Milano/ In piazza con la bandiera anarco-pacifista
A Milano, tra case occupate e l'Arte del Kung fu applicata all'Anarchia. “Ma lo sai che un'intera piazza si sta chiedendo che diamine di bandiera sia la tua?”. Vi confesso che, prima di questa candida domanda che mi ha fatto sorridere tantissimo sciogliendo ogni residuo di tensione pregressa, avevo le classiche “ascelle pezzate” dalla tensione. Vi chiederete allora perché di cotanta tensione.
E io vi rispondo molto facilmente: un po' perché sono persona facilmente agitata/agitabile e un po' perché era la prima volta che scendevo in piazza, dopo essermi scoperto anarchico e, non domo, portandomi anche dietro un bandierone anarco-pacifista apena comprato online. Questa, il bandierone intendo, è la pietra del vero scandalo che ha tenuto in scacco un gruppo di quattrocento manifestanti, comunisti, riunitisi sotto Palazzo Marino per protestare contro la Legge Renzi/Lupi, art. 5 del D.L. 28.3.2014 n. 47 che recita – citandola dal volantino del presidio – “chiunque occupi abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l'allacciamento alle pubbliche utenze in relazione a quell'immobile”. Quindi, zero residenza, zero documenti, zero integrazione, zero figlioli che vanno a scuola.
Insomma, la solita assurda follia di una nazione che ha dimenticato da tempo il concetto di “umanità” a favore di un culto di (vuota) legalità che colpisce solo presunti criminali (leggasi, semplicemente poveri) nel mentre, quelli veri (leggasi affamatori-sfruttatori-infami) se ne stanno in panciolle al sole dei parchetti delle case popolari in attesa del primo bisognoso, spesso connazionale, da spennare fungendo da para-Stato dove lo Stato è assente.
E io davanti a Palazzo Marino, in quella piazza popolata sì dai veri proletari dell'oggi (perlopiù migranti, veramente in possesso della prole), mi sono ritrovato insieme ad un gruppo di giovani ad occhio provenienti dalle realtà autonome che si battono nei quartieri popolari per il Diritto alla Casa. Vi confesso che avevo un po' di timore: come avrebbero preso me e il mio bandierone, ma soprattutto me e la mia appena iniziata ricerca personale, ancora così privata/intima, sulle numerosissime vie verso l'Anarchia? “Senti, ma che razza di bandiera è quella?”, mi si avvicina un giovanissimo ragazzo italiano, ma di radici africane. “Questa è una bandiera anarcopacifista, poco diffusa qui in Italia, un po' di più in latitudini anglosassoni”. La sua faccia, simpatica, stralunata si fece seria. “Cioè, spiegami, io sono molto affascinato dall'Anarchia, ma dal pacifismo... cioè alle volte la violenza ci vuole”. “Certo, non lo nego – nel mentre le ascelle erano già una selva pluviale, credetemi – però diciamo che il mio pacifismo è molto simile a quello che ho imparato facendo Kung Fu”.
Il ragazzo era mortalmente affascinato da quello che stavo raccontando e un po' lo ero anch'io, perché non era un discorso preparato e questa cosa del Kung Fu proprio mi era venuta come un lampo improvviso. “Vedi, nel Kung Fu non si attacca mai per primi, semplicemente, se attaccati si cerca di sfruttare il dinamismo dell'aggressore per mandarlo a gambe all'aria. Se non fosse così, se l'attacco fosse frontale, anche il più potente maestro di questa antichissima disciplina finirebbe per schiantarsi contro un avversario spesso più forte e con il vantaggio anche di essere stronzo”. Non so se il ragazzo fosse convinto dalle mie parole, ma da lì abbiamo iniziato a parlare di moltissime cose, dal significato di Anarchia fino al... Cristo. Lui soffriva molto del fatto di essere stato messo alla porta dalla sua famiglia tradizionalista cristiana. Io ho cercato di fargli capire che il Cristo era più rivoluzionario (e più Anarchico) di qualsivoglia Vaticano o bigottismo esistente sulla faccia della terra, invitandolo poi a trovare la sua via, orgogliosamente, senza precludersi nulla.
