Rivista Anarchica Online


Dossier America Latina
di Massimo Annibale Rossi

Dopo il Forum Social Mundial

Porto Alegre è stata la sede, lo scorso anno, dell'incontro tra realtà ecologiste ed anti-globalizzazione. È anche una città al centro di un originale progetto politico e sociale. Ne parliamo con un medico di base, eletto nelle file del PT.

Porto Alegre è una città vivace, elegante, attraente. Adagiata su un mantello di verdi colline, ha sviluppato una caratteristica trama di cañon metropolitani. Dei secoli passati, testimoniano i pochi edifici superstiti del centro storico e la mai sopita smania indipendentista del popolo gaucho. Gli indici dello stato sono cresciuti negli ultimi anni a un ritmo accelerato, ponendo la sua economia in una posizione privilegiata a livello federale (1). Da 12 anni il governo della città è nelle mani del Partido do Trabalhadores, stella nascente del firmamento politico brasiliano. Il Pt è nato dall’opposizione sindacale alla dittatura degli anni ’70, maturando un forte legame con la Teologia della Liberazione. Il rapporto con i movimenti di massa, in particolare i Sem Terra, si è mantenuto stretto negli anni, contribuendo ad alimentare il mito di un partito libertario.
L’attuale trend contrasta con le catastrofiche previsioni della destra. L’opposizione accusava i neo eletti di incompetenza e sosteneva che lo sviluppo economico fosse incompatibile con l’investimento sociale: l’esperienza si sarebbe rapidamente risolta in un fallimento. Il Pt nel ‘99 ha insediato un proprio governatore in Rio Grande, è al potere nel Mato Grosso do Sul e nell’Acre e la sua marcia a livello nazionale sembra inarrestabile. I risultati del “buon governo” appaiono concreti: potabilizzazione dell’acqua, riorganizzazione dei trasporti, bonifica delle favelas e riforma agraria. Un quadro che a Brasilia inquieta il blocco al potere, che in questi mesi sta reagendo con una campagna televisiva dai toni particolarmente aggressivi. L’atmosfera nel campo Pt si è d’altra parte elettrizzata con la recente conquista di San Paolo, la municipalità più popolosa del paese, a opera di Marta Suplicy. In una recente intervista Lula, lo storico presidente, dichiarava trionfalmente: “Siamo il partito di sinistra più importante del mondo” (2).

Coperti di stracci

E da questa inedita vocazione della capitale del Rio Grande a ombelico del mondo, è scaturita l’idea del Forum Sociale Mondiale dello scorso gennaio. Riunire le menti e i rappresentanti del vasto e ancora indistinto movimento che si oppone alla globalizzazione, per consolidarne l’identità. Il forum ha avuto ampia eco di stampa ed è riuscito a rappresentare una alternativa al meeting di Davos sul libero commercio. I militanti del Pt ne vanno giustamente fieri, anche se le voci critiche ne hanno sottolineato l’alto costo finanziario a discapito dell’attivazione di nuove politiche sociali, in particolare verso gli indigenti. La situazione risulta in questo senso contraddittoria e l’esercito dei senza casa appare essersi ancora ampliato. Le notti del centro offrono il desolante spettacolo dell’abbrutimento: con la chiusura dei negozi le strade pedonali divengono un ospizio a cielo aperto. Da ogni dove spuntano materassi, coperte, ripari improvvisati.
Degli indigenti di Porto Alegre, colpiscono le condizioni. Coperti di stracci, anestetizzati da alcool, colla e droghe a basso prezzo appaiono indifferenti al freddo, la pioggia, il disprezzo della gente. La maggioranza è tra i 30 e i 40 anni, ma numerosi sono anche i bambini, vitali e imploranti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Molti tra loro soffrono di problemi mentali e vagano, in preda a delirio. La gente con gli anni si è abituata alla loro presenza, e un corpo abbandonato e immobile in un angolo non fa notizia. Un fenomeno che di recente sta interessando sia i quartieri residenziali, sia la periferia, riguarda una inedita e disperata forma di organizzazione. Gruppi di indigenti, in condizioni un poco migliori di quelli del centro, prendono possesso delle vie di una data zona. Sono carenti di tutto, tranne che di tempo. Aspettano appoggiati a un muro, per giorni, quasi senza mutare di posizione. Osservano. La gente che abita nei dintorni, un po’ per stare tranquilla, un po’ per evitare che muoiano nella loro strada, dopo qualche tempo prende a gettare una moneta.
Le uniche vie sgombre di rottami umani sono quelle della vita notturna. Un efficiente servizio si occupa del parcheggio abusivo e di tenere lontano gli indesiderati. Sono giovani dai 20 ai 30 anni, che si sono inventati una professione, oggi generalmente valorizzata. Sono vestiti decentemente, e hanno elaborato uno specifico codice: ti ricevono correndoti incontro con uno straccio colorato e uno smagliante sorriso. Ognuno ha la propria frase di benvenuto da offrire; rappresentano la casta immediatamente superiore a quella degli indigenti. Dalla presenza di quest’ultimi, o meglio, dalla minaccia che costituiscono per le eleganti mise da sera, dipendono le fortune dei parcheggiatori.


Né ricette né certezza

Henrique Fontana ha lavorato come medico di base in un quartiere degradato della periferia di Porto Alegre per poi candidarsi a Brasilia nelle file del Pt. Lo incontriamo nel suo piccolo e affollato studio riograndense, strappandolo al quotidiano tour de force, incuriositi dai contrasti della sua storia personale e dalle capacità che gli sono attribuite.

“Qual è la relazione tra il passato impegno sociale e l’attuale scelta politica, considerando in particolare i rischi di alienazione dalle esigenze reali che questa può comportare?”

“E’ importante tenere presente che la paura che la scelta di partito possa implicare una burocratizzazione dell’attività è giustificata. Tuttavia la politica rappresenta una sfida ineludibile. Pur valorizzando il lavoro dei movimenti di base, penso che la complessità della lotta per il potere esiga una sintesi. Si tratta di distillare lo strumento adatto per veicolare le istanze dei movimenti, senza che questo diventi un mezzo per addomesticarli. Noi del Pt non abbiamo ricette né certezza di successo, ma alcune convinzioni di fondo. In primo luogo bisogna riconoscere come strategica l’indipendenza di ciascun gruppo. Un partito non può sostituirsi ai movimenti, ma può rappresentare una punta di lancia per le loro aspirazioni. Può difenderne gli spazi e le lotte: in particolare, e a prescindere da ciò che sostengono i nostri avversari, il movimento Sem Terra è totalmente indipendente dal Pt.
La mia esperienza come medico risale a 6 anni fa e si è svolta in un quartiere della periferia chiamato “il Vallone”. Assistevamo una popolazione di 8.000 persone con una équipe di 7 medici, coadiuvati da infermiere e assistenti sociali. L’Unità di salute era profondamente integrata nella comunità, che mostrava una significativa componente negra. Entravamo nelle case, partecipavamo alla vita sociale, condividevamo il quotidiano della gente. L’edilizia popolare conviveva con la favela: operai, classi medio-basse, immigrati recenti. La mortalità infantile e la dissenteria erano elevati, senza raggiungere gli indici riscontrabili in altre aree del Brasile. Ci rendemmo presto conto che per realizzare il risanamento bisognava elevare il livello di coscienza. Era frequente l’idea che per curare la poliomielite, piuttosto che l’antibiotico, fosse necessario benedire i bambini. Sviluppammo un lavoro integrato con le chiese, evitando di criticarne le pratiche, e ottenendo che dopo la benedizione ci inviassero i malati. Il quartiere evidenziava molti problemi di droga, e noi avevamo un’alta incidenza di pazienti sieropositivi. Avviammo una campagna di prevenzione sull’AIDS, che fu realizzata con le chiese, le sette locali e i leader delle comunità. I prospetti illustrativi furono distribuiti all’interno dei centri sociali e religiosi.
Oggi mi rendo conto che il mio lavoro come deputato non mi consente di mantenere la relazione di allora con i problemi sociali. C’è un limite fisico, ma cerco il maggior contatto possibile con la gente e di tenere sempre presenti i motivi per i quali ho affrontato la scelta politica. La società necessita di militanti di base, quanto di persone impegnate nella rappresentanza. Il Pt possiede molti leader che si formarono nelle lotte sociali, nel sindacato, nelle comunità e nei movimenti ecclesiali. La sua è la particolare storia di un partito orientato ai movimenti di base.

“Puoi raccontarci come avvenne il tuo passaggio alla politica?”.

Ognuno segue un cammino specifico, ma la causa principale fu la presa di coscienza che l’origine della sofferenza stava al di là delle nostre possibilità d’intervento. Cominciai a chiedermi in quale luogo e da quale posizione potessi lottare per cambiare. Sapevo che era la politica l’ambito dove si decidevano le cose, e giunsi alla conclusione che lì dovevo dirigermi. Ogni persona è un essere politico, che fa politica nel quotidiano, tuttavia alcuni devono prendere le decisioni generali e dedicarsi alla casa pubblica. Risolsi di divenire uno di coloro che prendono queste decisioni.


“Non è facile...”

“Qual è ora il tuo rapporto con i movimenti di base?”

