Rivista Anarchica Online


teatro

Nomadi per scelta
intervista ad Alessandro Berti di Francesco Codello

L'esperienza teatrale ed umana de “L’impasto”, sulle tracce di Julian Beck e di Jerzy Grotowski.

Rileggo l’articolo che avevo scritto sull’Impasto all’incirca tre anni e mezzo fa (“A” n. 235, aprile 1997) e mi stupisco in particolare di due riflessioni che forse non avrei immaginato preludessero così puntualmente agli sviluppi successivi. Scrivevo della Trilogia del balarino, operina in tre movimenti per parole, danza e canti, con cui l’Impasto allora emergente stava conquistando una rapida attenzione nel panorama del giovane teatro italiano. Parlavo del paradosso che sembra regolarmente accompagnare ogni battesimo teatrale, in un sistema che, mentre benedice il nuovo nato di turno, teme di non poterne controllare, assorbire, armonizzare l’originalità. E nella vicenda del balarino, che nasce nella felix padania teatrale per perdere la propria innocenza in Bosnia, leggevo la metafora del nuovo e coglievo un’indicazione, ossia “la necessità di essere altrove” e quindi di avviare una sperimentazione a tutto campo, sul piano artistico come su quello materiale, al di fuori delle consuetudini organizzative e produttive.
Due anni dopo, la compagnia si definiva Comunità Teatrale Nomade e alla fine del 2000 raccoglieva un’antologia del proprio repertorio nell’album teatrale che significativamente intitolava Padania infelix. Una doppia frattura era ormai consumata: rispetto alla possibilità di un insediamento stanziale in un territorio, e rispetto alla generazione teatrale degli anni Novanta, che troppo sbrigativamente era stata definita al singolare e solo tatticamente si era data identità di gruppo, essendo piuttosto costituita da un insieme di prototipi (come giustamente sono stati definiti in un recente libro): dotati di spiccate originalità artistiche e refrattari a riconoscersi come parte di un movimento o di una tradizione.
Nell’intervista che proponiamo Alessandro Berti, drammaturgo, regista e attore che ha fondato l’Impasto nel 1995 insieme alla coreografa, attrice e danzatrice Michela Lucenti, parla di questa svolta, che corrisponde a una “geografia esplosa”, in riferimento a un progetto che fa della compagnia un’entità territorialmente mobile e artisticamente fluttuante, in grado di aggregare giovani attori attorno a spettacoli da riallestire in ogni piazza su base laboratoriale e in rapporto a una rete di relazioni di volta in volta attivate. Così sono nati i progetti dal 1999 in poi (descritti nell’intervista), in particolare Critica lirica, Trionfo anonimo e la stessa Agenda di Seattle: che prima di essere spettacoli sono stati laboratori estesi, dai contenuti formativi oltre che produttivi, all’interno dei quali le relazioni fra i partecipanti sono divenute terreno di sperimentazione non meno dei contenuti e dei linguaggi, e il viaggio ha rappresentato una modalità fondamentale di lavoro e non una contingenza. Il viaggio come luogo di incontri e come dimensione condivisa, da “mettere in scena” in qualche modo, come avviene nell’Agenda di Seattle, dove il pubblico, prima che con lo spettacolo, entra in contatto con i banchetti delle associazioni di volontariato e intervento sociale che nei vari luoghi animano l’atrio-piazza del teatro: Emergency, Lila, Greenpeace, Amnesty International e le varie sigle dell’associazionismo civile e antagonista (a Milano, nel foyer del CRT, erano presenti anche le Edizioni “A” ed Elèuthera). E il viaggio come tratto d’unione fra il nomadismo di esperienze teatrali che non si sono mai incontrate, in realtà, se non idealmente. Nell’intervista Alessandro Berti parla dei “numi personali” che hanno illuminato la “solitudine” del loro viaggio, Julian Beck e Jerzy Grotowski, innanzitutto, scoperti in autonomia, rispettivamente da Alessandro e da Michela, avvicinati sui libri e quindi cercati attraverso gli incontri con Judith Malina e Hanon Reznikov, da una parte, Thomas Richards e il Workcenter di Pontedera, dall’altra.
Anche l’Impasto nasce (e forse solo qui è lecito riconoscere un apparentamento generazionale) dalla tabula rasa degli anni Novanta, che ha significato desiderio di riscrittura totale della scena e volontà di ripartire da sé, e quindi da un insieme di riferimenti personali non solo teatrali. La scrittura drammaturgica di Alessandro Berti e il linguaggio fisico e coreografico di Michela Lucenti prendono le mosse, in questo senso, da una condizione di azzeramento: azzeramento anche dei tabù che sembravano ormai appartenere al DNA della ricerca. E mi riferisco in particolare alla centralità del testo e della comunicazione.
