La notte di Macbeth, che la sua Lady
definisce "quasi alle prese con la mattina", sarà
lunga, in realtà, come quella "che non trova mai
il giorno". Se, come ha scritto Jan Kott in pagine memorabili,
la tragedia di Macbeth è metafora della Storia intesa
come lotta inesorabile per il potere, costruito delitto dopo
delitto, crimine dopo crimine, e il solo sogno possibile, per
uscire dall'incubo, è un delitto definitivo, che spezzi
la catena dei crimini, ecco che allora il Macbeth in
carcere è incubo nell'incubo: un mondo ermetico, dominato
dal delitto e dal suo pensiero, racchiuso in un universo concentrazionario,
dove la condizione degli individui è sopraffatta dalla
dimensione della colpa e determinata dal meccanismo della pena.
L'estate scorsa, la Fortezza di Volterra ha accolto gli spettatori
per l'ormai tradizionale appuntamento di luglio nell'imballaggio
ermetico di un teatro di cartone costruito nell'unico spazio
aperto che è il cortile del carcere. Il teatro impossibile
di Armando Punzo è proprio come questa pazzesca scenografia:
una costruzione perfetta che bastano le folate di un vento estivo
a minacciarla. Gli attori sono lì seduti, con le loro
storie personali e con tutto il materiale raccolto durante i
nove mesi di lavoro sul Macbeth, comprese le immagini
dei film e le interpretazioni memorabili trasmesse dai quattro
monitor sistemati ai lati.
Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino,
gli attori interpretano e interrompono brani del Macbeth,
evocano i personaggi e danno corpo alle loro azioni, ma per
tessere una trama continuamente spezzata e ricucita attorno
alla sfida impossibile della rappresentazione intesa come costruzione
di un mondo equivalente. D'altro canto, il regista è
in scena, a dichiarare fin dall'inizio la rottura della forma
spettacolo: "Nello psicodramma spiega al pubblico
lo spazio è uno spazio sociale. Gli attori rappresentano
i loro conflitti più profondi". E gli attori detenuti
reagiscono ai suggerimenti e alle richieste del regista, che
li interroga e li guida tenendoli anche materialmente
per mano in un percorso di rispecchiamento e immedesimazione
che pone al centro i temi del delitto e della colpa. Servendosi
di pochi, semplici oggetti e di qualche intervento dei compagni
corone dorate di carta che passano di testa in testa,
piccoli fari puntati sui volti, specchi, mani strette alla gola,
sangue versato sui corpi, un coltello, una gabbia gli
attori estraggono dal Macbeth, con disarmante naturalezza,
momenti di verità personale che in molti casi diventano,
d'un colpo, grandissimi pezzi di teatro, rivelando al contempo
i vertici poetici e la vocazione popolare del teatro shakespeariano,
mentre dai video le immagini di Glauco Mauri, Carmelo Bene,
Jack Nicholson intervengono a incrociare ulteriori sfondi e
nuove sfide. Allora ci chiediamo se è anche questo che
vogliono dirci gli attori e il regista (con un pezzetto di ironia
che è certamente presente nell'operazione): che sarebbero
in grado di fare un Macbeth più forte di quello
di tanti grandi attori e più agghiacciante di Shining
ma più importante dello spettacolo è la domanda
sul perché farlo e sul come ritrovare la verità
di Shakespeare, ossia del meccanismo della Storia: che in loro,
come in Macbeth, si condensa in vicenda personale. Vicenda
di delitti e di colpe alla quale rispondono concedendosi e sottraendosi:
"Ti ricorda qualcosa di te?". "Non sei stato
così tu, in nessun momento della tua vita?". "Siamo
in carcere: il teatro non c'entra assolutamente nulla".
"Queste sono le mie parole". "Io sono Macbeth".
"Io non credo a Macbeth". "Lui non l'ha ucciso
davvero, e ce lo sta dicendo". "A cosa ti fa pensare
questa scena?". "Qualsiasi cosa abbia fatto, non doveva
finire così". "Chi la fa quest'azione? Macbeth.