Dopo di lui, in una sorta di processione, sono passate e passati altri, attirati da quel bandierone e anche con loro, chi più chi meno, è stato un fiorire di chiacchiere sulle piccole, grandi cose legate all'Anarchia.
Cosa ho capito da tutto ciò che vi sto raccontando? Che la gente ha sete sia di dialogo, sia di Libertà (con la “l” maiuscola) sia di Anarchia. E quindi vi chiedo e mi chiedo: noi anarchici, dove siamo? Siamo nei luoghi dove si “battaglia” politicamente per i diritti degli ultimi o preferiamo ammazzarci di noia in infiniti congressi?
Perché da quel pomeriggio ho capito una cosa: è un peccato non arricchire le Lotte non tanto con quello che sappiamo (sempre troppo poco) o quello che facciamo (mai abbastanza) ma con quello che siamo. “Ma non è che adesso sfasci tutto, vedo che ti stai bardando”, si era fatta sera, il venticello di inizio primavera soffiava ancora freschetto e una signora vedendomi mettere un collo di sciarpa è stata l'ultima a farmi venire il sorriso. “No, signora – risposi con dolcezza alla sua incredibile dolcezza – ho semplicemente freddo. Sono anarchico e voglio praticare la Pace.”
Francesco Bizzini
Milano
Nel dibattito sul carattere socialista, rivoluzionario, anarchico di Cristo, Massimo Ortalli – tra i curatori dell'Archivio Storico della Federazione Anarchica Italiana e nostro collaboratore – osserva che la cosa fu al centro di varie polemiche, nell'Ottocento come nel Novecento, e ricorda in particolare un libretto di Randolfo Vella, edito dal gruppo anarchico Domaschi di Verona, nel 1947, dal titolo Che si smetta con Cristo socialista.
Anarchici/
A proposito di Alberto Di Giacomo
Cara redazione,
sono tornata sull'articolo pubblicato in “A” 416
(maggio 2017) di Valerio Gentili “Gli
anarchici romani nella lotta contro il fascismo”,
precisamente sulla biografia di Alberto di Giacomo, del quale
approfondendo in rete, ho trovato notizia nei siti “Memorie
d'Inciampo” e “Deportati 4 gennaio 1944”.
Confrontandole con l'articolo di Gentili ho notato che alcune
cose non corrispondono, mentre altre mancano.
Il sito “Memorie d'Inciampo” è dedicato agli
Stolpersteine (pietre d'inciampo), che sono un' iniziativa dell'artista
tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico
e sociale delle città europee, una memoria diffusa dei
cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. Il progetto
consiste nell'incorporare, nel selciato stradale delle città,
davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni,
dei blocchi in pietra. Nel 1990, al cospetto di una signora
che negava che a Colonia nel 1940 fossero stati deportati 1000
sinti l'artista decise di dedicare la sua vita e il suo lavoro
alla memoria di tutti i deportati, razziali, politici, militari,
rom e omosessuali, in tutto il mondo. Un semplice sampietrino,
come i tanti che pavimentano le strade, che reca incisi, sulla
superficie superiore di ottone lucente, pochi dati identificativi:
nome, cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione,
data di morte, quando conosciuta. Con queste informazioni si
intende ridare individualità a chi si voleva ridurre
soltanto a numero. L'espressione “inciampo” deve
dunque intendersi non in senso fisico, ma visivo e mentale,
per far fermare a riflettere chi vi passa vicino e si imbatte,
anche casualmente, nell'opera. È collocato sul marciapiede
prospiciente l'abitazione dei deportati, perchè da lì
sono stati prelevati, strappati ai loro affetti e alle loro
occupazioni, per essere deportati e uccisi senza ragione, finiti
in cenere o in fosse comuni, privando così i famigliari
e i loro discendenti persino di un luogo dove ricordarli. Nel
2010 anche l'Italia è entrata a far parte di questo grande
circuito della memoria.