L’Agenda di Seattle è uno spettacolo di forte ed esplicito contenuto politico, con elementi agitprop e vocazione – in certi tratti – persino didascalica, eppure non nasce dal teatro politico né si inserisce in alcuna corrente di teatro civile. (Il Living Theatre l’hanno scoperto tardivamente sui libri, come si diceva). Piuttosto, L’Agenda di Seattle si spiega all’interno dell’impasto sperimentale del gruppo, basato su invenzioni testuali, vocali e coreografiche, miscelate, dal 1999 in poi, da un’urgenza irrinunciabile di “credibilità”. “Azioni e parole credibili”, ossia autentiche e contemporanee, in primo luogo, come autentica è la necessità di “lettura militante del presente” e contemporanee sono le tematiche attraverso le quali il vertice di Seattle ha in qualche modo definito “l’universo mitico contemporaneo”.
Se il teatro possa farsi carico direttamente di contenuti politici oppure debba alludervi per stilizzazioni e metafore (pena l’abdicazione dal proprio statuto artistico); se per mettere in scena le logiche del potere e gli strumenti della disobbedienza civile sia meglio farlo per bocca di Antigone, piuttosto che con esempi contemporanei (a rischio di cadere nella cronaca); se il teatro si debba porre l’obiettivo di essere politico di per sé, come pratica sociale ed esperienza di relazione, e non già trattando contenuti direttamente politici (a rischio di perdere di autonomia artistica e sfociare nel didascalico)… di tutta questa antica e mai risolta querelle fra opposte scuole di pensiero, l’Impasto sembra non essersi preoccupato affatto, perché non è da tradizioni, correnti, riferimenti che ha preso le mosse, ma da se stesso, dalla propria storia e dalle proprie modalità teatrali, ivi compresa la vocazione radicalmente sperimentale sul piano delle invenzioni linguistiche.
Il risultato è che lo spettacolo è al tempo stesso una rilettura dell’Antigone e un lavoro di nuova drammaturgia, è agitprop ed è ricerca inedita sui confini del teatro. E, come spesso avviene in presenza dell’autenticamente nuovo – in particolare quando “ricerca” e “popolare” uniscono le rispettive ragioni sul piano comunicativo – il pubblico ha risposto con calore, il teatro ha conquistato spettatori non usuali, molta critica ha storto il naso, le categorie sono saltate e quanti non hanno più saputo dove collocare l’accadimento (fra teatro e politica, popolare e ricerca, arte e agitprop) hanno preferito censurarlo come esperimento “non teatrale”.
Personalmente, ritengo che lo spettacolo porti alle estreme conseguenze le premesse fondanti dell’Impasto: l’autonomia e l’approfondimento delle diverse zone di ricerca (scrittura testuale, linguaggio fisico e coreografico, musica e vocalità) dove l’attenzione ai temi della contemporaneità è del tutto risolta, in realtà, all’interno di questi stessi parametri. Colpa delle nostre orecchie e della nostra monca (o parcellizzata) sensibilità se gli argomenti che più ci interessano quotidianamente sono quelli che più ci urtano a teatro. Alla fine della prima parte dello spettacolo le tute bianche occupano la scena e chiedono che la vera vita subentri alla dimensione eroica, che il teatro trovi il coraggio di parlare della realtà. Il dialogo che tiene tutta la seconda parte non è affatto “agitazione e propaganda” improvvisata, ma è costruzione drammaturgica in senso proprio. Si tratta, semplicemente, di un lungo dialogo fra coetanei che, proprio in quanto sapiente dal punto di vista teatrale, sembra “vero” ossia improvvisato.
I temi del dialogo appartengono a una ben precisa quotidianità: al confronto fra le giovani generazioni impegnate a raccapezzarsi su quello che dovrebbe essere il loro mondo. E i protagonisti tragici non sono i re e le regine, e neanche i personaggi della commedia borghese, e neppure quelli della letteratura contemporanea (minimalista o cannibale che sia): sono gli abitanti del Nord e del Sud del mondo, gli animali catturati con le tagliole e i delfini uccisi dalla pesca, i bovini affetti da encefalopatia spongiforme e i contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza, i possessori delle materie prime e i detentori dei brevetti… e infine, proiettati su uno schermo, gli scontri e i pestaggi in occasione dei raduni no global di Bologna e Napoli. La biografia dei personaggi si allarga allo sguardo sul mondo, protagonista di un dialogo che è scambio drammatico di informazioni, di dati, di rabbia, di desiderio di cambiamento.
Il nuovo esperimento teatrale dell’Impasto restringe lo sguardo a un quartiere (che è il titolo dello spettacolo) ma senza rinunciare al mondo. Ritorna ai personaggi, ma caricandoli dei segni di espressionistiche icone contemporanee. E continua ad inglobare percorsi laboratoriali ed esplorazioni urbane. La “necessità di essere altrove” si è fatta strappo rispetto alla coetanea “terza ondata” teatrale (in particolare sul piano della comunicazione) e frattura rispetto alle consuetudini teatrali (in relazione al nesso teatro-politica), ma l’altrove dell’Impasto è, in realtà, la contemporaneità del teatro che non rinuncia al presente del proprio gesto e allo scandalo del rapporto non mediato fra palcoscenico e comunità civile, o – per dirla con loro – “fra compagnia teatrale e territori”.