È teatro. Mai nella vita mia".
Armando Punzo non ha voluto rappresentare il Macbeth,
ma ha messo in scena la compagnia dei suoi attori detenuti alle
prese con l'allestimento della tragedia shakespeariana in forma
di psicodramma. Non, come qualcuno ha scritto, una dimostrazione
di lavoro, o una seduta di prova aperta al pubblico, ma uno
spettacolo di cui gli attori e il regista della Fortezza sono
al tempo stesso interpreti e personaggi. Così come nel
Macbeth shakespeariano il mondo non è immagine
riflessa nello specchio del teatro, ma vi entra a tutti gli
effetti in quanto "terzo personaggio del dramma" (Jan
Kott), allo stesso modo nel Macbeth della Fortezza il
carcere non è metaforizzato nelle vicende rappresentate,
ma è fino in fondo protagonista.
Quando Armando parlava
Lo stesso procedimento, si ricorderà, avveniva nel Teatro
di guerra di Mario Martone, il film che raccontava la vicenda
di un gruppo di attori e di un regista alle prese con l'allestimento
di una tragedia, I Sette contro Tebe, da portare nella
Sarajevo bombardata. Momenti di prove, brani dello spettacolo,
vicende personali, mentre il conflitto nella ex Jugoslavia accelerava
e ingigantiva l'urgenza del teatro come azione nel mondo e rimpiccioliva
sempre più lo spettacolo come metafora della guerra:
riflesso talmente inadeguato da dover lasciare, alla fine, che
il mondo (e la guerra) si rappresentassero da sé, decretando
l'impossibilità dello spettacolo a partire dall'ingresso
reale della morte.
Io ricordo quando Armando Punzo ancora parlava. (Sembra una
battuta, ma non lo è.) Quando anche e soprattutto
sulla spinta dei suoi spettacoli la realtà del
teatro in carcere aveva cominciato a suscitare attenzione, e
si organizzavano convegni e incontri, nazionali e internazionali,
nei quali gli interventi di Punzo erano immancabilmente i più
rivelatori e i più spiazzanti. Le sue parole arrivavano
puntualmente a smorzare entusiasmi introducendo dubbi anche
pesanti sull'utilità del teatro in carcere, sulla sua
funzione terapeutica o trattamentale e sulla responsabilità
di chi vi operava. Raccontare il dentro al fuori, lui lo sapeva,
era un'impresa pressoché impossibile, ma lui ci provava
(ancora) mettendo puntualmente tutto in discussione, soprattutto
l'ottimismo lui che stava vincendo, coi suoi attori,
premi su premi, e che rappresentava il faro del teatro in carcere
a livello internazionale. Poi ha preso a noia i convegni e le
tavole rotonde l'ha anche scritto in una lettera che
mi ha personalmente indirizzato e che abbiamo pubblicato sul
numero 246 di questa rivista ma soprattutto ha pressoché
smesso di parlare. Poi è diventato evidente che alle
domande ha cominciato a rispondere con gli spettacoli, attraverso
la rappresentazione paradossale dei luoghi comuni più
persistenti attorno al teatro in carcere e agli attori detenuti.
Nei Negri (1996, da Jean Genet) gli attori esemplificavano
sui propri volti le tipologie criminali di Lombroso; Orlando
Furioso (1998, da Ludovico Ariosto) rivelava infine la condizione
di pupi degli attori, riconsegnati agli invisibili fili del
manovratore dopo aver animato i percorsi di un labirinto senza
uscita; Insulti al pubblico (1999, da Peter Handke) trasformava
il cortile del carcere in villaggio balneare, con tanto di piscina
e palme; e quest'ultimo Macbeth, provocatoriamente costruito
in forma di psicodramma, è arrivato a rispondere a quanti
media e istituzioni ancora si attardano a interpretare
il teatro in carcere in chiave terapeutica o "trattamentale".
Alla fine gli spettatori erano commossi ma soprattutto turbati.