Non è profondo come vorrei: la vita nel Congresso è totalmente virtuale. Le persone che incontrano i deputati fanno parte di delegazioni, rappresentano degli interessi, e in questo senso sono già una gerarchia. A Brasilia si vive lontani dalla base sociale: una vita mediatica, fatta di statistiche, dibattiti e interviste. Il rapporto con i media, in particolare radio e televisione, impedisce di vedere le reazioni degli interlocutori, ma consente di raggiungere migliaia di persone. Il nostro messaggio può incidere sulla coscienza della gente e indurla a lottare per il cambiamento. Quando rientro a Porto Alegre cerco di garantire degli spazi di ascolto a chi vuole comunicare con me. Ho organizzato la mia vita in modo da restare a Brasilia tre giorni alla settimana, e passare gli altri qui. Questo week end andrò a visitare un accampamento di Sem Terra, un ospedale, una fondazione per minori. E’ ciò che chiamo “l’Agenda della vita reale”. C’è molta gente che studia, che parla della povertà, ma penso sia importante vivere il contatto con la povertà. E’ necessario ascoltare e in ogni incontro cerco di invitare gli altri a parlare prima che lo faccia io. Ogni persona deve essere messa in condizione di esprimere ciò che ritiene importante.
Per un politico mantenere il contatto non è facile, ed è per questo che le critiche che la gente porta alla democrazia rappresentativa sono motivate e devono essere tenute presenti. Il parlamentare dovrebbe avere una forte coscienza sociale, ma nella realtà accade tutt’altro. Siamo convinti che debba svilupparsi un alto grado di democrazia partecipativa, e stiamo lavorando in questo senso. Pensai a questo ieri, quando seppi della morte di Nega Diaba, che fu prostituta e aveva alle spalle una storia di povertà e favela (3). I partiti di destra cercano di coinvolgere i leader dei quartieri degradati, per usare il loro ascendente in termini politici. Questi sono trasformati in deputati ed entrano in una macchina che gli toglie la possibilità di lottare. Le motivazioni sono schiacciate dalla logica di parte: ci si deve adeguare alla linea del partito. La democrazia diretta può correggere le distorsioni della politica.
La gente ha molte fantasie su ciò che un deputato può fare. Ci sono persone che ne hanno una visione magica: pensano che il politico possa risolvere tutto, dal lavoro al risanamento del quartiere. Noi possiamo sollevare i problemi in termini generali e fare in modo che vengano discussi, ma non garantire che le richieste locali vengano esaudite. La personalizzazione genera un fenomeno di clientelismo, attualmente molto diffuso in Brasile. La gente punta su un deputato per ottenere vantaggi e opere pubbliche per la propria comunità. Il politico, invece di affrontare i grandi problemi del paese, diviene colui che deve procacciare le risorse per un dato gruppo. Una concezione che stiamo combattendo.

“Un aspetto che colpisce nel contesto del Rio Grande è la relazione che il Pt è riuscito a mantenere con la gente. Tuttavia ciascuno individua all’interno del partito la propria corrente; esiste un orientamento moderato che manifesta disagio, quando non timore, per i metodi dei Sem Terra, e d’altro lato ci sono i marxisti-leninisti. Come è possibile conciliare punti di vista tanto lontani?”

Credo che le correnti siano salutari perché rappresentano delle volontà differenti. Costruire un partito di massa e giungere al potere per via istituzionale significa convincere il 50% più uno dei brasiliani. Comprendere un ampio ventaglio di posizioni e realizzare la giusta sintesi. Le correnti sono la forma organizzata di espressione dei gruppi all’interno del partito. Con un esempio concreto: la settimana passata il Pt ha lanciato il proprio programma economico, che è stato attaccato da destra e da sinistra. Noi stiamo dicendo a chiare lettere che non si può prendere in giro la gente sul tema del debito: la strategia della sospensione dei pagamenti non può più essere sostenuta. Fare ricorso a semplificazioni condurrebbe a perdere l’indispensabile appoggio dell’elettorato di centro e la chance di governare. Ciò non significa avvallare la politica e le condizioni accettate dall’attuale presidente Fernando Henrique Cardoso.
Da un altro punto di vista, se come deputato difendo il movimento Sem Terra, so che utilizza metodi che spaventano elettori che vorrei vicini al Pt. Ma esiste una dialettica politica: non possiamo forzare l’Mst a fare le scelte che ci appaiono giuste. La politica è complessa, la sfida è confrontarsi in presenza di opinioni contrarie. Le correnti hanno anche delle implicazioni negative, che si amplificano quando smettono di agire in armonia, di sentirsi parte di un ambito più ampio. Ci sono persone che spingono per dissolvere le correnti per fini personali. Si creano movimenti non fondati sulla identità di idee, ma sulla volontà di appoggiare determinate candidature. E’ un problema connaturato alla massificazione del partito.


Oggi, in Brasile

In Europa come in America latina, i partiti vanno al potere con un programma di sinistra, per poi sviluppare una politica di destra. L’esempio più recente mi pare l’Argentina: i radicali hanno sconfitto i peronisti, ma hanno finito per integrare Cavallo, dandogli poteri eccezionali. Per molti si è trattato di un tradimento, in quanto De La Rua era stato eletto per contrastare il corso che Cavallo aveva avviato. Pensi che l’esigenza di mantenere l’equilibrio in un ipotetico governo federale possa originare la svolta a destra del Pt?

La domanda è provocatoria, profonda e corretta; si tratta tuttavia di dinamiche che non dipendono dai singoli, quanto da un contesto di confusione politica. Quando due mesi fa andai a Buenos Aires a parlare con i compagni del Frepaso, espressi il mio disaccordo. Il Pt, che ha 21 anni di storia e si è costruito dalla base, ha avuto una evoluzione graduale; ha saputo evitare le scorciatoie. Ferdinando Cardoso, che aveva influenza sull’elettorato di centro, scelse invece di farsi veicolo della presa di potere della destra. Avrebbe potuto agire diversamente: il Partito Federal Liberale sarebbe stato sconfitto e da sei anni Lula sarebbe presidente del Brasile. Già allora potevamo contare su di un 30% dei voti. Oggi la maggioranza dell’elettorato vuole chiudere con il governo in carica: sono sicuro che l’opposizione vincerà le prossime elezioni. Non so tuttavia quali saranno gli equilibri nello schieramento di sinistra, quale il peso di Ciro Gomes o di Itamar Franco nel nuovo governo (4). Se Ciro fosse eletto e Lula divenisse suo vice, nel caso della presentazione di una proposta indecorosa in Senato, le cose andrebbero altrimenti. Lula si dimetterebbe come ha fatto Chacho Alvares, ma aprirebbe una vera crisi politica.
D’altro lato dobbiamo aver chiaro come il neoliberalismo sia riuscito ad avanzare e a divenire egemonico a livello mondiale. Come abbia vinto la lotta per la deregolamentazione dei mercati, la difesa dei paradisi fiscali e come il sistema che ne è nato costituisca una brutale aggressione ai diritti dei più poveri. Nel braccio di ferro tra potere politico e potere economico, i liberali sono riusciti a piegare il sistema alle proprie necessità. La supremazia dei loro interessi impedisce una vera autonomia ai governi, che non possono difendere le economie e il risparmio nazionali. Nel caso brasiliano, la faccia tosta di coloro che chiedono l’indipendenza del Banco centrale è evidente. Il Banco dovrebbe essere uno strumento per realizzare le strategie di chi è al governo. Strumento sottomesso alla volontà popolare: gli elettori scelgono il presidente, il quale ha mandato di decidere le politiche monetarie.
Abbiamo la convinzione che oggi in Brasile esistano le condizioni per realizzare un programma di sinistra. Certamente non potremo fare miracoli e risolvere il problema del debito in 4 anni, ma il Rio Grande rappresenta un prezioso laboratorio e un precedente, e le soluzioni che vi stiamo adottando ci saranno di grande aiuto. Un riferimento negativo è invece costituito dall’esperienza di Spirito Santo. Victor Boias, il governatore, è giunto alla conclusione che per risolvere i problemi regionali fosse necessario negoziare con il Governo federale e farsi carico dei relativi compromessi. Brasilia ha vincolato l’erogazione dei fondi per strade e infrastrutture all’approvazione di un programma statale di incentivazione alla dimissione volontaria dei lavoratori. Si tratta di un esempio di pressione da parte del governo centrale. Accettando, Boias ha perso in coerenza con le idee che lo avevano fatto eleggere (5). A nostra volta in Rio Grande stiamo vivendo una situazione di difficoltà con quanti contavano potessimo risolvere il problema dei salari universitari. Nonostante tutto, posso dire che nel cercare una soluzione non ci siamo resi disponibili a compromessi che ci facessero scostare dal nostro programma.
Molti pensano non esistano alternative a una democrazia asservita al potere economico e perdono la volontà di lotta. Due anni fa, quando l’attuale presidente vinse, chi è sceso in piazza a festeggiare? L’elezione di Lule sarà una grande festa. Abbiamo iniziato cercando di unire sindacato, movimenti cristiani, ambientalisti e parte della classe media. Oggi il Pt ha un gruppo di imprenditori che lo appoggia, e ciò non mi disturba affatto. Il partito è in condizione di andare al governo, ma farà delle mediazioni rispettando i programmi e le idee di base. Il Pt è una semente che sta germogliando; nei momenti difficili ripenso al primo anno di governo a Porto Alegre. Pareva che il mondo ci cadesse addosso e c’è stato un periodo in cui i compagni dovevano nascondere il distintivo. Era il 1989, il programma di riorganizzazione del trasporto pubblico andava male. Gli imprenditori scelsero la linea dura e giunsero a danneggiare gli autobus, mettendo sabbia nelle scatole del cambio. Il sistema andò in crisi, ma in breve riuscimmo a firmare l’accordo. Porto Alegre ora vanta una rete tra le più efficienti: puoi prendere un autobus con aria condizionata per 95 centesimi.