Cristina Valenti


L’intervista

C’è stata una virata decisiva, a un certo punto, nella vita dell’Impasto. Mentre i gruppi della vostra generazione cercavano un radicamento più stabile nel territorio, e per molti si apriva il riconoscimento ministeriale, voi vi definivate nomadi e facevate della non stanzialità un contenuto importante della vostra ricerca artistica.

Il 1999 è stato un anno di terremoto, l’anno in cui abbiamo iniziato i tentativi nomadi e una sperimentazione a tutto campo sul piano professionale. Alla fine del ’98 eravamo andati via da Bologna con l’idea di non avere più una sede fissa, di trasformarci in cantiere teatrale mobile, insediandoci di volta in volta nei luoghi dove dar vita ai nostri progetti. Da aprile a maggio lavorammo a Pontedera con un contratto che prevedeva una produzione finale a cura mia, di Michela e di Annalisa D’Amato. In realtà trasformammo la nostra residenza produttiva in un cantiere teatrale che chiamammo Critica lirica, sottotitolo: 21 giornate di lavoro su teatro e felicità. Avevamo costruito una tenda tuareg sul fiume e lì lavoravamo, discutevamo. Ci eravamo portati molti libri sulla comunità: La comunità inoperosa di Jean-Luc Nancy, La comunità inconfessabile di Maurice Blanchot… La mattina si faceva lavoro teorico, il pomeriggio Michela conduceva il lavoro fisico. Poi a un certo punto abbiamo cominciato a imbastire un’azione teatrale a partire dalla struttura di una partita di calcio. Dalle azioni fisiche stilizzate al gioco vero, studiando il momento di passaggio. C’erano discussioni accese. I conflitti che si creavano all’interno del gruppo non erano mediati dalla finalità teatrale. La passione straripava oltre i confini del lavoro teatrale. Gli ultimi giorni invitammo persone dall’esterno. Judith Malina venne a parlarci di teatro e comunità, Goffredo Fofi della stupidità, poi venne Thomas Richards, del Workcenter di Pontedera, a parlarci del suo lavoro con Grotowski. Sul piano del risultato scenico fu un fallimento. Alla fine il prodotto fu una partita di calcio (vera!) che giocammo coi nostri colleghi attori. Non credo che Roberto Bacci sia stato molto contento.

Era cosciente il senso di dissipare una possibilità produttiva per cercare qualcosa d’altro?