Pressoché tutti dicevano che quello spettacolo-non spettacolo
era stato il più bello della Fortezza, facendo coincidere,
ritengo, l'intensità dell'impatto emotivo con la qualità
del risultato artistico. Di certo, se un primato questo Macbeth
l'ha avuto, è stato quello di essersi spinto più
lontano, accettando con estremismo, persino con crudeltà,
di misurarsi con le proprie ragioni e insieme
con le proprie possibili derive: con la propria verità
e con i propri rischi, con la bellezza del teatro come confezione
e con l'orrore di tutto quello che la confezione taglia fuori
nell'operazione formale: prove, tentativi incandescenti, parole
che prendono vita e si accendono di verità, volti che
si deformano e gole che si stringono attorno a coscienze in
subbuglio, interpretazioni miracolose dilatate sull'incubo di
una perdurante notte, che continua a fissare la colpa al di
là di ogni psicodramma liberatorio tutto questo
acceso e bruciato in un giorno di luglio in attesa del luglio
seguente. "È lunga la notte che non trova mai il
giorno".
Quali forme espressive?
Così non so se questo è stato lo spettacolo più
bello di Armando Punzo, so che lui sta ormai da un'altra parte
rispetto al teatro inteso come rappresentazione, e so che non
tornerà certamente alla forma spettacolo. Non lo sta
facendo neanche nei laboratori che gli vengono affidati anche
da istituzioni prestigiose, come la Biennale di Venezia o l'Eti.
Sceglie allievi impossibili e sembra sprecare occasioni, in
realtà sta cercando di capire in quale direzione orientare
tutta la sapienza che i non attori della Fortezza hanno saputo
trasmettere al teatro ben oltre le modalità conosciute.
Con loro ha toccato il miracolo dell'"azione reale"
(necessaria, credibile, organica): quella attorno alla quale
i registi e teorici del secolo appena passato si sono diversamente
concentrati. Senza mai chiedersi se, una volta trovata, lo spettacolo
sarebbe stato in grado di contenerla. (E di fatti la si è
sempre intravista altrove: nei gesti di una donna impegnata
a pulire il palcoscenico, come è accaduto a Copeau; nel
dialogo di due ragazzi ignari di essere osservati, di là
dai vetri di una finestra, come nel caso di Stanislavskij).
E se non è lo spettacolo, il luogo dell'azione reale,
lo spazio della presenza che non rappresenta, quali altri territori
esplorare, quali relazioni, e quali forme espressive?
Sono le stesse domande che sembrano premere con urgenza sempre
maggiore chi si occupa di teatro e disagio in genere (carcere,
handicap, psichiatria). In attesa di trovare risposte, Armando
Punzo produce ulteriori scardinamenti, che vengono salutati
come eccellenti risultati teatrali, quando rappresentano, in
realtà, lo scandalo di un teatro che ritrova in condizione
reclusa l'urgenza e l'originalità delle sue ragioni.
L'attore detenuto è quello che "esce dal coro che
parla in terza persona e dice 'io'" come scriveva
Julian Beck, ponendosi contro il teatro di "attualizzazione
registica" e a favore di "un modo di vedere il passato",
ossia i motivi fondanti del teatro. Un teatro che sembra aver
esaurito la possibilità di utilizzare in chiave di spettacolo
gli strumenti che la ricerca teatrale si è data negli
ultimi decenni, e attraverso il quale gli attori parlano con
verità di loro stessi e del mondo, senza bisogno di metafore
e usando gli specchi come attrezzerie di scena.
"Io sono Macbeth" spiega un attore detenuto, inoltrandosi
nel tema della colpa e della sua elaborazione per via teatrale.
E intanto molti Macbeth rappresentano fuori e dentro i monitor
lo stato della notte e la distanza dal giorno: il tutto ben
bene imballato nel cartone da pacchi del cortile della Fortezza,
spettatori compresi, a riflettere sul ruolo del teatro come
metafora del mondo e sull'incubo di una realtà che non
ha bisogno di metafore per (rap)presentarsi.
Cristina Valenti
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