Confronto permanente

“Quest’anno si è festeggiato il ventennale dell’ascesa dei socialisti in Francia. Mitterand raggiunse il potere con la parola d’ordine “farla finita con il capitalismo”. Il primo giorno di governo un quantità enorme di capitali uscirono dal paese e in breve la coalizione dovette cambiare programma. Il problema che si pone riguarda l’ingerenza che i gruppi di pressione possono esercitare nel caso di vittoria della sinistra. Come pensa il Pt di affrontare il problema una volta al potere?”.

Questa è la domanda cruciale della sinistra contemporanea. La forza del capitale fu storicamente superiore a quella degli ideali sociali. Il neoliberalismo detiene un grande potere sui mezzi di comunicazione e una grande capacità di costruzione del consenso. In Brasile si dice che se dessero al Pt una ora in orario nobile sulla rete Globo, avremmo già vinto. La nostra analisi è centrata sulla supremazia della dimensione economica sulla politica, linea sulla quale abbiamo recentemente elaborato il nostro programma. Sappiamo che in virtù della liberalizzazione i capitali brasiliani potrebbero uscire dal paese in 24 ore. D’altro canto ci sono ancora compagni che con una visione semplificata difendono i vecchi slogan contro il capitalismo. Il primo passo sarà affrontare il terrorismo ideologico scatenato contro di noi nella campagna elettorale, in pratica già iniziata. Il Brasile sta attraversando una nuova fase di fragilità monetaria, il real soffre un forte attacco speculativo e il Banco Centrale sta spendendo oltre i limiti per difenderlo. Il contesto provoca la caduta della credibilità del governo e, come ci aspettavamo, la responsabilità viene addossata a noi. A noi che abbiamo lanciato la commissione sulla corruzione.
Ma cosa faremo una volta al governo? Partiremo dalle priorità, come il salario minimo, che aumenteremo immediatamente. C’è un grande strepitìo nel paese: conservatori e imprenditori della destra parlano di nostra irresponsabilità. Sostengono che le misure sociali abbasserebbero la competitività e causerebbero la perdita di 2.000.000 di posti di lavoro. Sono tutte bugie. Si tratta di introdurre cambiamenti sostenibili: elevare il salario minimo da 180 a 500 real sarebbe irrealistico, da 180 a 230 irrinunciabile. Cercheremo di consolidare la relazione con la base popolare, facendo percepire la nostra volontà d’intervento. I capitali possono fuggire, ma la grande impresa ha molti interessi in Brasile e deve salvaguardare i propri investimenti.
In Rio Grande dovemmo affrontare una controversia con due giganti dell’automobile: la GM e la Ford. Si trattava di discutere contratti concordati dal governo precedente. Dovemmo subire un bombardamento mediatico pazzesco: a causa nostra lo stato avrebbe perso la sua più grande opportunità di sviluppo. Avevamo molti dubbi e si creò una tensione limite. Ci rendevamo conto dell’importanza della questione, ma non potevamo firmare alle condizioni che la Ford stava proponendo. A causa di quella scelta perdemmo dei voti, ma oggi mi sento felice d’averla compiuta. Due anni fa l’opposizione sosteneva che se avessimo di nuovo vinto, sarebbe stato il caos e le imprese se ne sarebbero andate. Oggi il Rio Grande è lo stato con indice di crescita più alto del Brasile. La nostra è divenuta una politica di confronto permanente, calcolato e progressivo. L’ampiezza delle scelte dipende dalla risposta della base d’appoggio e dalla sua coscienza di lotta: è evidente che se dovessimo provocare una fuga di capitale, l’elettorato ci liquiderebbe. Vogliamo cambiare la linea economica del paese, ma intendiamo farlo con responsabilità. La politica per sua natura è una guerra e ci dobbiamo aspettare nuovi attacchi e menzogne. Come sempre la destra cercherà di creare un clima di paura.


Massimo Annibale Rossi

Dopo il Forum Social Mundial

1. Il prodotto interno lordo nel 2000 è cresciuto del 4,6 %, la media degli ultimi 4 anni si assesta sul 3, 4%, dato tanto più sorprendente considerando il saldo negativo del 1998, anno in cui si fecero sentire in Brasile gli effetti della crisi asiatica.
2. Verana Glass, Lula: cosa pensa il grande vittorioso del momento, Caros amigos, San Paolo, anno IV, N. 44, novembre 2000. I sondaggi Ibope/CNI di giugno assegnano a Lula il 28% dei consensi; Ciro Gomes, il secondo classificato, si attesta su un 13%.
3. Nega Diaba Fu consigliere nella municipalità di Porto Alegre e fu eletta nelle liste del Partido Trabalhista Brasilero.
4. Ciro Gomez è l’attuale leader del Partito Popolare Socialista, mentre Itamar Franco guida il Partito del Movimento Democratico Brasiliano, entrambi possibili alleati del Pt in un prossimo governo di sinistra.
5. Victor Boias fu eletto nelle liste del Pt, per poi passare al Partito Socialista Brasiliano.


Echi di una logora rivoluzione

Campesinos, minatori, popoli indigeni. In viaggio attraverso la Bolivia. Con il registratore.

Il 1952 fu un anno epocale per il popolo boliviano. Contadini, minatori e operai marciarono per sconfiggere il colpo di stato militare che aveva abbattuto il legittimo governo di Victor Paz Estenssoro. La nazione più povera del Sud America approvava una serie di leggi destinate a mutare definitivamente gli equilibri sociali ed elevare le miserrime condizioni dei lavoratori: riforma agraria, nazionalizzazione delle miniere, aumenti salariali generalizzati... La Bolivia da stato arretrato ed economicamente condannato dalla mancanza di sbocchi al mare diveniva l’avanguardia di una rivoluzione sociale che, si sperava, presto avrebbe contagiato l’esausta Latino America.
I laceri contadini del nuovo millennio, i minatori erosi dalla silicosi alzano oggi gli occhi impotenti anelando riscossa. Nelle miniere di Potosì negli ultimi 10 mesi si sono verificati 19 incidenti mortali; il 65% degli schiavi del piccone è condannato alla lenta agonia polmonare. I minatori sono divisi tra salariati aderenti al sindacato e soci delle cooperative. I contadini tra indigenas dell’oriente amazzonico, cocaleros e campesinos dell’altipiano. Quechua, tupi-guaranì, aymara e chiquitano, i maggiori gruppi, parlano lingue ed hanno caratteri culturali diversi. Nel paese ci sono 40 gruppi etnici. La Bolivia è passata attraverso la lenta erosione dei diritti acquisiti nell’insurrezione, venti anni di feroce dittatura, fallimentari governi popolari e l’attuale, disperante, liberalizzazione dei mercati.
Lo scorso 27 agosto si spegneva a La Paz Juan Lechín Oquendo, colui che nel 1953 come Ministro delle miniere firmò lo storico decreto. Su di lui afferma Josè Morales Guillén, suo braccio destro in quegli anni e dirigente del Movimento Nazionale Rivoluzionario (Ricardo Zelaya, La doble vida de Lechín, in El juguete rabioso, La Paz, A II, N. 40, 9 settembre 2001, pp. 10 - 11.): “Victor Paz non era partigiano né della privatizzazione, né della Riforma agraria... Tuttavia si impose il movimento operaio e non si può dire che furono il Mnr, Lechín o Paz a sostenere le rivendicazioni, ma la base”. E a proposito della inspiegabile rinuncia alla presidenza di Lechín del 1963: “Paz teneva Lechín alla corda come un bue dal 1953... Risulta che la sua fidanzata, Coca Wisse, fu sorpresa a Cochabamba con un chilo di cocaina e 80 milioni di bolivar”.
Drammi lontani e lotte presenti. La maggioranza della popolazione è indigena, ma i recenti tentativi di convogliarne le istanze in un movimento politico hanno sortito deboli risultati. I contadini dell’altipiano prediligono l’appellativo “campesino”, prendendo le distanze dalle comunità della selva, a loro volta partigiane nell’identità conflittuale del singolo popolo. Operai e minatori stentano a ritrovare il passato afflato, centrando l’azione su rivendicazioni immediate e fondamentali. Se da un lato gli appelli all’unità si fanno frequenti, le difficoltà a sentirsi parte di un movimento composito sono evidenti. Come evidente in molti settori appare lo scoramento dovuto al progressivo peggioramento delle condizioni di vita e al calo della traenza delle lotte sindacali. In molti si fa strada l’idea che rivendicare leggi sociali in Bolivia possa rivelarsi inutile, dato che il loro contenuto può essere stravolto dai decreti attuativi, dalle procedure burocratiche, dalle tattiche e dai compromessi governati.