Nel Municipio XIV, in Via dei Laterizi, 27 a Roma il 13 gennaio
2014 è stata posta una pietra d'inciampo dedicata ad
Alberto Di Giacomo. Nella pietra a lui dedicata si legge:
ALBERTO DI GIACOMO
NATO 1886
ARRESTATO COME POLITICO 19.12.1943
DEPORTATO
KZ MAUTHAUSEN
ASSASSINATO 15.9.1944
CENTRO DI STERMINIO
CASTELLO DI HARTHEIM/LINZ
Valerio Gentili scrive nell'articolo che Di Giacomo muore a
Ebensee il 5 maggio 1944, ma nella lista dei deportati, che
riporto più avanti, risulta che muore a Schloss Hartheim,
un castello a 20 km da Linz, in Austria, vicino alla linea ferroviaria
e al Campo di Mauthausen e, verosimilmente non il 5 maggio del
1944. Il castello originariamente era un luogo di cura per bambini,
disabili fisici e mentali, accuditi dalle Suore dell'Ordine
di San Vincenzo de' Paoli del vicino convento di Alkoven, e
che tra il 1938 e il 1939 verrà confiscato dai nazisti.
Tra il 1941 e il 1945, nell'ambito dell'operazione segreta “Aktion
14F13”, eliminerà circa 8.000 esseri umani ormai
incapaci di lavorare, provenienti in particolare dai Lager di
Dachau, Mauthausen, Gusen.
“Fino al settembre 1944 aveva funzionato l'autobus azzurro:
era un autobus che partiva due volte alla settimana dal campo
per portare gli invalidi e i malati ad un “sanatorio”:
ne caricavano settanta alla volta, ma invece di portarli al
“sanatorio” si accontentava di portarli a un forno
crematorio speciale installato in un castello a circa 10 km
dal campo, sulla strada di Linz.” (Giuliano Pajetta –
matricola 110352).
Come ha testimoniato uno dei degli addetti allo sterminio del
castello di Hartheim, il suo scopo “era tra l'altro quello
di gasare e uccidere quei detenuti che non potevano essere uccisi
nel campo di Mauthausen” (vedi Bruno Maida: “La
camera a gas di Mauthausen”).
Dalle ricerche di Italo Tibaldi, un ex deportato, superstite
di Ebensee e Vice Presidente del Comitato Internazionale del
KL Mauthausen, che ha lavorato, dal 1945, per circa 50 anni,
alla ricostruzione dei trasporti, alle liste nominative e alle
matricole di circa 8.000 persone deportate dall'Italia al Campo
di Concentramento di Mauthausen, non meno di 303 italiani risultano
“deceduti in sanatorio”, ossia gasati ed inceneriti
al Castello di Hartheim (tra cui, quindi anche Di Giacomo, che
muore il 15 Settembre del 1944).
Nel sito “Memorie d'Inciampo” c'è anche una
breve scheda biografica di Alberto Di Giacomo.
Figura di spicco nella lotta dei lavoratori delle fornaci e
dell'antifascismo di Valle Aurelia, più conosciuta come
“Valle dell'Inferno”, zona in cui abitava. Fu arrestato
già nel 1907 e nel 1908. Consigliere dal 1911 al 1920
della Lega di resistenza dei fornaciari. Irriducibile attivista
sindacale e politico. Presente nel 1921 e 1922 agli scontri
tra i fascisti e gli Arditi del Popolo di Vincenzo Baldazzi
('Cencio'). Più volte arrestato e confinato durante il
ventennio; definito come «truce», «attentatore».