Assolutamente sì. Volevamo sperimentare delle possibilità differenti sul piano artistico e sul piano personale. Il cambiamento delle relazioni personali fra gli attori, in primo luogo. Dopo Pontedera, abbiamo lavorato a Santarcangelo con Davide Iodice e un gruppo di 30 attori per Poema delle moltitudini. Poi è iniziato lo studio di Trionfo anonimo che è andato avanti per tutto il ’99, con diverse tappe di lavoro in una geografia totalmente esplosa: Palermo, Buti, Rovereto, Cursi di Lecce, Arcidosso. In ogni tappa abbiamo presentato versioni differenti del lavoro, fino al debutto nel gennaio 2000 (al CRT di Milano), con 6 attori “sopravvissuti” dei 50 che avevano preso parte complessivamente al percorso. In questo senso si è trattato anche di un enorme lavoro formativo, che ha coinvolto un grande numero di giovani attori.
Il cambiamento del mio modo di scrivere i testi, in relazione a questo, era stato totale. In Trionfo anonimo lavoravo sulle biografie reali degli attori. La storia era semplice: una ragazza di buona famiglia la cui vita viene rivoluzionata prima dall’apparizione di una rockstar, poi dal matrimonio e alla fine dall’invasione di una comunità di giovani transfughi dalle rispettive vite, con cui decide di fuggire via. Dentro c’era un po’ la storia di ognuno di noi: dal piccolo nucleo (della famiglia, della compagnia teatrale ristretta) al grande nucleo della comunità. Io avevo avuto ore di conversazione con ogni attore, dalle quali era nata la proposta di lavorare su alcuni episodi (che potevano riguardare il presente come l’infanzia), e quindi avevo scritto la mia versione del testo, per ottenere alla fine 5 minuti di racconto personale di ciascun attore. Nel testo c’era la mia trasfigurazione ritmica e poetica, ma il nucleo tematico era il loro.
Anche per Michela si trattò di un cambiamento notevole. Lei era abituata a lavorare negli spettacoli con un attore per volta, costruendo le coreografie su ciascuno. Ora aveva un gruppo di dieci, venti persone (addirittura trenta a Santarcangelo), allora si trattava di trasferire le modalità tipiche del suo lavoro pedagogico nel lavoro coreografico corale. Un lavoro sull’affresco più che sul ritratto. Che poi è un lavoro sulla sostanza del movimento, su uno “stato” fisico che combatta il rischio di genericità contenuto nella dimensione allargata.

Ma qual era l’obiettivo ultimo della vostra sperimentazione? Quale risultato vi proponevate attraverso questi cambiamenti, sul piano artistico e sul piano delle relazioni all’interno della compagnia?

L’obiettivo era la credibilità del racconto e dell’azione. Questo dal punto di vista del linguaggio strettamente teatrale, in relazione al lavoro rispettivamente mio sui testi e di Michela sulle coreografie e i movimenti. Su un piano più generale, di senso, si trattava di partire dalle biografie personali per portare gli attori da un’altra parte, a condividere una prospettiva più generale. L’uscita dal biografico stretto, dal personale. Che poi è il passaggio che da Skankrer porta all’Agenda di Seattle. L’esplosione dalla compagnia ai territori.

Trionfo anonimo è stato un momento di passaggio anche nel senso dell’attraversamento di una crisi?

Decisamente sì. Trionfo anonimo ha segnato la rottura di un equilibrio. C’era un approfondimento troppo esasperato, troppo autonomo sia del lavoro di Michela sia mio, che corrispondeva a un accumulo eccezionale di lavoro e quindi alla necessità di ulteriori investimenti personali. Quell’equilibrio delicato che teneva insieme il nostro lavoro si era come smarrito…

Vi eravate chiamati Impasto proprio in riferimento al sodalizio dei vostri diversi apporti artistici, e a questo punto era come se doveste ricomprendere la possibilità di quell’amalgama?

Non era un problema di identità rispetto ai contenuti dell’Impasto originario. Si trattava di prendere coscienza di uno scenario nuovo che si spalancava. L’approfondimento dei nostri percorsi, inoltre, aveva portato gli attori a “schierarsi”: chi voleva proseguire il lavoro con me e chi con Michela. La precisazione delle individualità si era approfondita fino alla messa in crisi del gruppo. Si era persa la dimensione di leggerezza dell’impasto. Tutto andava nel senso dello scavo, della profondità. Ora sappiamo che il ’99 è stato più un laboratorio di idee che un percorso finalizzato a uno spettacolo. Quello che ci interessava era studiare i temi e le possibilità teatrali della comunità, del viaggio. Per me si è trattato di una svista interessante. E trovo che sia significativo che molte delle persone che hanno lavorato con noi in quei mesi abbiano poi trovato dei loro percorsi individuali.

Che importanza ha avuto per voi il confronto con altri viaggi teatrali?

E’ stato importante, non certo frustrante, scoprire che altri prima di noi avevano praticato il nomadismo teatrale, avevano posto al centro la dimensione del viaggio. Sembrerà strano, ma Julian Beck l’ho scoperto agli inizi del ’99. C’è una certa solitudine nel viaggio. Così è capitato che ognuno di noi, nella fuga, si sia legato al proprio nume. Per me è stato Julian Beck, per Michela Jerzy Grotowski. Il fantasma di Julian Beck è stato per me importantissimo. In particolare le sue pagine del Theandric in cui parla del respiro. Quest’idea del teatro come polmone, apertura fra interno ed esterno, illuminazione… Per Michela è stato particolarmente importante ritrovare Grotowski proprio a Pontedera, nella ricchezza del confronto diretto col Workcenter, e poi confrontarsi con il coraggio delle proprie motivazioni in una situazione di sradicamento.


