So che dirlo così può
sembrare ridicolo, ma a costo di esserlo vorrei affermare una
regola per misurare il livello di tolleranza e democrazia di
una società.
Ci sono, credo, dei sintomi dai quali si può evincere
se una democrazia è in crisi o no. Dei segni forti di
questa sintomatologia sono la vita di strada e i diritti di
tutti i cittadini alluso della strada. Le società
che cominciano ad aver paura della propria democrazia cancellano
gradualmente gli spazi casuali della strada, quei
luoghi dove ci si può incontrare tra estranei.
Una storica della vita di strada negli Stati Uniti, Rebecca
Solnit, ha affermato in un suo libro sulla storia del camminare
(Wanderlust, di prossima pubblicazione in Italia per Bruno Mondadori)
che democrazia è la possibilità di camminare in
città in mezzo a estranei. Sicuramente lo straniero
è una misura della democrazia e lestraneità,
cioè il diritto a una vita pubblica senza bisogno di
appartenenze a clan, tribù o mafie, è una delle
conquiste della democrazia moderna.
Da questo punto di vista largomento che vorrei sostenere,
e cioè che le panchine siano una cartina
di tornasole della democrazia di un Paese, può sembrare
meno originale di quanto suoni.
In aiuto mi viene, ahinoi, proprio la tendenza delle grandi
città americane ed europee a estinguere le
panchine.
A Parigi come a Hong Kong
A Parigi come in America le panchine sono viste come luoghi
sospetti dove clochard, barboni, immigrati, gente senza fissa
dimora e di malappartenenza possono trovare rifugio. Nel metrò
parigino è stata sperimentata una panchina anticlochard
che non consente un appoggio stabile. Non vi ci potete sdraiare
ma nemmeno sedere perché è concepita come una
superficie in pendenza. Si può sostare per poco su di
essa, ma sono le vostre gambe a continuare a sostenere il vostro
peso. A Hong Kong precisi regolamenti di polizia proibiscono
a chi passeggia per gli enormi shopping center posti tra un
grattacielo e laltro di sedersi, perfino di sostare per
poco. La panchina risulta insomma uninfrazione a una delle
regole delle nuove città autoritarie del Terzo millennio.
Ci si può sedere per terra solo se è la polizia
a obbligarvici. Le scene del G8 a Genova raccontano situazioni
di repressione di questo tipo. I manifestanti vengono obbligati
a distendersi per terra per essere esposti alla minaccia dei
manganelli. O se chiusi in caserma vengono obbligati ad appoggiarsi
al muro con le mani fin quando non crollano per la stanchezza
e vengono puniti. Cè nella guerra alla posizione
di sosta in posti pubblici il principio di qualunque repressione
del diritto di assembramento e di manifestazione. Lunico
fruitore cui viene concesso il diritto allo spazio pubblico
è un fruitore di passaggio o che lecchi (come
dicono i francesi) le vetrine dei negozi. Il cittadino delle
città del Terzo millennio è qualcuno che la polizia
deve far circolare. Lunica sosta consentitagli è
un luogo in cui deve consumare, sia esso luogo di acquisto o
di spettacolo o un luogo come lautomobile che è
già dentro la logica della circolazione forzata.
Giorgio Agamben qualche giorno dopo i fatti di Genova ha descritto
in maniera agghiacciante quegli avvenimenti come prova generale
di una gestione nuova delle città in quanto spazi di
repressione. Il governo Berlusconi vi ha sperimentato uno spazio
di polizia che occorre da ora in poi allargare a più
territori possibili. La città diventa luogo del controllo
e della sorveglianza mutuando una logica che ha avuto origine
nellinvenzione degli spazi speciali di concentramento
(che i nazisti avevano imitato dai campi inglesi in Sudafrica
dove internare i Boeri) e poi via via fino ai campi di pulizia
etnica in Bosnia, ai campi dove chiudere gli immigrati clandestini
in Europa.
È una logica che si sta infiltrando nelle nostre città
in questi tempi di pace/guerra con la scusa della sicurezza
e del controllo. Già oggi in America le organizzazioni
di quartiere possono ricevere finanziamenti per larredo
urbano solo se li chiedono in funzione di una maggiore sicurezza
(è uno studio operato sulla zona di Hollywood, a Los
Angeles, dallantropologo John Katz).
