Rivista Anarchica Online


clericalismo

Il filo della memoria
di Maria Matteo

Sono trascorsi 700 anni dallo scoppio della rivolta dell’eretico Fra’ Dolcino.
Dalla storia al mito, se ne discute ancora.

 

Dante collocò Dolcino all’inferno nel girone riservato agli eresiarchi, i fondatori di eresie, ma ben chiaro è il rispetto che egli mostra per l’uomo che aveva osato ribellarsi alla Chiesa di Roma non solo sul piano dottrinale ma divenendo altresì punto di riferimento per una rivolta armata dei contadini del vercellese durata 7 anni. Assai chiaro è altresì il disprezzo di Dante per i suoi persecutori i papi Bonifacio VIII e Clemente V, per quali il poeta trova un posto nello stesso inferno. Ricordare oggi Dolcino nell’anniversario del rogo in cui terminò la sua rivolta non è mera operazione di rievocazione storica ma tentativo di riannodare i fili di una memoria attraverso la quale la storia della ribellione dolciniana diviene mito potente capace di giungere sino ai giorni nostri come riferimento ideale delle lotte degli oppressi contro la gerarchia e lo sfruttamento.
L’eresia dolciniana si colloca nel grande filone che va da Gioacchino da Fiore ai Catari, Patari, Gazzeri, Bogomili, Valdesi, fraticelli, il cui caposaldo è nel rifiuto del principio di autorità e quindi della Chiesa alla quale non si debbono pagare le decime. Dolcino predicava la povertà come distacco dal potere e dalla gerarchia, la comunione dei beni materiali, l’assenza di vincoli formali di obbedienza. La sua era una dottrina radicale che incontrandosi con le esigenze emergenti dalla disperata condizione dei servi della gleba e del popolo minuto delle città porta ad una rivolta che per le autorità religiose e civili del tempo rappresentò una terribile minaccia per l’ordinamento istituzionale e sociale. I dolciniani raccolsero consenso tra masse povere rurali ed urbane e, anziché “farsi massacrare inermi, si armarono, espropriarono per sopravvivere i ricchi, inventarono la guerra di guerriglia, in pianura e in montagna”1.
Nel 1897 lo storico Antonio Labriola scrisse che nel moto dolciniano conversero “gli elementi tutti di una rivoluzione sociale”. Più tardi lo storico contemporaneo Eugenio Anagnine, chiedendosi le ragioni del persistente interesse suscitato da un episodio isolato, svoltosi nell’alta montagna piemontese, lontano dai grandi centri scrive: “vi fu quello strano connubio della religione e della politica, delle aspirazioni mistiche e delle rivendicazioni sociali a stampo anarchico, che spaventano nel contempo le gerarchie ecclesiastiche (...) e la borghesia comunale (...), la vampata di rivolta sociale e religiosa (...) minacciava tutti in una volta gli interessi spirituali della Chiesa, gli interessi politici dei grandi feudatari, gli interessi sociali della borghesia comunale”.


Una marcia da leggenda

L’epopea dolciniana si svolse nell’arco di 7 anni che videro gli apostolici al centro di una rivolta che mise in seria difficoltà le armate cattoliche tra il 1300 e il 1307. Seguace dell’apostolico Segalello, pacifico autore di “Misteri Buffi”, assiste a Parma al suo rogo nel luglio del 1300 e nell’agosto assume la guida degli apostolici. Nel 1303 è rifugiato nelle Alpi Giulie da dove parte la sua “lettera” ai fedeli (che sono circa 4000 ed armati) in cui sono contenuti i fondamenti della sua dottrina. Nel 1904 Dolcino attraversa in armi la pianura padana e giunge a Gattinara, ove viene ben accolto dalla popolazione locale che aveva appena cacciato i conti Arborio, signori feudali della zona. L’esercito dolciniano conta 5000 uomini e raccoglie la adesioni di parte del clero di Gattinara e molti degli abitanti dei borghi della Val Sesia. I dolciniani si fortificano a Gattinara e fanno scorrerie nei territori circostanti; inoltre Dolcino impone tasse a ricchi e nobili. Nel marzo di quello stesso anno l’esercito degli apostolici sconfigge una lega cattolica organizzata contro di lui dai nobili e dal clero. Nell’estate la lega si riorganizza e Dolcino si ritira in Valsesia mentre Gattinara viene devastata e gli abitanti sterminati dall’esercito cattolico. I dolciniani vengono progressivamente circondati e si barricano in montagna sulla parete Calva ove trascorrono un difficilissimo inverno.
Una marcia da leggenda attraverso i valichi alpini porta poi gli apostolici nel biellese ove inizia una lotta senza quartiere, feroce e totale: il 23 marzo del 1307 i dolciniani vengono definitivamente sconfitti sul monte Rubello. Dolcino, Cattaneo Longino e Margherita leader teorici e militari degli eretici pauperisti vengono feriti e catturati. Condannati al rogo ed alla tortura verranno ferocemente tormentati con tenaglie roventi e bruciati vivi. Negli anni e secoli seguenti la persecuzione continua senza tregua.