Dal 1929 abitò a via Tunisi nel quartiere Trionfale,
dove frequentava l'esponente anarchico Errico Malatesta, che
morì nel 1932. Ammonito nel 1927. Iscritto nella rubrica
di frontiera. Condannato nel 1931 a tre anni di confino per
“attività anarchica, Soccorso rosso” da scontare
nell'isola di Lipari. Prosciolto nel 1932 con l'amnistia del
decennale della marcia su Roma, fu considerato nel rapporto
di polizia del Commissariato Trionfale «insensibile all'atto
di clemenza» e sembra che organizzasse una «velenosa»
e «subdola campagna contro il Regime e in particolar modo
contro Sua Eccellenza il Capo del Governo», con «non
comune scaltrezza», rappresentando «uno dei più
pericolosi anarchici della Capitale». Compariva nella
lista dei sovversivi pericolosi di Roma da arrestare preventivamente
in particolari situazioni. Nel luglio 1940, con l'intervento
dell'Italia nella seconda guerra mondiale, fu internato nel
campo di concentramento dell'isola di Ventotene. Liberato solo
nell'agosto-settembre 1943 dopo la caduta del fascismo.
Per quanto riguarda il sito “Deportati 4 gennaio 1944”
racconta la storia di un gruppo di uomini detenuti nel carcere
di Roma, che furono prelevati la mattina del 4 gennaio 1944
ed avviati alla Stazione di Roma Tiburtina per essere deportati
(gruppo di cui fa parte anche Alberto Di Giacomo). Iniziarono
un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l'Italia e la Germania,
con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo
di Concentramento di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.
Al KZ Mauthausen, “l'inferno dei vivi”, furono immatricolati
solo 257 uomini del gruppo uscito da Regina Coeli.
Dal mattinale del 5 gennaio 1944, inviato dalla Questura di
Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale
Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno, si legge:
'Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino é partito
treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui,
rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti
in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni.
Il treno sarà scortato fino al Brennero da 20 Agenti
di Pubblica Sicurezza e a destinazione da un Maresciallo e 4
militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono
stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo,
n. 162 persone'.
Il 'trasporto' di coloro che uscirono nella giornata del 4 gennaio
1944 da Regina Coeli era composto da persone semplici, antifascisti
di tutto l'arco della resistenza al nazi-fascismo di quei mesi
a Roma. Giovani renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica
Sociale Italiana, soldati sbandati dopo l'8 settembre 1943 e
reduci da vari fronti di guerra. Settanta, ottanta antifascisti
noti all' Ovra ed inseriti nel Casellario Politico Centrale.
Un fondatore del Partito Comunista Italiano e due nipoti del
Generale Badoglio. Dodici uomini di religione ebraica ed un
maestro francese in fuga dalla sua nazione ed arrestato solo
il giorno prima della deportazione.
Dei 257 uomini immatricolati, sopravvissero alla liberazione
dei Campi ai quali furono destinati, solo una sessantina e non
tutti riuscirono a ritornare in patria. Molti di loro morirono
di fame e di stenti in una Europa già libera dal nazifascismo
dopo 17 mesi di sofferenze.
La lista degli uomini deportati dal Carcere di Regina Coeli
il 4 gennaio 1944 ed immatricolati il 13 gennaio '44 al KZ Mauthausen
è frutto dell'enorme lavoro iniziale svolto da Italo
Tibaldi e completata, nonché corretta in alcune sue parti,
dopo un intenso lavoro svolto sui Registri Matricola del carcere
di Roma.
L'ordine cronologico dei nomi é stato stabilito dai nazisti
dell'ufficio immatricolazione del Lager di Mauthausen ed é
numerico. Non sempre é rispettato l'ordine alfabetico.
Gli ultimi 11 uomini immatricolati sono di religione ebraica.
Molti nomi e cognomi sono stati corretti perché alterati
sia dall'Ufficio Matricola di Regina Coeli e sia dalla traduzione
in lingua tedesca.
A questa lista vanno aggiunti altri 69 nomi sicuramente prelevati
dalle celle del carcere romano ma mai immatricolat (segue l'elenco,
che omettiamo - n.d.r.)
Eugenio Iafrate, nel suo libro ”Elementi indesiderabili.
Storia e memoria di un trasporto, Roma - Mauthausen 1944”,
punta la lente di ingrandimento sul “trasporto”
partito da Roma il 4 gennaio 1944, sul quale viaggiava il fratello
di suo nonno (e sul quale viaggiava anche Alberto Di Giacomo).
