetto dei dati drammatici, la spesa militare
per il 2015 è stata di quasi 600 miliardi di dollari.
In questa foto: “El Paso è una città della
Contea di El Paso, Texas. La popolazione è di 649.121
e il 21,5% vive al di sotto della soglia di povertà” |
Un presidente dal potere immenso
Il secondo super martedì è alle spalle, altri
candidati sono rimasti al tappeto. Mentre il notiziario della
sera rilancia gli ultimi dati mi torna in mente Brokeback
Mountain, quel film ambientato nel Wyoming dei primi anni
sessanta, che descrive la desolante arretratezza culturale di
gente ottusa, bigotta, dominata dal pregiudizio, incapace di
capire la complessità del mondo odierno. Elettori anche
loro di questo grande paese, che voteranno per eleggere un presidente
dal potere immenso.
Da queste riflessioni esco esausto. La mano raggiunge il telecomando
e, con un piccolo sibilo, lo schermo scompare nella penombra
della stanza. Mi restano davanti agli occhi i volti: Trump,
Clinton, Rubio, Sanders. Uno di questi diventerà Commander
in Chief, a sua disposizione l'esercito più potente
della storia. Non cambierà la vita di Lorna, Ernesto,
Elisa e neanche quella degli afghani e degli iracheni, non in
meglio, comunque.
Con la tv finalmente silenziosa e inutile il riflesso luminoso
sul mio volto turbato ora viene dalla piccola finestra polverosa.
C'è la luna e una sirena ulula in lontananza. Mi torna
in mente una frase letta tanti anni fa in un romanzo di Alice
Walker: “Si chiedeva che accadrebbe se la nostra politica
estera fosse incentrata sulla diffusione della gioia, invece
che del dolore. La risposta la conosceva: gli Stati Uniti sarebbero
i veri leader mondiali, non i peggiori gradassi. Una volta il
mondo pensava che l'America avesse un cuore pieno di gioia,
invidiava quello spirito che rendeva unici gli americani. Ora
l'altra faccia era stata messa a nudo. D'altra parte lei, come
donna afro-amerindia del sud, aveva conosciuto fin dalla nascita
lo spirito malvagio della nazione. Coloro che avevano linciato
e bruciato i neri e squartato per divertimento le loro donne
non erano scomparsi, si erano trasformati negli uomini che adesso
lavorano al Pentagono e possono fare le stesse cose, colpendo
dal cielo”.
Parole precise, dolorose, pesanti come macigni. Tragicamente
attuali.
Santo Barezini
1. Gli USA sono l'unico paese a democrazia occidentale a consentire
l'esecuzione anche di disabili mentali e minorenni. Il triste
primato è condiviso con Iran, Nigeria, Pakistan, Arabia
Saudita e Yemen.
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