 

“Poveri cristi” e sovversivi

Nonostante la sconfitta, nonostante la sorte atroce che toccò ai ribelli apostolici, i “poveri cristi”, la memoria popolare di Fra’ Dolcino non si spense mai in Valsesia e nel biellese e dopo la rivoluzione francese divenne un riferimento politico. Paradossalmente è la stessa Chiesa ad alimentare il mito di un Dolcino “socialista”. Nel 1866 a Crocemosso, dove tre anni prima era sorta la “Società delle tessitrici e dei tessitori di Crocemosso”, organizzazione operaia al centro di lotte e scioperi per oltre quarant’anni, in una predica i dolciniani sono già presentati come anticipatori dei socialisti in quanto i primi e i secondi sono contro l’autorità, la proprietà privata, il matrimonio istituzionale e a favore del “comunismo”. Nel tardo ’800 il monte Rubello ove si svolse l’ultima battaglia degli apostolici diviene luogo prescelto per le riunioni di sovversivi biellesi di varie tendenze: mazziniani, radicali, anarchici, socialisti.
Nel 1907, sesto anniversario della battaglia del Rubello, lo scontro tra le forze laiche e la chiesa diviene asprissimo: fiorisce da entrambe le parti la pubblicistica. Nell’agosto del 1907 il comitato per il centenario formatosi per l’occasione inaugura sul monte Mazzaro (vicinissimo al Rubello) un obelisco alto 10 metri, costruito grazie ad una grande campagna di sottoscrizione. Alla cerimonia di inaugurazione sono presenti 10.000 persone.
L’obelisco verrà fatto saltare dai fascisti, ma sullo stesso luogo quasi cinquant’anni dopo, nel 1974 un gruppo di amici attivi nel movimento operaio biellese, fece erigere una croce catara, inaugurata con una grande festa popolare e la rappresentazione con Dario Fo e Franca Rame di “Mistero Buffo”. Il filo della memoria non si spezza, perché non si spezza mai, nonostante la repressione clericale e statuale il filo della rivolta tra gli operai e i contadini biellesi e vercellesi. Durante la resistenza numerosi partigiani delle valli biellesi adottano il nome di battaglia di Dolcino. La storia e il mito di Fra’ Dolcino sono ancor oggi capaci di suscitare passioni e di intimorire la chiesa. Del tutto emblematica è la recente vicenda della lapide a Dolcino, che nel 1907 il movimento operaio vercellese volle collocata nella propria casa del popolo. Gli operai valsesiani, biellesi e vercellesi riconoscevano in Dolcino il simbolo di una rivolta le cui ragioni erano idealmente anche le loro: oltre alla lapide in questione eressero sul Massaro un obelisco che, nel 1917, rappresentò punto di riferimento pacifista per una semiclandestina marcia socialista contro la guerra mondiale che mieteva a migliaia giovani vittime.



Le pressioni della Curia

La lapide a Dolcino fu rimossa dai fascisti e finì in un solaio: ritrovata nel 1987 fu portata al Museo Civico Leone. Da allora iniziò una lunga battaglia perché la lapide venisse ricollocata in un luogo pubblico. Il momento pareva giunto il 3 marzo di quest’anno: gli operai del comune avevano già iniziato i lavori per sistemare la lapide lungo lo scalone di ingresso del Municipio di Vercelli, ma all’improvviso dal sindaco, Gabriele Bagnasco, giunge il contrordine ed in fretta e furia i lavori vengono sospesi e la lapide viene invece collocata nell’atrio dell’Auditorium di Santa Chiara in posizione decisamente più defilata rispetto alla precedente. La Curia nega di aver esercitato pressioni ma non nasconde la propria soddisfazione per “l’interessamento” alla questione di alcuni consiglieri cattolici che sostengono la giunta comunale vercellese.
Dolcino evidentemente fa ancora paura ad una Chiesa che proclama ufficialmente di pentirsi per le colpe del passato ma versa solo lacrime di coccodrillo mentre si accanisce contro i propri oppositori anche dopo quasi 7 secoli. Dolcino evidentemente fa ancora paura, fa paura perché la sua storia e il mito che ne è derivato appartengono ad una “memoria collettiva” che dopo quasi sette secoli continua a riemergere ispirando nuovi movimenti di emancipazione e di libertà. Roberto Prato scrisse descrivendo l’erezione della croce catara sul Rubello nel 1974: “Così i nipoti tornavano, con nuove pietre, alle pietre dei nonni”. “...la storia è matrice del mito, e quest’ultimo diviene motore e funzione di una nuova storia”.

Maria Matteo


P.S. I miei ringraziamenti al professor Roberto Prato, storico ed anarchico, fine conoscitore dell’avventura politica, religiosa ed umana di Dolcino, autore del saggio “Fra’ Dolcino. Storia, dottrina, mito”, da cui l’articolo prende ampiamente spunto.


1 Fra’ Dolcino. Storia, dottrina, mito saggio inedito del 25 febbraio 1992 di Roberto Prato.

 

“A Fra’ Dolcino
qui in Vercelli attanagliato ed arso
il primo giugno 1307
per aver predicato
pace ed amore tra gli uomini”

Questo il testo della lapide a Dolcino collocata sulla facciata della Casa del Popolo di Vercelli nel 1907, seicentesimo anniversario del rogo. Dal marzo di quest’anno la lapide è stata collocata nell’atrio dell’Auditorium di Santa Chiara in posizione defilata rispetto a quella prevista (nello scalone del municipio) a causa delle pressioni del vescovo di Vercelli.