“Elementi indesiderabili” è l'espressione
utilizzata dalla polizia della Repubblica Sociale Italiana e
dalla questura di Roma in riferimento ai prigionieri di Regina
Coeli deportati a Mauthausen il 4 gennaio 1944.
Iafrate focalizza l'attenzione sulla storia di questo trasporto
e riporta alla luce esperienze rimaste fino ad allora negli
archivi di famiglia. Schede individuali, lettere e testimonanze
parlano di una Roma fatta di imbianchini, stuccatori, stracciaroli,
carrettieri, fornaciai, attori del cinema, commercianti, macellai,
albergatori, ecc. Il caso di questo “trasporto”
risulta una prova inconfutabile della parte attiva dell'apparato
della Repubblica Sociale Italiana al fianco dei nazisti nelle
deportazioni. Centinaia di italiani misero la propria esperienza
a sefvizio dei nazisti, inseguendo, arrestando, accompagnando
altri italiani fino a quel tragico treno e poi ancora, fino
in Germania, a Dachau. Agenti che quindi sapevano e avevano
visto con i propri occhi, ma che continuarono a svolgere il
loro sporco lavoro al fianco degli occupanti, come scrive Dario
Venegoni, vicepresidente ANED, nel suo contributo introduttivo
al libro.
Eugenio Iafrate, vicepresidenze della sezione romana dell'Aned,
ripercorre quel viaggio partendo dalla sua dimensione privata,
in particolare del fratello del nonno, Valrigo Mariani.
(Eugenio Iafrate: “Elementi indesiderabili. Storia e memoria
di un trasporto, Roma - Mauthausen 1944” - Edizioni Chillemi,
Maggio 2015, prefazione di Elisa Guida)
A presto!
Un abbraccio.
Laura Rapone
Serra Sant'Abbondio (Pu)
Lavoro/ La grande bufala dell'azienda-famiglia
Il concetto del posto di lavoro come una “famiglia” è uno dei più o meno nuovi strumenti di raggiro da parte delle aziende, e più in generale da parte dei datori di lavoro, della classe lavoratrice. Preciso che il concetto di azienda-famiglia non corrisponde a quello di azienda familiare intesa come conduzione familiare.
Con la percezione di essere sempre più soli, o di dover affrontare singolarmente sempre più problemi, l'idea di una famiglia, per lo più allargata, ci cattura e ci dona un senso di protezione che al di fuori sembra non esistere. Questo sentimento di appartenenza si basa sui buoni rapporti che dovrebbero intercorrere tra lavoratori e lavoratrici, tra dirigenza/padronato e lavoratrici/lavoratori. Come in una “famiglia”, dunque, ognuno viene investito di un ruolo che sembrerebbe fondamentale per la stessa esigenza dell'attività. Se venisse a mancare un anello, o se questo non dovesse funzionare come dovrebbe, la “famiglia” non funzionerebbe a dovere e il figlio o la figlia dovrebbe rendere conto. Avendo un ruolo fondamentale, ogni individuo, come un membro famigliare, deve impegnarsi quindi al massimo delle proprie forze. Alle riunioni di ogni azienda si sente oramai questa tiritera, qualunque sia la sua grandezza in termini di individui (4 o 2000, poco importa). “Bisogna che ognuno di noi, alla fine della giornata, esca stanco da qui perché significa che ha dato un grosso contributo” è la classica frase che si sente a ogni riunione. Tuttavia, una volta usciti dal luogo lavorativo, dove ci si reca? Gran parte delle volte presso la famiglia vera e propria, che sia quella di sangue, quella matrimoniale, di convivenza o quella di amicizia. Ci si reca stravolti dunque; la “grande famiglia” lo pretende. È naturale che la stanchezza incida su queste relazioni per noi realmente fondamentali, alla base della nostra vita quotidiana. La maggior parte delle volte incide in maniera negativa, perché lo stress e l'affaticamento danno difficilmente risultati positivi.