I Kafiri, per esempio
La logica della sicurezza non vede di buon occhio tutto ciò
che nella città è spazio offerto alla casualità
della sosta. Una panchina diventa un luogo pericoloso perché
non richiede nessuna tessera magnetica per essere usata.
Se questi sono i sintomi preoccupanti, vediamo come le panchine
sono diventate quello che sono pericolosamente.
Le panchine sono uninvenzione della grande città
borghese. Sono nate con i boulevard, con le passeggiate
nei giardini e nei viali che hanno ridisegnato il volto della
città post-gotica. Nelle città medievali non cerano
panchine, ma piuttosto sagrati, campi in città, e sedersi
significava stravaccarsi, distendersi, mettersi a ginocchioni
e tutta la più vasta gamma delle posizioni dello stare.
Se viaggiate in Oriente vi accorgete che ancor oggi cinesi,
vietnamiti, laotiani assumono posizioni dello stare che a noi
sembrano impraticabili. I loro corpi si adattano al luogo e
qualunque esso sia marciapiede, muretto, tavolo, albero,
scala lo trasformano in luogo di vita e di socialità.
La posizione può essere sui talloni, o laccucciarsi
può trovare altre parti del corpo come appoggio, ma la
varietà dellubi consistam è enorme.
Intere culture si distinguono per la loro maniera di distendersi.
Ad esempio i Kafiri, che sono un popolo non islamizzato, sulle
montagne afgane dellHindu-Kush, non sono capaci di sedersi
per terra alla maniera araba e quando lo debbono
fare una gamba viene distesa sul terreno in tutta la sua lunghezza
(si dice che questo dipenda dal fatto che loro sono i discendenti
delle truppe di Alessandro Magno e quindi degli stranieri anche
nel modo di sedere).
Le panchine minimaliste
Le panchine nascono nelle città europee e americane
e sono un corollario ai giardini e ai viali. Sono la risposta
urbana al bisogno di sedersi per strada. Ne sono
la civilizzazione, nel senso della civiltà delle
buone maniere di cui parla Norbert Elias. Le grandi città
del diciannovesimo secolo devono disciplinare grandi masse urbane
e inventano un modo di fruire la città il cui modello
rimanda ai comportamenti della nuova borghesia urbana. La panchina
nasce con gli ombrellini che difendono mesmadames et mesdemoiselles
dal sole, le crinoline, la redingote e tutto larmamentario
di cui i romanzi dellOttocento sono la migliore documentazione.
Se volete trovarne una versione simpatica, aggiornata, andate
a Barcellona lungo les Rambles che conduce al mare e vedrete
come le panchine sono ancora il segno signorile di uno stare
che non ha alcuna connotazione né da vegliardo né
da clochard. È solo nei primi decenni del Novecento che
le città diventano luoghi in cui il passeggio perde la
presa e lo status. Le automobili prendono piede e condannano
lo stare a una situazione che è marginale, decadente,
riservata a chi non è al centro della vita
sociale. Le panchine diventano nella Roma umbertina e poi nella
Roma repubblicana il luogo degli anziani o degli innamorati
poveri, cioè degli innamorati che non hanno
altro luogo per incontrarsi perché sono troppo giovani
o non posseggono luoghi privati per corteggiarsi. Limmaginario
della panchina cambia. Cambiano anche le forme. Dal tripudio
di varietà del diciannovesimo secolo si passa alle panchine
minimaliste del ventesimo.
È allora che la panchina diventa sempre più un
luogo di sosta di chi è espulso dai processi sociali.
I senza fissa dimora ci vivono, a volte ci muoiono (è
successo allinizio dellinverno di questanno
a Milano per il freddo). Se sfogliate la Settimana Enigmistica
dagli anni Cinquanta a oggi vi accorgete che le vignette che
ritraggono barboni e mendicanti hanno spesso come ambientazione
le panchine.
Stare in panchina diventa nel linguaggio comune
un sinonimo di essere tagliati fuori dallazione. La panchina
è il luogo in cui finiscono, al momento del pensionamento,
coloro che non sono più utili al processo produttivo.