Trappole e inquinamenti

È quanto emerge dalle parole di Carlos Romero, presidente del Centro studi giuridico sociali di Santa Cruz. È questa una associazione fondata nel 1978 a difesa dei diritti delle comunità indigene, ora particolarmente impegnata sul versante del riconoscimento dei titoli di proprietà. “Il problema fondamentale è tradurre i diritti formali in diritti reali. Il processo di riforma agraria iniziato nel ’53 non ha provocato una significativa distribuzione della terra. Una dinamica che rischia di riproporsi con la Legge agraria del 1996, nata da una storica marcia indigena, e che avrebbe dovuto sanare i problemi atavici e realizzare l’atteso Catasto nazionale. Nel caso delle comunità, si tratta di dimostrare di vivere su terre di diritto ancestrale, ottenendone la proprietà collettiva”. Certificato di fondamentale importanza per combattere le incursioni delle imprese, nazionali e straniere, impegnate nella corsa all’oro nella nuova frontiera a est: legni pregiati, miniere, gas e petrolio. Singoli e gruppi che, muniti o meno di concessioni governative, accelerano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse. Negli ultimi tempi anche nell’Amazzonia boliviana si sono fatte frequenti le aree morte. Rettangoli di terra brulla al centro della foresta i cui tronchi, tagliati e lavorati, riposano negli eleganti parquet del Primo mondo.
Nonostante la legge stabilisca la priorità del diritto agrario su quello forestale, gli istituti responsabili rifiutano di sospendere le concessioni, alimentando il conflitto. Conflitto che con sempre maggiore frequenza provoca sollevazioni: blocchi delle strade e dei lavori, occupazione degli impianti, incidenti con operai e militari. La situazione è complicata dalla lentezza delle procedure per ottenere il “saneamiento”. “Il problema” continua Romero, “non è la legge, in sé buona, quanto la normativa. Il pericolo è che, come in passato, le finalità vengano stravolte dalle difficoltà e dalla volontà di sabotare da parte di settori politici ed economici contrari”.
“Spesso nel lavoro giuridico ci troviamo di fronte a trappole e tentativi di inquinare le prove. Le imprese possiedono denaro e in Bolivia c’è molta corruzione: funzionari che falsificano le domande, illeciti di ogni genere”. Un altro problema rilevante è costituito dalla tassazione, prevista per legge sulla proprietà della terra. Molte delle comunità della selva vivono ancora un’economia di autoconsumo, e in generale le condizioni di vita sono tali da rendere impossibile il pagamento delle tasse: situazione che in alcuni casi conduce gli indigeni ad accettare retribuzioni in denaro e ad abbandonare la lotta, favorendo dinamiche di dispersione, alcoolismo, perdita dell’identità e dei diritti ancestrali.
Un caso che è considerato un esempio è rappresentato dalle comunità di Monteverde, che occupano una vasta area a trecentocinquanta chilometri nord-est di Santa Cruz. L’équipe di Romero dovette combattere un’ardua battaglia legale e si trovò di fronte a documenti falsificati e numerosi insediamenti illegali. D’altra parte, sul campo, si assistette al conflitto tra comunità e imprese coalizzate con i proprietari locali. Il versante patronale organizzò una milizia armata: la “Unión de la Juventud Cruzerista”. Bruciarono case e coltivazioni, ma la gente non si perse d’animo né optò per la via armata. Determinante per dirimere il conflitto, fu la mediazione della diocesi locale, che in breve ottenne la cessazione delle ostilità.

Una confederazione per gli indigeni

La Confederazione dei popoli indigeni di Bolivia fu fondata a Santa Cruz nel 1983. Oggi raggruppa 33 popoli originari sparsi sull’intero territorio nazionale per un totale di circa un milione di persone. “Le questioni fondamentali riguardavano la terra, la unità del movimento, salute, educazione, sviluppo economico”, sostiene Nicolas Montero, presidente del Cidob. “Questioni che a oggi si mantengono centrali, e alle quali si è aggiunta la problematica della gestione delle risorse naturali”. La coscienza che i diritti comunitari siano minacciati dalla famelicità delle multinazionali è generale. La prima grande marcia avvenne nel 1990 per il riconoscimento della questione indigena. Preso atto degli scarsi risultati della Riforma agraria, le comunità insorgevano nuovamente nel 1996, ottenendo l’approvazione della “Legge Inra”. Ma le difficoltà burocratiche ponevano il processo in una situazione di stallo e causavano l’acutizzazione del conflitto. “Il riconoscimento legale della terra” continua Montero, “è il tema centrale e di maggior attrito. Ci sono imprenditori che ricevono la concessione senza nemmeno averne presentato domanda e invadono i nostri territori. Altri compaiono d’improvviso e tagliano illegalmente, appropriandosi del legname. Centriamo la nostra azione sui processi di sanatoria, alcuni dei quali si sono già conclusi. Stiamo inoltre appoggiando l’approvazione di una legge sulla gestione sostenibile delle risorse, che coinvolga direttamente le comunità. Noi chiediamo il rispetto delle leggi, ma nel caso questo non avvenga, non ci rimane che bloccare le strade e impedire l’ingresso ai camion”.
“La marcia del ’90 ha avuto il merito di sollevare la questione indigena a livello nazionale e ha permesso la revisione della Costituzione dello Stato. Nel ’96 si è giunti a rimettere in moto la Riforma agraria, a ottenere leggi sulla partecipazione popolare e sulla riforma educativa. Quest’ultima prevede l’insegnamento scolastico bilingue; tuttavia, dato che non siamo riusciti a uniformare la lingua scritta, per ora il versante indigeno rimane orale. Le nostre iniziative non sono armate, quindi la polizia non può sparare: sanno che qualsiasi atto di aggressione causerebbe problemi maggiori. Altro discorso riguarda le imprese e i proprietari: ci sono stati casi di sequestro. L’anno scorso fu rapito un dirigente chiquitano: noi ci pronunciammo dichiarando che se non lo avessero liberato, si sarebbero trovati di fronte a una sollevazione generale. Lo picchiarono, ma ce lo restituirono vivo. Ora è in corso una mobilitazione a Trinidad e sono già arrivati i rappresentanti del governo per negoziare. I nostri metodi sono molto diversi da quelli dei campesinos: noi non distruggiamo, facciamo resistenza passiva, chiedendo la mediazione nel conflitto”.
Il riferimento ai campesinos richiama il problema dell’antagonismo tra popoli della serra e popoli dell’altipiano. Entrambi sottolineano come, al di là dei fattori culturali e ambientali, siano mossi da rivendicazioni differenti. Prima tra tutte quella dell’identità. I campesinos si definiscono come lavoratori e sono riuniti in un sindacato, la Confederación sindical unica de los trabajadores campesinos de Bolivia. Si tratta di una sigla storica nata nel 1935 e protagonista delle lotte del secolo passato, definita “operaista” dai militanti del Cidob. Il mondo industriale, la classe operaia sembrano appartenere a un’altra dimensione: “In Bolivia esistono tre confederazioni nazionali” sottolinea Montero, “la nostra, il Sindacato unico e quella più piccola dei coloni. Ognuno porta avanti le sue istanze, ma deve essere chiaro che nessuno può parlare a nome degli altri. Finché non giungeremo a un accordo, non sarà possibile l’unione”.
I tentativi realizzati nella decade passata di costituire un partito indigeno non hanno avuto esito. La Cidob, che al momento non possiede propri deputati, rimprovera ai leader sindacali l’alto livello di conflittualità interna e la scarsa disponibilità a farsi portavoce dei settori non politicizzati. In effetti l’unico rappresentante indigeno presente in parlamento è Evo Morales, storico dirigente del Sindacato dei cocaleros, il quale esprime esigenze e dinamiche specifiche. Felipe Quispe e Alejo Veliz, ai vertici della Confederazione unica, hanno a loro volta fondato movimenti distinti.

“La nuova legge è una frode”