L'altro grande inganno della “grande famiglia” è quello del proprio benessere economico. Ognuno farebbe innumerevoli sforzi economici perché il gruppo di cui si sente parte possa funzionare al meglio (amici, famiglia di sangue, partner, etc). Chi allora avrebbe il coraggio di pretendere soldi, per migliorare la propria condizione, all'interno di queste relazioni? Lo stesso meccanismo psicologico viene a trovarsi sul luogo di lavoro della azienda-famiglia. Chi si sente così egoista da chiedere un miglioramento contrattuale e di stipendio all'interno di un'azienda-famiglia? Chi avrebbe il coraggio di chiedere che vengano contabilizzate come ore lavorative le ore di volontariato passate per pubblicizzare la propria realtà, attraverso feste gratuite per i propri clienti?
Insomma l'azienda-famiglia è una bufala, una delle tante modalità di utilizzare il lavoro, prestato da ogni individuo all'azienda che lo ha assunto, al più basso costo.
Chi si ritrova in questa situazione dovrebbe adottare la massima “Lavoro a basso costo perché ci vogliamo bene”.
Questa è la grande illusione dell'azienda-famiglia.
Marco Casalino
Genova
Gaetano
Bresci/ Quel “santantonio” a Santo Stefano
Ciao,
sono Fabio della rivista ApARTe, solo per ringraziarvi per lo
spazio all'Intervista
impossibile su Woody Guthrie e un piccolo appunto alla introduzione
alla lettera di Puggioni
a pag. 95 dello scorso numero (“A” 425, maggio 2018):
Gaetano Bresci non è mai stato ospite a Portolongone,
ora chiamato, per motivi turistici, Porto Azzurro, nell'isola
d'Elba.
Come si può evincere dal poderoso volume di Giuseppe
Galzerano “Gaetano Bresci, vita, attentato, processo e
morte dell'anarchico che “giustiziò” Umberto
1°” (Galzerano editore, 2012), ma anche da altri testi
e, non ultimo, dal fumetto, mio e di Marco Riccomini: “Gaetano
Bresci, un tessitore anarchico” (MIR edizioni 2006).
Dal 30 luglio 1900 Bresci viene ristretto nel carcere di Monza,
dove subisce torture (vedi Corriere di Napoli, 5 agosto 1900),
il 2 agosto, in camicia di forza e con una vettura speciale,
viene trasferito nel carcere di Milano, dove rimane sei mesi.
Dopo la sentenza definitiva all'ergastolo e sette anni di segregazione
cellulare, ottenuta in 14 minuti di riunione della Corte, la
sera del 21 gennaio 1901 in gran segreto viene tradotto, via
treno, a La Spezia e il 23 gennaio via mare viene trasferito
nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano presso Ventotene.
Per l'occasione nel carcere si costruisce un apposito recinto
con tre celle, una per Bresci, numero di matricola 515, e due
per i custodi addetti alla sorveglianza continua giorno e notte.
Nonostante queste precauzioni il 23 maggio 1901 viene “trovato”
impiccato e poi presumibilmente seppellito nel cimitero dell'isola.
Filomena Gargiulo, nel suo libro “Ventotene, isola di
confino” (Ultima spiaggia editore 2013), riporta che l'ergastolo
di Santo Stefano, come quello di Portolongone, era noto per
le violenze e le punizioni corporali.
Molti detenuti finirono poi al sanatorio penale di Pianosa o
al manicomio, spesso morirono per le percosse frequenti durante
la notte. Sandro Pertini, anche lui detenuto per un periodo
nel carcere di Santo Stefano durante il ventennio fascista,
sostenne nell'aula dell'Assemblea Costituente (1947) che Bresci
fosse stato ucciso in seguito ad un intervento repressivo: il
cosiddetto “santantonio”.
|
Gaetano Bresci in un disegno di Fabio Santin |
Ecco come Ezio Riboldi in una lettera ad Armando Borghi comunica
le notizie che aveva trovato sulla morte del Bresci: con il
pretesto di tentata ribellione le guardie gettano sul disgraziato
coperte e lenzuola, per non lasciare segni, e lo colpiscono
con bastoni fino a farlo morire. Il Bresci fu così finito
e sepolto nell'isolotto in un posto mai precisato.