O coloro che per disgrazia o per scelta non vogliono essere
utili allo stesso processo. Paul Auster, in vari suoi libri
e racconti, spiega bene come si diventa barboni e come la panchina
diventi un luogo di vita. E in una straordinaria cronaca, King,
John Berger descrive la vita ai margini di un gruppo di homeless.
Questa deriva della panchina colpisce tutto luso che altre
fasce sociali possono farne. Già negli anni Settanta
del Novecento a Parigi era proibito distendersi su una panchina.
Arrivava un flic e vi diceva subito di mettervi seduti. Come
se la panchina descrivesse il crinale pericolosissimo tra il
sedersi ammesso e dignitoso e il lasciarsi andare giù
verso la china. Nella panchina alligna una specie di morbo
che vi può condurre giù verso la degradazione
sociale e morale.
Regole non scritte
Nel nuovo galateo urbano della città di fine Novecento
in pubblico non ci si può lasciare andare. Se è
concessa qualche effusione tra innamorati, è la solitudine
stanca a essere proscritta. Chi è stanco se ne torni
a casa. Questo nuovo comandamento altera completamente luso
della città. La città zonizzata non consente un
riposo e una ricreazione nel suo centro vitale. Chi vi dorme
è considerato un soggetto pericoloso o in pericolo.
Dormire in pubblico è considerato non solo una pratica
oscena, ma soprattutto a rischio dellincolumità
di chi dorme. Nonostante secoli di siesta, di stravaccamenti
e di riposo in pubblico. In altre culture e in altre città,
specie in quelle asiatiche, ciò sarebbe inconcepibile.
Nelle città europee e americane il riposo
diventa, se esercitato in pubblico, altrettanto osceno di un
atto sessuale. In Giappone è previsto ancor oggi che
nei luoghi pubblici vi siano stanze, zone, allaperto o
al chiuso, negli uffici, nelle scuole, nei parchi, destinate
al sonno ristoratore pomeridiano. Per un popolo costretto a
pendolarismi sfibranti è lunico modo di farcela.
Lo stesso non avviene in Occidente. Da noi la connotazione del
corpo disteso in pubblico ha una oscenità che è
intollerabile. La panchina è una seduta ambigua perché,
se consente il sedersi, suggerisce allo stesso tempo lo scivolare
lungo distesi. Certamente forma e materiale consentono un riposo
provvisorio, scomodo e non accogliente come un prato o un materasso,
ma al contempo garantiscono una igiene e una posizione rialzata
che il terreno non offre allo stesso modo. La cosa interessante
è che le panchine portano raramente istruzioni
per luso. Ciò che su di esse viene interdetto
non cè bisogno di scriverlo perché è
la società nellelaborazione continua dei suoi procedimenti
disciplinari a dirlo. In questo non scritto cè
per i meccanismi repressivi un esercizio interessante. Le regole
non scritte dello spazio sociale consentono una fluttuazione
utile ai meccanismi disciplinari. È a giudizio della
guardia o della polizia urbana che un atteggiamento viene considerato
più o meno tollerabile.
Le panchine sono per lo stesso motivo un luogo importante di
resistenza. Se non lo erano fino a poco tempo fa,
dove sembrava che fossero un rifugio della marginalità,
oggi la loro esistenza e il loro uso sono altamente rappresentativi
del rapporto tra cittadini e poteri di controllo polizieschi.
Le panchine offrono nello spazio urbano luoghi di frammentazione
della soggettività, luoghi di riproposizione di una non
funzionalità. In questi luoghi si possono esercitare
attività non retribuite né retribuenti, in esse
il cittadino è nudo cioè inutile al
potere e per questo capace di un contropotere sociale. Tutto
ciò viene concesso solo agli anziani o ai bambini, ma
non è quasi concepibile per altre fasce, a meno che non
si tratti di marginali che possono essere repressi facilmente.
Una popolazione nuova delle panchine sono gli immigrati che
le hanno scelte come luogo di riposo da una sfibrante ricerca
di sopravvivenza, ma anche come luogo dove ricostituire una
socialità tra immigrati. Le panchine diventano luogo
dove si mangia, ci si riposa. A Hong Kong, città che
per altro odia le panchine e le elimina appena può, sono
il teatro della aggregazione domenicale delle donne filippine
che vi fanno pic-nic, si truccano lun laltra, si
acconciano, si tagliano i capelli. Ovviamente sono luoghi che
danno fastidio perché nessuno vi paga laffitto
e sono offerti gratuitamente alluso. È
su questo punto che la repressione si scatena e si scatenerà.