In che modo L’Agenda di Seattle ha ereditato il cantiere del ’99, nel senso della sperimentazione di gruppo, degli approfondimenti individuali, ma anche della crisi?

All’Agenda di Seattle abbiamo cominciato a pensare alla fine del ’99. Dal lavoro precedente era nato un libro di domande. All’inizio del 2000 abbiamo avuto una gestione assembleare, con relative conseguenze di fratture e abbandoni. L’Agenda ha rappresentato un nuovo equilibrio. Se ci pensi, lo spettacolo è costruito in tre parti, che in fondo corrispondono classicamente a tesi, antitesi, sintesi. Lo spettacolo mette in scena l’anno precedente e il precario equilibrio raggiunto. La parte teatrale, la rilettura dell’Antigone in versione Impasto, viene interrotta dalla realtà delle tute bianche che irrompono in scena. La vita che preme e che impone le sue ragioni al teatro (come realmente ci è capitato). E’ il momento di rottura, la necessità di infierire sul manufatto che si è creato, di spezzarlo. La ricerca di aria, di respiro. Poi, nella terza parte, la possibilità di armonizzazione: il tentativo di continuare a vivere nel campo di mais. Nella nuova versione approfondiremo proprio questa terza parte.

E’ possibile individuare, al di sotto della frattura, anche il senso di una continuità, o del radicalizzarsi di una direzione che, in fondo, era già presente nella scrittura feroce e caustica dei vostri primi spettacoli “padani”?

Fino a Terra di burro i nostri spettacoli mettevano in scena delle voci isolate che lanciavano invettive anche aspre sul proprio territorio. Con L’Agenda ci siamo mescolati al territorio. Noi siamo nati coi teatranti occupanti a Bologna, nel 1995/96. Recentemente abbiamo riconosciuto e ritrovato le istanze che ci muovevano quando abbiamo occupato i teatri. Abbiamo riconosciuto quel tentativo in una vastità di scenario. Individuare dentro di sé un bisogno e riportarlo all’interno di un tessuto di movimento, di spazio pubblico (come nell’Agenda di Seattle) o di quartiere (come nell’ultimo spettacolo).

Cosa cambierà nell’Agenda di Seattle dopo Genova?

Noi siamo stati a Genova il giovedì e il sabato. A posteriori (capaci tutti!), dico che bisognava annullare le varie azioni di disobbedienza civile del venerdì. Ci voleva veggenza e coraggio ma dopo il meraviglioso corteo dei migranti del giovedì sarebbe stato davvero importante continuare quel discorso, difendere in primo luogo i contenuti, il piano propositivo. Prima delle forme diverse di opposizione occorreva garantire la difesa dei contenuti. E’ chiaro che ora, in una situazione di diritti sospesi, si pongono al centro i temi legati all’emergenza. Ma questo non deve significare che si abbandoni il discorso sui contenuti. E’ quello che vogliono! Nell’Agenda di Seattle alla fine c’è il barbone che dice “hanno lasciato un buco!” E’ lì che bisogna agire, nelle intercapedini del sistema, nelle zone non controllate, creando nuove forme. I modi per teatralizzare il conflitto non sono importanti in sé, importanti sono i contenuti, i progetti: il boicottaggio, le banche etiche, le MAG, il commercio equo, la riduzione dei consumi. Vallo a spiegare a chi ha letto i resoconti di Genova sui giornali, dove le forme di contestazione hanno completamente oscurato i contenuti! A Genova dovevamo comprendere che quello spazio pubblico era finto, era una trappola. D’ora in poi occorrerà inventare qualcosa di diverso. D’altra parte è evidente che se lo spazio pubblico non può essere altro che una trappola questo è un grave lutto, perché l’alternativa alla piazza non può essere neppure una specie di vendita casa per casa delle pentole!
Il nostro spettacolo assumerà in pieno il dopo Genova. Si parlerà di “uno spettacolo che si chiamava L’agenda di Seattle”. Una sorta di citazione della stagione del candore. Da intrusione teatrale nello spazio pubblico a “lo spazio pubblico dopo Genova”. L’urgenza attuale non è più tanto quella di informare, come facevamo nella seconda parte dello spettacolo (che sarà perciò asciugata), quanto di discernere, di lavorare a strumenti più sottili di comprensione.

