Ancora
su Leda
Il dibattito che si è svolto sugli ultimi numeri della rivista è
stato di certo acceso ed interessante. Innanzi tutto, per l'appassionata
competenza dei due primi partecipanti e sicuramente per le successive
testimonianze riportate. Stupisce e allieta che un personaggio
come la Rafanelli, per lungo tempo erroneamente considerata
di secondo piano nel panorama dell'anarchismo italiano, possa
provocare un tale interesse. Il rischio che è stato evidenziato,
per altro, è che una discussione che la riguardi non
vada oltre il confronto superficiale su temi secondari. Vi è
la necessità di storicizzare quella figura di donna "singolare
e affascinante", "coerente" e controversa, per
trarre dalla sua biografia, dalle vicende della sua vita, l'utilità
che una tale analisi può apportare in termini di comprensione
dell'anarchismo italiano. Non è questa, ovviamente, la
sede per condurre una simile operazione poiché la vita
della Rafanelli, come è stato giustamente osservato,
fu lunga e complessa. Vale la pena, comunque, di riprendere
e sviluppare alcuni degli spunti emersi dalla discussione.
È evidente che la fase di maggiore attività e
centralità della Rafanelli nel movimento fu a cavallo
della Grande guerra quando, già matura politicamente
e prima del suo progressivo allontanamento dalla militanza,
svolse un ruolo di primo piano nell'ambito dell'anarchismo individualista
milanese. Come ho scritto altrove (riprenderò anche testualmente
considerando che le idee non si consumino se ripetute) solamente
chi ha studiato e voluto comprendere lei e il suo pensiero,
e personaggi come G. Monanni e soprattutto C. Molaschi, cui
più di tutti ella fu legata da profonda e complice amicizia,
ha potuto dare una lettura veritiera di questo periodo. E poiché
non sempre o quasi mai gli "scrupoli
metodologici" e quelli "ideologici" si accordano,
per comporre il quadro della realtà milanese del periodo
si è dovuto elaborare un impianto teorico che marginalizzasse
definitivamente le ricostruzioni basate su un punto di vista
non obiettivo che aveva distorto questi avvenimenti, non permettendo
di coglierne i reali significati. Non si è potuto, infatti,
che definire, eufemisticamente, "discutibil[i] valutazion[i]
storiografic[he]", quelle analisi che hanno ridotto e definito
l'individualismo come una "provocazione
negativa
e degenerante", che aveva costituito una "torbida
pagina dell'anarchismo italiano", addirittura un "fungo
malefico" frutto delle "cialtronerie degli individualisti".
Queste posizioni, peraltro, erano basate su evidenti fraintendimenti
metodologici, innanzitutto perché partivano considerando
gli individualisti come dei "giovani borghesi assetati
di nuovo, del tutto staccati dalle lotte proletarie
piccolo
borghesi scontenti alla ricerca di ideali verniciati d'eroismo",
quando una semplice analisi delle biografie dei protagonisti
di questa parte avrebbe impedito questa malcomprensione; secondariamente
perché ravvisando in Libero Tancredi il "massimo
rappresentante di questo gruppo d'uomini" si giungeva perfino
ad escludere gli individualisti dal movimento anarchico.
Elevando il Rocca a "Pontefice massimo" dell'individualismo,
quindi, si ometteva che egli era stato eletto dai suoi presunti
compagni a rappresentante di un individualismo "da sifilocomio"
(dal Monanni) e a "scimpanzé dell'anarchismo italiano"
(dal Molaschi).
In effetti non vi era, come è ormai evidente, un individualismo
bensì degli individualismi. A questa categoria
erano riconducibili ma distinte fra loro, oltre a varie individualità
fra cui il Rocca anche quella corrente, definita
anarcoindividualista, sorta colla rivista "Vir" di
Firenze, sviluppatasi al contatto col fecondo terreno milanese,
e mai considerata da alcuno come esterna al resto del movimento
o da esso esclusa.
Con il grosso dell'anarchismo, infatti, gli esponenti di tale
corrente, cioè un vasto numero della leva di militanti
formatasi nel primo ventennio del secolo, condivideva i principi
generali, la matrice ideologica, l'impostazione etica e, in
linea di massima, le lotte. I maggiori esponenti di questa corrente,
poi, con in testa Leda Rafanelli e Carlo Molaschi, due fra le
figure più influenti nella Milano di quegli anni, erano
generalmente apprezzati e stimati dal resto del movimento che
ben si guardava dal definirli un "fungo malefico".
E questo nonostante la loro formazione culturale, solitamente
di autodidatti eppure profonda, fosse stata ovviamente eterodossa,
e condotta, oltre che sui classici, sui testi del Nietzsche
(di cui Molaschi era buon conoscitore), di Stirner, ma anche
di Ibsen e sugli scritti di culture e religioni diverse.
Dovrebbe essere superfluo ricordare, peraltro, che quelli erano
anni di grande fermento culturale e anche il movimento anarchico
le giovani leve , evidentemente era influenzato
e interessato alle "novità" (basti pensare,
a titolo d'esempio, agli iniziali contatti con i futuristi
).
"Noi eravamo giovani irrequieti intellettualmente e politicamente
ma desiderosi di smuovere l'atmosfera plumbea imperante",
scrisse più tardi Ugo Fedeli ricostruendo l'atmosfera
di quel periodo di guerra, dopoguerra, delusioni e speranze
di rinnovamento e rivoluzione culturale e sociale.
In questo quadro generale la Rafanelli si muoveva da protagonista
e in questo periodo ella intrattenne la sua relazione con il
trentenne socialista rivoluzionario direttore dell'Avanti!,
uomo politico di primo piano, idolo delle folle dei lavoratori,
ovviamente ambizioso, certamente affascinante perché
no? anche agli occhi di una giovane rivoluzionaria. È
peraltro più utile per valutare criticamente questa vicenda
e i documenti ad essa attinenti, non riferirsi ai giudizi espressi
in uno studio incentrato sull'archivio segreto del capo del
fascismo e quindi per forza di cose marginali e non sostanziati
da un apparato bibliografico o documentale bensì
analizzare gli studi e i documenti riguardanti la vita di lei.
La discussione si è sviluppata, poi, soprattutto sulla
religiosità della Rafanelli, sulle sue abitudini e comportamenti,
per alcuni folcloristici, per altri affascinanti, e sulle contraddizioni
e l'incoerenza che da questi sarebbero derivate.
Sul suo essere o meno un "modello di pensiero anarchico".
Mi sia permesso di immaginare Leda seduta sui cuscini della
sua stanza in Viale Monza, tra caffè, incensi e velluti;
per nulla interessata ad essere un modello di pensiero, soddisfatta
com'era di essere, liberamente, anarchica.
Mattia Granata
(Milano)
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