Luigi Veronelli invece in un suo commosso ricordo della visita
nell'isola degli ergastolani nel 1964 (“A”
308, maggio 2005) precisa che trascrisse uno per uno i cartigli
con i nomi dei sepolti trovati sulle croci in quello che restava
del cimitero, ricostruendone la mappa.
Negli ultimi anni il cimitero è stato ripulito e risistemate
le croci e anche le “tombe” hanno ritrovato il loro
nome grazie proprio alla “mappa” di Veronelli, compresa
quella di Gaetano Bresci, come riporta e documenta Valentina
Perniciaro, una dei visitatori-restauratori: tra quei corpi
tanti fratelli, tra quei corpi anche il caro “uccisore
di re” Gaetano Bresci... dedicato a tutti i suoi compagni
di prigionia di ieri, di oggi, di sempre. (https://baruda.net)
Fabio Santin
Venezia
Botta.../ Ma Alessio Lega si occupa di musica?
Cara redazione,
una piccola domanda. Come mai nella rubrica “musicale” di Alessio Lega ho trovato recensioni di libri che, a volte, niente mi pare non abbiano niente a che fare con la musica? Non starebbero meglio nella rubrica Rassegna libertaria? E poi anche il logo della sua rubrica, un microfono, rimanda specificamente alla musica e non in genere alla “cultura”.
Grazie per l'eventuale risposta.
Fabio Crippa
Varesea
e risposta/ In un fecondo scambio di generi
Caro Fabio,
provo a imbastire una replica alla tua giusta osservazione con quelle che a me paiono riflessioni generali sull'evoluzione del mio lavoro, che ovviamente si rispecchia in una rubrica che ospita continuativamente le mie parole, mese per mese, da quasi vent'anni.
Mi pare che il tema della “canzone”, ovvero la commistione musica/parole - non ho mai fatto un puro discorso sulla musica strumentale - si sia aperto a un discorso sull'oralità: questa evoluzione è percepibile nella mia opera. Perché un autore di canzoni dovrebbe costruire una biografia su Bakunin? O un dialogo con Celestini? E guarda caso questi libri mi sono stati richiesti proprio da editori nostri “fratelli”, immagino attenti lettori di “A”, e proprio sulla base della mia rubrica. Insomma, non per sfuggire la questione, anzi per rilanciarla precisandola, in linea di massima mi occupo dei percorsi in cui il fenomeno dell'oralità si manifesta nella cultura contemporanea in forme elaborate e narrative.
In quest'ottica mi pare che il titolo della mia rubrica “Compagnia cantante” sia un'antica intuizione ancora del tutto a fuoco... come inizia il poema fondativo della letteratura mondiale - quanto meno nella bella versione del Monti - “ Cantami o diva...”, come si chiama la massima raccolta della poesia moderna: “I Canti” (di Leopardi). Pensi che siano incipit e titoli fuori luogo o che travisano il contenuto? Quanto all'immagine del microfono, il bel libro di Greg Milner, che ricostruisce la storia generale della registrazione (pubblicato in Italia dal Saggiatore), ci chiarisce che il primo scopo di questa mirava innanzi tutto ai discorsi, alle voci narranti più che alla musica, e in questo, proprio il tipo di microfono da voi scelto per il logo è radiofonico... quindi, anche nei particolari, mi pare tutto più che coerente.
Insomma mi pare di non aver fatto mai nella mia rubrica delle recensioni tout-court né di libri né di dischi, ma di aver inteso raccontare (sottolineo il verbo) quanto dell'oralità costituisca motivo continuo e fondante né della canzone né della letteratura (o del cinema o del teatro o del fumetto) in particolare, ma di una condizione vitale, soggettiva, non-accademica,e quindi forse anarchica del Movimento (sottolineo il sostantivo). In sostanza quanto nella parola - scritta, detta o cantata - rispecchia la vita. In uno scambio fecondo di generi in cui il libro di Stajano su Serantini, per come io lo percepisco, è un'operazione più vicina alla “Ballata per Giuseppe Pinelli”, che l'uno ai “Promessi Sposi” e l'altra ai “silenzi” di John Cage.