Abbiamo incontrato Alejo Veliz nel suo piccolo studio di Cochabamba. Il clima che si respira nell’altipiano è teso, circospetto. La provincia nell’ultimo anno ha vissuto i blocchi stradali e gli scontri sanguinosi dell’insurrezione dei cocaleros contro il Plan dignidad, variante locale del Plan Colombia contro il narcotraffico, le sollevazioni campesine e la cosiddetta “Guerra dell’acqua”. Si è trattato di un ampio movimento, con attiva partecipazione sindacale, per contrastare il progetto di privatizzare e dare in appalto la gestione degli acquedotti a una società nordamericana. Mentre i primi hanno avuto risultati alterni, la Guerra dell’acqua si è risolta in una vittoria popolare ed è considerata una conquista a livello nazionale. Sul selciato il popolo di Cochabamba ha lasciato altri quattro morti.
Tra i contadini lo scontento è tangibile. “L’approvazione della legge Inra” sostiene Veliz, “non è ci è convenuta. Si tratta di un testo contraddittorio rispetto al precedente, che difendeva un principio fondamentale, bandiera di tutti i poveri del campo: ‘la terra è di chi la lavora personalmente’. La nuova legge, legge dell’oligarchia, sostiene invece che ‘la terra è di chi paga le imposte’. Nel ’96 l’allora presidente dichiarò che la sanatoria sarebbe stata gratuita. Tuttavia nella pratica le cose sono andate altrimenti. Le strutture dipartimentali dell’Istituto per la riforma agraria hanno contattato imprese, nazionali e straniere, che hanno fatto pagare le perizie fino a 200 dollari per pietra miliare. La spesa complessiva poteva superare gli 800 dollari, cifra assurda. La gente di Bolivia è povera; ogni famiglia ha una media di 7 figli e il prodotto pro capite non supera i 60 dollari annui. Per pagare avrebbero dovuto vendere tutto”.
“Nella pratica la nuova legge è una frode. Chiediamo che venga riformulata e che si torni al principio della Riforma agraria e alla gratuità della sanatoria. In Bolivia il campesino non gode di alcun beneficio: assistenza sociale, assicurazione contro incidenti e calamità naturali. Sta vivendo come mille anni fa, in condizioni di disperazione e sopravvivenza. Gli indigeni in questo paese sono 5 milioni su 8 totali; in cambio l’oligarchia non comprende più di 200 famiglie, che occupano la maggioranza della terra. Tre milioni di ettari permangono improduttivi: proprietà che chiediamo vengano distribuite al movimento campesino. Rivendichiamo l’annullamento delle imposte di rendita e l’approvazione di provvedimenti seri contro la corruzione. Se la situazione non cambia in tempi brevissimi, esploderanno i movimenti sociali, e sarà messo in discussione il sistema medesimo”.
Viaggiando per l’altipiano sembra di fare un passo indietro nel tempo. Le case non hanno servizi, il pavimento in terra, i tetti sono spesso in paglia. Attrezzi e aratri appaiono rudimentali e prevalgono la trazione animale e il lavoro manuale, cui le famiglie partecipano collettivamente. La rete stradale è sommaria e in molte zone il mezzo di trasporto più comune è il mulo. Nell’interno i presidi sanitari sono rari e malattie endemiche come la tubercolosi risultano in aumento. La mortalità infantile è ancora altissima e frequenti sono i casi di malati gravi che giungono agli ospedali in condizioni disperate o che esalano l’ultimo respiro durante il viaggio. “Il nostro strumento di lotta è la mobilitazione. Marce immense; migliaia e migliaia di contadini che potrebbero finalmente giungere alla capitale e prendere il Palazzo. Una seconda opzione è il blocco delle strade. Blocco che a livello nazionale potrebbe durare 40 giorni. Il popolo boliviano sta vivendo un fase molto diversa rispetto agli anni ‘70 e ’80: oggi l’esercito è nell’angolo. Il nuovo secolo ci offre la possibilità di realizzare cambi strutturali profondi. In questo paese devono volare delle teste”.
Nelle parole di Veliz il problema dell’attuale divisione politica del movimento appare acutizzarsi, quanto mostrare la propria conflittualità rispetto alla imminente panacea insurrezionale. I toni sono sprezzanti, i giudizi severi. La tesi è quella del complotto ai danni dell’unità indigena; irrisolto rimane il nodo del come giungere a una composizione. “In Bolivia già esistono le premesse per realizzare il partito indigeno, esiste l’Assemblea per la sovranità dei popoli “movimento di Veliz”. Tuttavia l’oligarchia è riuscita a dividerci: stavamo lavorando con Evo Morales. Ma Evo fu isolato, lo strapparono dal progetto e fondò il suo partito. Il Movimento al socialismo non è altro che una sigla comprata, che in breve è giunta ad appoggiare il Movimento sinistra rivoluzionaria, una delle formazioni più corrotte di Bolivia. Tra i dirigenti manca cultura politica, preparazione. Evo Morales dal punto di vista della formazione è un ignorante. Si fa maneggiare da quattro figuri pagati dallo stato. Ha venduto, ha permesso che l’esercito penetrasse e distruggesse 7.500 ettari di coca. In questo momento l’ingerenza del governo tra i leader è fortissima: Felipe Quispe e il suo partito sono a loro volta manovrati. Per vincere dobbiamo fare nostra la comune coscienza rivoluzionaria della quale parlava il Che, una coscienza che ci renda realmente impermeabili alla corruzione”.
“In ogni progetto serio i rappresentanti devono essere espressione del popolo che lotta. Ora i deputati sono rubapane, spreconi e bugiardi, ma noi miriamo alla costruzione di un nuovo potere. Un nostro rappresentante non deve perdere il rapporto con la base, e nel caso giungesse a corrompersi dovrebbe essere frustato, frustato con le spine. L’Asp intende riunire tutti i popoli in un’unica nazione. Recuperare il pensiero marxista e coniugarlo con la cosmovisione andino-amazzonica. Il marxismo è portatore della lotta di classe, la cosmovisione del tema dell’identità. Noi non consideriamo l’opera di Marx una Bibbia, ma ne applichiamo le teorie che si adattano alla nostra realtà. Ci sono stati rivoluzionari, come Lenin, che hanno pensato e agito in modo proprio. I nostri popoli posseggono un grande patrimonio culturale: vogliamo unire i poveri del campo con i poveri delle città. È importante chiarire come la nostra non sia, come per alcuni movimenti indigeni, una lotta di razza. Il problema non è la razza; il problema è la povertà”.
“Il movimento campesino” conclude Velis affrontando il tema del degrado ambientale, “è per sua natura ecologico. Amiamo la terra, benediciamo il sorgere del sole; c’è un profondo rispetto per la pacha mama. Sempre è stato così ed è una grande virtù. In alcuni luoghi, attraverso la propaganda, sono riusciti a introdurre prodotti chimici, prodotti rifiutati dai paesi sviluppati. Non sono però riusciti a convincere tutti e noi stiamo lottando per conservare il nostro patrimonio: abbiamo 60 varietà di mais e 200 di patata e i nostri contadini producono autonomamente le sementi. Nell’ultimo congresso della Confederazione abbiamo rifiutato l’utilizzo dei fertilizzanti chimici e intimato al governo di non fare entrare i prodotti transgenici nel paese. In Bolivia non abbiamo bisogno di alcun prodotto modificato”.


Massimo Annibale Rossi

Sulla sacra foglia di coca

intervista con Evo Morales di Massimo Annibale Rossi

Complici dei narcos o martiri?
Viaggio tra i cocaleros, schiacciati tra demagogia, repressione e povertà


Cochabamba, 22 settembre 2001. La città ospita il terzo incontro dell’Azione Globale dei Popoli, coordinamento nato per contrastare il processo di globalizzazione economica sostenuto dai paesi ricchi. Partecipano gruppi provenienti dai cinque continenti per un totale di circa 200 persone. Sono principalmente giovani, tra i quali emergono le delegazioni latinoamericane. Numerosi i rappresentanti indigeni, i cui costumi tradizionali fanno contrasto con il look postmoderno di quelli del nord Europa. Il compito è maturare una posizione comune e pianificare azioni efficaci per il movimento nato a Seattle. Si tratta di un nuovo internazionalismo, che intende sintetizzare la lotta di classe e la divisione internazionale del lavoro con il terzomondismo e la questione ecologica. Il convegno è organizzato dalla Confederazione del tropico, il sindacato dei coltivatori di coca protagonista degli scontri con l’esercito del giugno passato.
È il giorno conclusivo, e il programma prevede il trasferimento dei partecipanti a Chimoré, capitale dei cocaleros. La carovana, alla quale si è unita un’ampia rappresentanza della stampa, si muove al levar del sole per coprire i 160 chilometri che la separano dalla meta. Viaggiamo nella jeep di Evo Morales, condividendo le sue preoccupazioni per l’esito dell’iniziativa e per il trattamento che ci sarà riservato da parte dell’esercito. In Chapare sono stanziati 800 “umopae”, polizia d’élite, cui dal ’98 è affidata la funzione di garantire il compimento del Plan dignidad contro il narcotraffico. Agli effettivi sono affiancati 2.000 giovani di leva con funzioni d’appoggio nelle operazioni di sradicamento. La provincia è in stato di guerra. La popolazione non accetta l’occupazione e chiede si aprano nuove trattative. I tentativi intrapresi nella decade passata per introdurre coltivazioni alternative sono praticamente falliti. Paz Estenssoro, Paz Zamora e Sánchez de Lozada, i precedenti presidenti, avevano sostenuto la riduzione annuale di 5.000 ettari di piantagione offrendo compensi tra i 1.500 e i 2.000 dollari per ettaro. Cifre considerevoli, che tuttavia non riuscivano a risolvere il problema della sopravvivenza economica. Il sindacato afferma che banana, maracujá, palmito, ananas e peperoncino, prodotti considerati alternativi, in realtà non abbiano mercato e che le economie del nord non abbiano fatto nulla per crearlo.
La responsabilità della situazione è attribuita agli Stati Uniti, i quali stanno finanziando il piano con 200 milioni di dollari e partecipano alle azioni con propri consiglieri, tecnici e istruttori della DEA. La “Fuerza de Tareas Conjuntas” viene completata da alcune centinaia di funzionari, tra i quali operano molti agenti coperti. Banzer, ex dittatore eletto nelle file dell’Alleanza democratica nazionale e recentemente sostituito per motivi di salute, dichiarò di garantire le coltivazioni destinate al consumo tradizionale, ma d’essere determinato a eliminare le “eccedenze”. Si tratta di 38.000 dei 50.000 ettari che rappresentavano il sostentamento delle 40.000 famiglie cocaleras del Chapare. Fino alla fine di quest’anno, ai coltivatori disposti a collaborare si sarebbero corrisposte somme minime; a partire dal gennaio 2002, più nulla. La mobilitazione fu massiccia: blocchi stradali, marce e proteste. La repressione durissima: il sindacato a partire dal ’98 ha denunciato 49 morti, 2.500 feriti e 4.500 arresti. L’acme del conflitto si registrò nel settembre dello scorso anno, quando l’insurrezione riuscì ad arrestare temporaneamente la costruzione delle nuove caserme. Ci furono 15 morti e 30 feriti. Tra loro, Isaac Mejía Arce, un ragazzo di 19 anni deceduto in seguito alle torture subìte durante la detenzione.
La reazione campesina fu a sua volta violenta. Nel 1995 erano stati fondati nuclei di “polizia sindacale”, con compiti di vigilanza interna e lotta ai sradicamenti. Negli scontri in settembre fecero comparsa gruppi armati, che organizzarono imboscate, disseminarono mine di fabbricazione artigianale e catturarono ostaggi tra i militari. Tra questi fece clamore il caso del sergente Andrade, che con la moglie fu ritrovato senza vita, con segni di tortura sul corpo. Nei rapporti militari gli stessi sindacati sono definiti “bande di narcoterroristi”. Si segnalarono attacchi contro installazioni e elicotteri in dotazione alla Fuerza de Tareas. Per l’esercito si tratta di gruppi armati connessi ai narcos. Per i cocaleros, di nuclei autonomi in un quadro che produce azioni di autodifesa contro ciò che definiscono “genocidio”. La politica Coca zero celerebbe un piano per sradicare i campesinos dal Chapare a vantaggio delle multinazionali.