Cosa unisce il vostro lavoro di persone di teatro al più vasto popolo di Seattle?

Credo che la cosa più straordinaria del movimento attuale siano le ricadute nella vita delle persone e nei territori. Dopo essere state prosciugate di motivazioni, le vite quotidiane e le professioni possono ricongiungersi a contenuti più generali. Questo è interessante anche per me che sono un attore professionista e che ho fatto la scuola dello Stabile di Genova. Sono un militante e sono un professionista. Non mi sento a disagio all’interno del movimento no global, al quale posso contribuire col contenuto del mio lavoro, in termini professionali. Le figure dei militanti a tempo pieno, destinati poi a riciclarsi nei ruoli di potere della politica o dell’impresa appartengono a un’altra epoca, devono appartenere a un’altra epoca.
Per questo nel nostro spettacolo cambierà soprattutto la seconda parte. Sarà più reale, meno teatralizzata, sarà una riflessione sulle responsabilità di una cittadinanza attiva. Occorre alternare ai momenti pubblici tutta un’attività più nascosta e sotterranea, che corrisponde alle possibilità più concrete di ricaduta dei contenuti antiglobal. Questa può essere la vera rivoluzione; una risposta attiva alle contraddizioni della globalizzazione può essere la moltiplicazione dei social forum.

Il vostro prossimo spettacolo si intitola Il quartiere.

Sì, col Quartiere ripartiamo dal microcosmo che in qualche modo mima e ripropone gli stessi problemi. Oggi tutti hanno computer e TV, tutti siamo globalizzati. I quartieri sono quartieri mondo, luoghi crogiuolo delle contraddizioni contemporanee. Nel nostro spettacolo ci sono 13 personaggi fra i 30 e i 40 anni. Un giudice, un poliziotto, un imprenditore, un militante di estrema destra, una prostituta, due operai, un sacerdote… persone molto integrate, molto persuase. Quello che emerge è l’estrema violenza di relazioni basate sul potere. E’ un lavoro sul potere e sull’uso che se ne fa. Il poliziotto usa il potere per avere un rapporto sessuale con la prostituta, il giudice per decidere quali inchieste mandare avanti e quali insabbiare, l’imprenditore per tenere sottomessi gli operai (una egiziana e un italiano)… Le relazioni sono sempre mediate da una struttura di ruoli molto forte. Succedono cose atroci, anche di una violenza inaudita, ma la superficie è pur sempre rappresentata dalla messa di quartiere la domenica, dal karaoke il sabato sera… C’è un’Italietta che non si accorge delle periferie che ha, e che si è risvegliata incredula di fronte alle bande teppistiche metropolitane che si sono rese visibili anche a Genova. Preparando l’Agenda di Seattle, ci siamo accorti del baratro che separava il piano di persuasione dei manifesti elettorali e il piano degli incontri che facevamo nelle città. Due mondi completamente diversi. L’idea è stata quella di fare uno spettacolo su quel mondo, su chi non ci sta capendo niente, sui nostri concittadini sordi e ciechi, che non si sono accorti che Berlusconi ha fatto una campagna elettorale stile ’48, inscenando uno scontro politico da dopoguerra, ha fatto un teatro su questa persuasione, come se solo lui rappresentasse un sistema di valori, una visione del mondo, cui le persone hanno creduto… e intanto eleggevano Bill Gates: un imprenditore che controlla i nostri consumi! Ci sono due mondi che non comunicano. E che per chi ci comanda è importante che non comunichino mai. Il quartiere nasce da un lavoro coi ragazzini dei quartieri. Molto giovani. La scelta deriva da un partito preso: che loro dovranno essere meglio di noi. C’è una drammaturgia fissa, atroce, disillusa, anche un po’ volgare, spocchiosa, televisiva, presuntuosa. Poi c’è il lavoro coi ragazzi che è di speranza. Il movimento ha increspato le acque rispetto alla pace sociale. I ragazzini rappresentano la forza che erediterà il conflitto dopo di noi. Le scene dello spettacolo si svolgono tutte in interni asfittici: il palazzo di giustizia, la chiesa, il discobar… I ragazzini portano dentro le strade, lo spazio pubblico riconquistato, senza manganelli né lacrimogeni.

Cristina Valenti