Insomma - e mi scuso della pomposità - la mia Compagnia Cantante prova da vent'anni a trovare il filo d'Arianna del Pelide Achille, affinché gli infiniti lutti degli Achei non siano un canto funebre ma parola di vita.
Un caro saluto.
Alessio Lega
Certi rifugi alpini, presidi culturali d'alta quota
Siamo sempre di più a trovare nella montagna un luogo di libertà e resistenza. La montagna, in fondo, questa funzione l'ha sempre avuta. Eretici, partigiani, combattenti, minoranze di ogni tipo: stiamo lassù, appartati, dove nessuno ci vede, e dove è più difficile arrivare per i padroni e i loro controllori (quando arrivano, di solito li avvistiamo da lontano e riusciamo a sparire per tempo).
In particolare la montagna minore, spopolata da decenni, ha per noi grandi possibilità, a patto che si accetti di fare la fatica che la montagna richiede, non solo la fatica delle gambe ma anche quella della frugalità e dell'isolamento, che vorremmo non fosse solitudine.
Per questo il rifugio alpino è diventato un luogo cruciale. Ci sono tanti rifugi sfitti nelle valli senza piste da sci e sotto a cime di poca fama, nessuno li vuole perché costano più di quel che rendono. Negli ultimi anni, ne ho visti alcuni cambiare gestione e spirito: non più solo ritrovo di escursionisti e mangiatori di polenta ma veri presidi culturali d'alta quota, con libri, riviste, una programmazione di incontri, un'idea precisa di cosa significhi oggi, per noi, stare in montagna. Sono laboratori e luoghi d'incontro, piccole repubbliche partigiane, porti accoglienti per i naufraghi delle terre alte. Sarebbe bello contarli, questi rifugi amici, e metterli in contatto con noi e tra loro, in modo che più forte sia il sostegno e che la solitudine faccia meno paura.
Un saluto al rifugio Selleries da Estoul in Valle d'Aosta. Viva la montAgna!
Paolo Cognetti
|
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni.
Associazione Le Nuvole (Sasso Marconi – Bo)
100,00; Anna Passerini (Ponte in Valtellina –
So) 10,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00;
Luca Galletti (Lancenigo – Tv) 10,00; Giuseppe
Lo Pò (Barcellona Pozzo di Gotto – Me)
per Pdf, 8,00; Giovanni Canonica (Barolo – CN)
10,00; Daniele De Paoli (Novate Milanese – Mi)
10,00; Antonio Squeo (Molfetta - Ba) per un 25 aprile
antifascista, 100,00; Cesarina e Peter (Minusio –
Svizzera) ricordando Pio Turroni, 50,00; Daniela e
Edy (Soazza – Svizzera), 50,00; famiglia Cardella
(Palermo) ricordando Antonio, 100,00; Aurora e Paolo
(Milano) ricordando Umberto Marzocchi nel 32°
anniversario della morte, 500,00; Elia Cauli (Erba
– Co) 10,00; Giacomo Puttini (Nogara –
Vr) 10,00; Nicola Pisu (Serrenti - Ca) 20.00; Alessandro
Brilli (Firenze) 10,00; Gualtiero Mannelli (Pistoia)
20,00; Maria Pranini (Modena) 10,00; Luca Vitone (Berlino
– Germania) 100,00. Totale
€ 1.178,00.
Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo
anche le quote eccedenti il normale costo dell'abbonamento.
Per esempio, chi ci manda € 50,00 per un abbonamento
normale in Italia (che costa € 40,00) vede registrata
tra le sottoscrizioni la somma di € 10,00.
Abbonamenti sostenitori.
(quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo
di cento euro). Paolo Facchi (Casatenovo –
Co) “Ciao, Paolo”; Alessandro Marutti
(Cologno Monzese - Mi). Totale
€ 200,00.
|
|