Luoghi del genere, gratuiti, sono sempre meno consentiti e possibili.
Le città sono state trasformate in un teatro di ombre
private e in una lugubre sfilata di shopping situations.
Difficile che luoghi gratuiti possano sfuggire a questa pianificazione.
Occorre dire che raramente architetti, designer e planner si
sono posti questo problema. La città esiste fin quando
al suo interno sono consentite attività indefinite,
multifunzioni che mescolano soggetti, generazioni, generi, attività
e movimenti diversi. In una città autoritaria
come quella prefigurata durante il G8 o come le città
della safety americana è proprio lindefinitezza
dellutenza la cosa che ispira più terrore. Le panchine
offrono una varietà di usi e di situazioni non gradite
a chi voglia invece dare una disciplina nuova alle città.
Anche i marciapiedi
Non vorrei sembrare adesso esagerato, ma certamente è
lo spazio pubblico di cui le panchine sono il simbolo che è
in pericolo nei prossimi anni. Siamo tutti molto meno liberi
ora che lAmerica ha lanciato la sua angoscia sul mondo
(aveva cominciato ben prima dell11 di settembre a farlo,
essendo la civiltà che più ha negato nella sua
storia i valori urbani e dello spazio pubblico).
Insieme alle panchine laltro oggetto di preoccupazione
e di repressione saranno e sono già i marciapiedi, questo
resto archeologico del passato per chi concepisce la città
solo come luogo della circolazione delle auto e pensa che lo
shopping sia molto più efficace dentro gli shopping center.
I marciapiedi insieme alle panchine sono il luogo di una resistenza
tutta italiana, tutta europea per molti versi, allamericanizzazione
delle città. Fino a poco tempo fa questo tipo di considerazioni
potevano suonare assurde. Oggi sappiamo che nella spirale di
caduta della civiltà americana lEuropa è
minacciata fortemente nella sua storia e nei suoi valori urbani.
Nei prossimi anni si giocherà una partita fondamentale
per la democrazia dello spazio. La panchina sarà una
delle bandiere più rappresentative di uno schieramento
che non ci sta allomologazione del mondo dentro
lo spazio del panico.
Franco La Cecla
Questo scritto di La Cecla è tratto
dal volume edito da Elèuthera segnalato nella scheda
qui sotto.
elèuthera
Stefano
Maffei
(a cura di)
Panchina/Bench
160 pp. illustrate in quadricromia
IL
CURATORE
Stefano
Maffei, architetto e designer, è docente
incaricato di Disegno Industriale presso il Politecnico
di Milano. Membro dell'Agenzia Sistema Design, coordina
le attività espositive ed editoriali di Opos,
istituzione culturale milanese che si occupa di ricerca
e promozione nel campo del design.
L'OPERA
Il
libro è un testo a più voci composto da
diverse parti tematiche che hanno come oggetto di osservazione
un artefatto spesso presente nell'esperienza delle persona:
le panchine. Nella prima parte del volume il
tema è affrontato da alcuni saggi redatti da
antropologi, studiosi di design, storici della "contemporaneità",
che tentano di costruire un orizzonte di riflessione
approfondito e originale sul rapporto tra uomo, spazio
pubblico, attività, persone. L'indagine
culturale è integrata da altre due visioni: la
presentazione di una serie di oggetti di design selezionati
tra giovani progettisti italiani ed europei, documentato
attraverso il materiale fotografico e iconografico prodotto
dai designer stessi, e la presentazione di una serie
di immagini riguardanti progetti di ricerca fotografica
sul tema della panchina affidati a giovani e affermati
fotografi italiani. Lopera ci offre un'indagine
a tutto campo su un oggetto archetipico della nostra
vita quotidiana attraverso un percorso fatto di riflessioni,
immagini, progetti che ci fanno comprendere le mille
dimensioni culturali toccate da questartefatto.
Contributi di Piero Brunello, Franco La Cecla, Raimonda
Riccini, Claudia Zanfi e altri.
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