Le mani callose

La strada che unisce Cochabamba a Santa Cruz è ancora in costruzione: grandi insegne ne pubblicizzano il finanziamento del governo USA. La carovana deve arrestarsi più volte ai posti di blocco e a causa degli ingorghi dovuti ai lavori. La sosta più lunga è all’ingresso della provincia: tutti vengono fatti scendere e sottoposti a un minuzioso controllo dei documenti. Le nostre facce sono riprese da una telecamera e giovani militari appuntano i nostri dati nei loro taccuini. Evo si occupa del suo gregge: interviene, parlamenta, tranquillizza. É il punto di riferimento dei delegati, quanto della maggioranza delle persone che incontriamo. Tutti lo conoscono, tutti lo salutano e molti pretendono di raccontargli i propri problemi dal finestrino della jeep. Tuttavia oggi l’atmosfera è di festa: la gente sa che per la prima volta nel villaggio di Chimoré si svolgerà un incontro internazionale. Ci aspettano circa 7.000 persone. Sono i coltivatori dei campi di coca: complici dei narcos per gli uni, martiri per gli altri. Visi scavati dal lavoro e dal sole; famiglie intere con il costume migliore e le loro bandiere colorate. Molti di loro emigrarono venti o trenta anni fa dalle zone più povere dell’altopiano. Sono ex minatori, pastori che, come Evo Morales, incontrarono una speranza nel fertile Chapare. Tutti vogliono salutare i delegati e i “compagni giornalisti”. Un uomo mi mostra le mani callose: “sono frutto di cinquanta anni di campagna”.
Si apre un passaggio nella calca e ci mettono al collo collane di foglia di coca. I membri della carovana sono nominati “ospiti illustri” della municipalità. Iniziano gli interventi; i cocaleros applaudono calorosamente sotto il sole implacabile. Il tema di fondo è l’unità delle vittime del sistema neoliberale e la necessità di elaborare strategie di lotta comuni. Da parte di molti oratori si evidenziano gli effetti dello sfruttamento indiscriminato delle risorse verso l’ambiente e si sottolinea la comune matrice ecologica dei popoli originari. Si applaude alla “sacra foglia di coca” e al suo significato nella cosmogonia andina, quanto alla fine dell’occupazione militare e alla partenza degli yankee. Il linguaggio, gli slogan, il rapporto con la folla ricordano le adunate comuniste di prima della caduta del muro di Berlino. Un sindacalista, dopo aver mandato “alla merda” yankee, politici e ambasciatori, annuncia la sconfitta del neoliberismo per il 2002. Il programma si conclude con il leader cocalero, che invita il popolo a partecipare a una nuova marcia contro l’occupazione e la guerra minacciata dagli Usa in Medio Oriente.
Evo Morales, nato da padre quechua e madre aymara, è l’unico deputato indigeno. É fondatore del Movimento al socialismo, formazione che mira a unire la sinistra per sconfiggere il governo nelle elezioni del prossimo anno. Mentre il paese è scosso dalla sollevazioni campesine e dalla Guerra del Chapare, il parlamento dibatte l’incriminazione del dirigente cocalero per complicità negli avvenimenti dell’anno passato. Il Mas ha recentemente presentato una proposta di pacificazione che prevede la demilitarizzazione e la legalizzazione di un cato di coca, 1,6 ettari, per famiglia. Si tratterebbe di un periodo transitorio, necessario per ricostituire le basi economiche e rilanciare lo sviluppo alternativo. Facendo un passo indietro nel tempo, “Come è nata” gli chiediamo, “la Confederazione del tropico?”.
“All’epoca della Guerra del Chaco, 1934 - 35, il Chapare era zona di confino e i prigionieri paraguaiani aprirono le prime strade. La grande immigrazione si produsse negli anni ’70 e ’80, quando giunsero i contadini dell’altopiano. La mia famiglia viveva nei pressi di Oruro, in un’area che non ha mai visto l’intervento dello stato. In una notte una gelata si portò via tutto il raccolto. Mia madre piangeva e mio padre beveva al tavolo. Lo ascoltai dire: “qui, per quanto possiamo lavorare, non faremo passi avanti”. Così partimmo per cercar terra nell’oriente boliviano. Gli ultimi ad arrivare furono i minatori licenziati nelle ristrutturazioni dei primi anni ’80, i quali portarono la propria esperienza sindacale e cultura. L’ingiustizia ci ha uniti. All’epoca della dittatura di García Mesa [1980-81], bruciarono vivo nel suo campo un compagno di Chipiriri. Era un ragazzo di 18 anni. Anch’io all’epoca ero molto giovane e nella sede del sindacato ascoltavo i commenti sulle violenze e le azioni dei militari. Organizzammo un centro giovanile e un coordinamento, e con il tempo, ci rendemmo conto dell’importanza del livello politico. Noi votavamo per un partito, e quando questo giungeva al potere, ci castigava. Decidemmo di fondare un nostro movimento. Ora c’è coscienza ideologica, identità e capacità di organizzazione, cosa che il governo vede come pericoloso e vorrebbe fare sparire. Nel tropico abbiamo conquistato sei su sette municipi. Ciò che iniziò in Chapare potrebbe riprodursi a Cochabamba, come in tutta la Bolivia. Persino alcuni colonnelli, che non sono d’accordo con quanto sta avvenendo, chiedono di unirsi a noi. Nel pomeriggio avrò un incontro con un gruppo deluso da Juan Sin Miedo, il sindaco di La Paz, che ora vuole privatizzare anche il cimitero”.
“Qual è la situazione attuale, con particolare riguardo al Plan dignidad?”.
“Per noi il Plan Dignidad, come il Plan Colombia e il Plan Puebla di Panama è un’iniziativa di guerra, orientata allo sterminio dei popoli indigeni. Con l’avanzare del processo, ci si rende conto del fallimento e si evidenziano fratture nello stesso governo; ma noi, oltre alla repressione, dobbiamo sopportare il terrorismo giuridico. Polizia, forze armate e alcuni imprenditori mi stanno muovendo accuse che possono comportare fino a trenta anni di carcere: organizzazione sovversiva, assassinio e sequestro. E non solo a Evo Morales: dei sei dirigenti del Chapare, quattro sono sotto processo. Ti faccio un esempio paradossale: l’anno passato una nostra compagna era a Praga durante il blocco delle strade, però fu imputata ugualmente...”.
“Nell’ultimo anno si pubblicarono notizie sulla presenza di milizie armate in Chapare, su assalti e sequestri. Che sta succedendo?”.
“C’è della verità in tutto questo. Ogni anno sono morti più campesinos che militari; nel 2000 la relazione si è ribaltata. É un parametro per comprendere ciò che sta avvenendo: di fronte all’ingiustizia, mi rendo conto che il popolo ha diritto alla ribellione. Non ci sono guerriglieri in Chapare, ma gruppi di autodifesa. Ignorando le istruzioni dei dirigenti e le decisioni collettive, alcuni prendono l’iniziativa. D’alto canto la repressione si è fatta insostenibile. Le denunce di violazioni dei diritti umani sono quotidiane. Durante le operazioni si saccheggia, si bruciano case, si occupano edifici pubblici. Ieri mi hanno informato che stanno processando cinque professori di San Salvador e Guadalupe per insurrezione armata. In realtà difendevano il diritto all’educazione: quando arrivano i militari requisiscono il posto sanitario e la scuola per farne alloggi per gli ufficiali”.
“In questa fase il sindacato come sta organizzando la lotta?”.
“Blocchi stradali, concentramenti, forme di resistenza passiva. Cerchiamo di rendere pubblico quanto sta avvenendo e invitiamo la stampa a essere presente”.

Coca zero?

“Perché siete giunti alla rottura con il governo e sono falliti i precedenti piani orientati a introdurre gradualmente le coltivazioni alternative?”.
“Parlare di ‘Coca zero’ significa parlare di apocalisse andina. Fintanto ci saranno quechua e aymara, non ci sarà Coca zero, perché la coca è una parte essenziale della nostra cultura. I campesinos dicono: ‘stanno tagliando la pianta di coca, però non stanno tagliando le nostre mani’. La legge parlava di ‘giusto compenso’ e d’indennizzo, ma questo i governi non lo hanno mantenuto: diedero i compensi senza indenni per le comunità. Lo sviluppo non giunse mai ed essere alternativo. ‘Alternativo’ significa sostituire alla coca prodotti che le siano equivalenti o superiori sul piano del mercato, ma ciò non può avvenire per questioni di politica macroeconomica. La libera importazione sta rovinando la nostra economia. Il governo incentivava la coltivazione di riso, tuttavia il prezzo del riso brasiliano era più basso: di fatto, era più conveniente coltivare coca. Vogliono sradicare, sradicare... Non si tratta di lotta al narcotraffico ma di interessi geopolitici. Gli Usa pretendono di imporre il loro sistema agli altri paesi: si lancia il Plan Colombia per combattere il terrorismo, e dietro ci sono le multinazionali. Per il Chapare passerà la via trans oceanica; ci sono giacimenti di gas e petrolio. Hanno paura che le sollevazioni indigene possano pregiudicare i loro interessi. Vogliono ridurre il territorio nelle mani di otto imprese e ora offrono compensi di 2.000, 2.500 dollari per ettaro, ma perché i campesino lascino i loro campi. Non vogliamo quei soldi”.
“Si divulgò la notizia che alcuni cocaleros abbiano sottoscritto gli accordi e in seguito siano tornati a piantare coca...”.
“La legge parlava di giusto compenso e di sviluppo alternativo. Hanno compensato, ma non c’è stato sviluppo. I soldi sono sfumati e i coltivatori dovettero domandarsi: ‘e ora, che facciamo?’ I piani si tradussero in impoverimento, indebitamento e hanno favorito la disgregazione delle famiglie. Le donne non volevano sradicare, però s’impose il marito firmando gli accordi e accettando il denaro. Poi, dato che non c’erano più soldi, ripresero i vecchi costumi e i funzionari conclusero: ‘ricevono denaro con una mano e con l’altra piantano coca”.
“Gli arresti per detenzione di pasta base tra i cocaleros sono in aumento; non si aggrava il rischio che il movimento si leghino ai narcotrafficanti?”.
“Questa è l’altra accusa constante; si dice che il 90 % della coca del Chapare vada a loro, ma è una menzogna...”. “Il ‘Juguete rabioso’ pubblicò lo scorso giugno una sua dichiarazione nella quale si confermava questa tesi...” (1). “Non ho mai detto questo. Quando la coca matura, un 60% va al mercato legale e un 40 può andare a quello illegale. Questo non significa che ci sia una relazione diretta con il narcotraffico. Non si può santificare tutto il movimento ed è difficile valutare le proporzioni del fenomeno. Ci sono sindacati che hanno introdotto multe per i trasgressori. Si potrebbero controllare i flussi illegali tramite le confederazioni, ma le autorità si oppongono. Fui testimone del fatto che un sindacato cercò di ostacolare l’ingresso dei precursori [agenti chimici per la fabbricazione della pasta base], ponendo blocchi alle strade d’accesso, ma quelli dell’umopare li facevano regolarmente saltare. In realtà è il governo che alimenta il narcotraffico tramite la polizia”.
“Esiste la coscienza da parte dei campesinos delle conseguenze dell’attuale produzione massiccia di cocaina?”.
“Dev’essere chiaro che non abbiamo mai difeso il narcotraffico; abbiamo accettato il principio della riduzione perché si giunga a produrre per il solo mercato legale. Il problema del traffico internazionale è d’altro lato legato ai consumatori. É necessario che Europa e Usa combattano il consumo. Quechua e aymara sono totalmente estranei alla cultura della cocaina”.

Il ruolo della grande impresa

“Qual è la proposta della Confederazione per giungere a una reale pacificazione nel Chapare?”.
“Se il governo vuole farla finita con la violenza e affrontare la povertà, deve riconoscere una piccola estensione di coca per famiglia, coca destinata al consumo legale. In secondo luogo, è necessario industrializzare i prodotti regionali. Si tratta di frutta tropicale, che potrebbe venire lavorata e quindi commercializzata all’estero. Fortunatamente l’80 % dei nostri contadini possiede i titoli di proprietà. Il problema è come riscattare nuova terra, all’interno della legge Inra. La legge è stata concepita sul solco di un modello economico che permette di concentrare molta terra in poche mani, in modo che molte mani rimangano senza terra. L’attuale politica d’incentivo agli imprenditori è una forma ulteriore per alimentare il narcotraffico: le grandi imprese tolgono mercato ai piccoli produttori, che tornano alla coca”.
“Si parla molto delle divisioni all’interno del movimento campesino: qual è la relazione con Alejo Veliz, Felipe Quispe del sindacato e con le associazioni indigene dell’Oriente boliviano?”.
“I settori più combattivi sono a Cochabamba e a La Paz. Quelli dell’oriente non hanno mai avuto molto seguito nell’azione, tranne che nel ’92, quando riuscirono a organizzare una gran marcia, però finanziata dalle ong. Chi ha ascendente a Cochabamba è Moisés Torres. Alejo non ha alcun seguito e deplorabilmente è diventato superbo, ha litigato con me e ora anche con Felipe Quispe. Il quale ha la sua base in tre province di La Paz e si crede un dirigente nazionale, ma rappresenta solo gli aymara. Alejo invece si abituò a chiedere soldi e ora, che ha rotto con il governo, sta spillando denaro al Mnr, il partito che dovremmo combattere. Lamento molto che la corruzione abbia contagiato i dirigenti campesino, e soprattutto la Centrale operaia, di questi tempi già tanto in crisi. Ci sono leader corruttibili e leader incorruttibili. Quando il governo non vuole mantenere le promesse, comincia a comprare i dirigenti. Attualmente nelle miniere quasi non ci sono operai e il sindacato non ha base. Gli unici che rispondono sono i contadini, e qui si comprende il nostro avvicinamento a Felipe Quispe. Verrà un momento in cui tutti i settori si uniranno nella lotta comune”.
“Si prepara una nuova sollevazione generale?”.
“Si, siamo in questo ordine di idee. E non solamente come aymara, quechua o movimento campesino, ma come piccoli proprietari, minatori, trasportatori... Ci stiamo consultando e definendo un progetto. Abbiamo intenzione di creare un vertice sociale che si opponga a quello dei politici, delle forze armate e della chiesa. L’attività di quest’ultima in Bolivia è molto discussa; i gerarchi cattolici salvarono l’Mnr, che è uno dei partiti che stanno distruggendo il paese. Dobbiamo creare un nuovo modello economico e un nuovo sistema di governo.
Cochabamba, settembre 2001

Massimo Annibale Rossi


1. Wilson García Mérida, Chapare: una guerra en curso, in “El juguete rabioso”, A. II, N. 34, La Paz, 10 giugno 2000, pp. 8-9.

Lonely Planet horror tour

Per i turisti sono una meta da pochi dollari.
Ma per chi ci lavora le miniere di Potosì sono qualcosa di molto diverso. A volte mortale.


Ad ogni angolo, grandi cartelli promozionano il tour nelle miniere de Potosí. I pieghevoli descrivono le terribili condizioni dei minatori come un’attrattiva, e ai turisti per pochi dollari si offre la possibilità di tirare due picconate alle vene. Ciò che non si pubblicizza sono i morti: 16 nei soli sei mesi passati. Gli ingressi, che furono armati con travature di legno al tempo della colonia, fanno contrasto con le gallerie interne. Mancano rinforzi, condutture d’areazione; le misure di sicurezza più elementari. I soci guadagnano in relazione al prodotto ed esistono marcate differenze tra le singole cooperative in funzione alla ricchezza dei giacimenti. Nelle più povere ci si contendono gli attrezzi fondamentali. I minatori, quando non incontrano il metallo, scendono nelle aree a rischio, coscienti di mettere a repentaglio la vita.
La maledizione del Cerro Rico ha una lunga storia. I giacimenti furono scoperti da un indigeno nel 1544. Il lavoro coatto fu introdotto nel 1572 e la città sul tetto d’America si trasformò nella maggiore riserva d’argento dell’Impero ispanico. Le donne preferivano uccidere i loro figli piuttosto che mandarli nelle gallerie e gli hidalgo iniziarono a importare manodopera schiava. L’olocausto di Potosì fu più lento di quello del Terzo Reich, ma utilizzava i medesimi strumenti, aveva finalità simili e ottenne gli stessi risultati.
Le condizioni di lavoro non migliorarono molto con la fine della colonia, tuttavia i minatori ottennero il diritto di vedere la luce del sole e di morire di silicosi qualche anno più tardi. Nel XIX secolo i filoni iniziarono a esaurirsi, finché cento anni più tardi nel Cerro fu trovato lo stagno. La rivoluzione scoppiò solo nel 1952, quando gli operai si unirono ai campesinos per abbattere la dittatura militare e restaurare il legittimo governo di Paz Estenssoro. Nel ’53 fu varata la legge di nazionalizzazione e nasceva la Compagnia mineraria di Bolivia: i minatori si erano trasformati in protagonisti della vita nazionale e le loro condizioni iniziarono progressivamente a migliorare. Diciassette anni prima erano state fondate le prime cooperative, destinate ai reduci della Guerra del Chaco contro il Paraguay. Si trattava di lotti marginali, dati in concessione a ex militari che si erano ammalati nella selva, a contatto con un clima al quale non erano abituati.
Le conquiste furono ridimensionate dagli anni di dittatura che succedettero il golpe del 1964 e dall’impoverimento dei filoni. Nell’80 iniziarono i programmi per reinsediare i minatori disoccupati, molti dei quali divennero cocaleros nel Chapare. Nel decennio successivo, molte miniere furono chiuse o date in concessione alle nascenti cooperative. Le condizioni di vita peggiorarono ulteriormente, fino all’acme degli ultimi anni. Potosí, che nel XVIII secolo fu la città più grande dell’America latina, si sta spopolando. I progetti di sviluppo non sono stati avviati e negli ultimi anni molti sono andati a ingrossare l’esercito dei sub occupati delle periferie di La Paz e Cochabamba.

Parla Antonio Pardo Guevara

Per parlare della situazione, abbiamo incontrato Antonio Pardo Guevara, vice presidente della Federazione dipartimentale delle cooperative minerarie, la quale rappresenta 42 affiliate, per un totale di 30.000 lavoratori. “Abbiamo avuto” afferma, “una caduta del prezzo dell’argento del 40% negli ultimi 15 anni. A partire dall’85 il governo iniziò a cedere le nuove miniere ai privati, contraddicendo i presupposti della nazionalizzazione. Le cooperative continuano a sfruttare bocche marginali e le condizioni sono divenute insostenibili. Nei due anni passati, abbiamo avuto 20 morti e 60 invalidi e negli ultimi mesi le statistiche si sono paurosamente impennate. Si tratta di vittime del gas, delle esplosioni, di cedimenti e frane nelle gallerie. Il livello delle strutture sanitarie è bassissimo e contiamo un 65 % di minatori affetti da malattie polmonari, in particolare silicosi e tisi. Coloro che certificano la propria invalidità ricevono una pensione di 850 bolivar, che non bastano per mantenere le famiglie, e continuano a lavorare. Da noi la speranza di vita è tra i 35 e 40 anni; quasi nessuno arriva a prendere la pensione di vecchiaia”.
Nel marzo di quest’anno la federazione ha presentato una proposta di rilancio, centrata sulla cessione di un impianto di raffinamento del materiale grezzo da parte del Comibol. L’impresa così costituita potrebbe gestire autonomamente il processo di separazione del metallo dalle scorie e commercializzare direttamente il prodotto. Si richiede al governo di ricostituire il Ministero delle miniere e di realizzare un cambio nell’attuale politica di privatizzazione, favorendo le cooperative i cui giacimenti sono in corso di esaurimento. In particolare sarebbero coinvolti i minatori del Cerro Rico, ai quali si dovrebbero concedere i crediti indispensabili per avviare la meccanizzazione.

Ma le Cooperative...

La Cooperativa unificata di Potosí è la più grande della zona e conta 5.000 soci. Dalle gallerie del Cerro ricava argento e stagno; recentemente è cambiato il metodo di lavoro e i gruppi si danno il cambio per turni di 24 ore. Non esiste riposo domenicale e i soci possono rimanere sottoterra a loro discrezione, dato che le cooperative non sono soggette alla normativa nazionale sul lavoro. Si dorme e si mangia nella miniera e si presenta l’autogestione come una conquista, tuttavia esiste un grave problema di alcolismo. Tutti sono coscienti delle conseguenze della mancanza di misure di sicurezza, “ma mancano i soldi...”. Nonostante i controlli della confederazione, ci sono segnalazioni di lavoro minorile e di operazioni in aree a rischio. A differenza dei salariati, i cooperativisti non posseggono una controparte rivendicativa: il compenso dipende dalla fortuna, dal prezzo di mercato, dalla generosità del Cerro. I più anziani ripetono che le attese della rivoluzione furono deluse e che le condizioni sono tornate a prima del ’52.
Gli effetti della privatizzazione si sono fatti sentire anche a livello di previdenza sociale. Dal 1997, la contribuzione è divenuta volontaria; molti hanno smesso di pagare e nei prossimi anni, a causa della silicosi, rischiano di rimanere senza sostento. Quelli della Unificata sono in ogni caso da considerare dei privilegiati, giungendo a guadagnare 1.500 bolivar, 224 dollari per mese. Nelle miniere marginali la situazione è anche peggiore. La proprietà dei giacimenti è rimasta alla Comibol, alla quale le cooperative pagano un canone annuale. Lo stato, che nel ’97 abolì il Ministero delle miniere, fino a ora non ha accettato di distribuire nuovi e più produttivi lotti. La cessione avrebbe permesso di accedere agli indispensabili crediti. I processi di estrazione rimangano gli stessi degli anni ’50, ed esistono miniere dove il lavoro si svolge ancora manualmente, come al tempo della colonia.
La Cooperativa 27 di marzo trae il proprio nome dalla data di fondazione, quando nel 1988 la Comibol cedette sette bocche ai propri operai. Molti di coloro che ottennero la concessione sono morti e la maggioranza degli 82 soci e dei 140 salariati ha meno di 25 anni. Caso unico a Potosí, soci e dipendenti guadagnano lo stesso stipendio, proporzionale all’argento, allo zinco, allo stagno cavato dalle profondità del Cerro un tempo ricco. Benedicto Llano Colque, presidente, ci riceve nel piccolo ufficio a lato dell’ingresso principale. È orgoglioso di affermare che tutti i lavoratori pagano la quota di previdenza e che i libri contabili sono in ordine e a nostra disposizione: “la nostra è una cooperativa democratica e solidale”. Gli incarichi sociali sono rotativi e lui, come il vice, rientrerà nella miniera al termine di un anno di mandato. Tutti si dicono felici della nostra visita e manifestano la speranza che divulgando la situazione, qualcosa possa migliorare. “Un grande passo in avanti, oltre alla meccanizzazione, sarebbe commercializzare e vendere direttamente. Avremmo bisogno di un nostro impianto di separazione, che verrebbe a costare 50.000 dollari”.
Dalla fondazione, nella 27 di marzo sono avvenuti sette incidenti mortali. Tuttavia, come invece generalmente accade, i figli delle vittime non furono costretti a prendere il posto del padre: la cooperativa riconosce un salario minimo alle famiglie. I più esposti alla silicosi sono i perforatori, che usano i martelli pneumatici, ma in tutta la miniera ci sono solo quattro maschere. Un secondo problema si riferisce all’acqua. Bagnando costantemente le superfici di lavoro, la polvere nebulizzata diminuirebbe sensibilmente: “sarebbero necessari una pompa e delle tubazioni, che ancora non abbiamo”. Entriamo dall’ingresso principale: le gallerie si sviluppano in più livelli, tuttavia solo le prime centinaia di metri sono rinforzate. In una piccola grotta riposa lo “zio”, idolo in fango che rappresenta le divinità delle profondità della Pacha mama. È tradizione che al varcare la soglia, gli si offrano foglie di coca, tabacco e alcol.

Grido di pietra

Incontriamo i primi minatori al lavoro. Sono giovani di vent’anni, dei quali sette passati sottoterra. Cavano con il piccone in uno stretto pozzo a lato della galleria, l’immancabile globo di coca sotto la guancia, per turni di otto ore. Il minerale è fatto salire con una carrucola a mano e trasportato con carriole fin dove giungono i binari. Nelle gallerie non c’è corrente elettrica e i vagoni vengono spinti da gruppi di tre operai. In alcuni tratti, i binari mancanti sono sostituiti da listelli di legno, e i vagoni si incagliano regolarmente. “Come definisci le condizioni di vita dei minatori?”. “A volte si guadagna, a volte non si guadagna... Dipende dal valore del minerale. Portiamo a casa una media di 800 bolivar al mese. Nella mia famiglia, tutti lavoriamo nella miniera. Spesso le travi ci cadono addosso e ci feriscono. Abbiamo bisogno di macchinari, di attrezzi: la sicurezza è la cosa più importante”. “Hai un sogno nella vita?”. “Per noi non c’è altro che la miniera; però, a pensarci bene, mi piacerebbe fare il muratore”.
La cooperativa Grido di pietra non è meccanizzata. Dal 1994, quando la miniera fu ceduta, molti soci se ne sono andati. L’atmosfera è pesante: i filoni si stanno esaurendo, ci sono differenze di compenso tra soci e salariati e di misure di sicurezza semplicemente non si parla. Qui la maggioranza dei lavoratori non paga la previdenza. L’ingresso è un orifizio nella parete della montagna, dal quale emergono i visi esausti e infangati dei minatori. Si tratta di 18 soci e 40 peones, con un salario medio di 450 boliviano. Si lavora con piccone e dinamite, e il minerale viene trasportato a spalla e con carriole. Le gallerie sono sature del fumo delle esplosioni. Giungiamo a una grotta sotterranea: un uomo in equilibrio sopra un tondino in ferro, con la mazza, con regolarità, batte un punteruolo conficcato nella roccia. Nel foro infilerà un candelotto di dinamite. Un turista, elmetto e impeccabile impermeabile giallo, vuole provare per tre minuti l’emozione d’essere un “minatore del XVIII secolo”.

Massimo Annibale Rossi