Cari compagni e lettori di A,
due parole di introduzione al progetto di collaborazione con
la rivista che debutta con larticolo su Brassens che segue.
Lintenzione è quella di dare una visione panoramica
necessariamente non esaustiva della canzone dautore
caratterizzata da un interesse per le tematiche sociali, anche
se non ci atterremo sempre strettissimamente a questindicazione
includendo anche esempi di autori non precisamente politici,
ma che hanno rappresentato una rivoluzione linguistica contrapponendosi
a uno show business asservito (oggi più che mai) ai criteri
della dittatura del mercato.
Questo anche per contrastare la specificità della critica
italiana che vuole una separazione totale in caste contrapposte,
in cui canto popolare e canto di protesta sono nettamente divisi
dalla canzone dautore di diffusione commerciale, come
dire: i «militanti» e i «portatori»
contrapposti ai «professionisti»; altrove tutta
questa separazione non è mai avvenuta con grande profitto
artistico e politico: negli Stati Uniti la canzone rurale, il
folk blues, il blues sono la base medesima delle successive
evoluzioni della popular music (Woody Guthrie è il maestro
riconosciuto di Bob Dylan come di Bruce Springsteen). In America
Latina poi il rapporto tra tradizione, rivendicazione e innovazione
è totalmente inestricabile.
A fronte dellimmensa mole di materiale, facilmente reperibile
in Italia della produzione anglofona, il mio interesse si centrerà
sulle altre produzioni, e quindi in primo luogo quella francese
e ispanica (senza voler trascurare le notevoli, anche se non
altrettanto numerose, «scuole cantautorali» lusitane,
russe, germaniche, ecc.), con la grande speranza di servire
da «stimolo» alla curiosità della scoperta
di autori spesso «mai sentiti».
Per evitarvi/mi il rischio di una noiosa esposizione accademica
salterò un po qua e là proponendo
per esempio un mese il pezzo su Utge-Royo, che è
il cantautore organico al movimento libertario francese (e belga),
e il mese dopo quello su Vissotskji, che è un grandissimo
e notissimo cantautore russo attivo negli anni 70, non
precisamente libertario in maniera esplicita, ma la cui intera
poetica è un grido di rivolta contro la glaciale stagnazione
brezneviana...
Alessio Lega
La mauvaise herbe
ovvero di Georges Brassens,
menestrello ostile ai principi e alla folla
«Non trova che il mondo sia più triste da quando
è morto Georges?»
Con questa frase pronunciata da un suo vecchio amico si concludeva
un recente programma messo in onda dalla televisione francese
per celebrare il ventesimo anniversario della scomparsa di Georges
Brassens (e allin circa lottantesimo dalla sua nascita).
Si sono in quelloccasione susseguite le più disparate
celebrazioni: dalla riproposizione in una nuova edizione della
sua opera omnia incisa, alla pubblicazione di ben tre ghiotti
CD di registrazioni inedite, provini e frammenti vari; non è
mancato spazio teatrale che non abbia destinato almeno una serata
alla sua memoria, si è montato uno spettacolo che ha
avuto decine di migliaia di spettatori, una versione in dvd,
e non ha ancora cessato di girare... insomma un tripudio...
Ma come mai un cantautore di carattere schivo, tanto da essere
chiamato dagli amici l«orso», indifferente
a ogni moda musicale, tanto da registrare invariabilmente voce,
chitarra e contrabbasso tutti i suoi dischi (dal 51 al
76), con una poetica apparentemente stilizzata in unarcadia
ferma stilisticamente e come preoccupazioni formali alla fine
dell800, e perdipiù dichiaratamente anarchico,
suscita e ha suscitato un così unanime empito di simpatia?
A dire il vero proprio lunanimità del consenso
non ha mancato di creare una certa diffidenza da parte di molta
critica militante, che da un lato affezionata allidea
della necessaria clandestinità dei suoi autori preferiti,
dallaltro messa in sospetto dallassenza di musoneria
e da una «disdicevole» tendenza allautoironia,
ha caricato la sua opera di goffi tentativi di ridimensionamento:
populismo, goliardia, spirito reazionario di origine contadino,
qualunquismo, individualismo piccolo borghese... insomma il
meglio delletichettatura del sacro rigore dei matematici
della rivoluzione gli è stato assurdamente attribuito.
Ma lanarchico «bravo ragazzo» che aveva collaborato
per alcuni anni al periodico Le Libertaire, loperaio
della Renault che trascorreva le sue notti a bagordare con i
suoi amici «per male» e tutti i ritagli di tempo
a «svaligiare» le biblioteche rionali parigine,
il figlio del muratore che si era fatto prendere a rubacchiare
a quindici anni ed era sfuggito alla cattura nascosto in un«impasse»
malfamato dopo la diserzione dai campi di lavoro delloccupazione
nazista, linarrivabile musicista che elaborava architetture
di parole mozzafiato, con raffinatezze di linguaggio e di costruzione
arditissime e talmente complicate da... essere cantate e godute
anche dai bambini della scuola elementare, lartista che
saliva sul palco come un amico chiamato a tradimento e che sudando
e concentrandosi su ogni accordo teneva appeso a un cordone
demotività un pubblico incantato dalla coerenza
granitica del personaggio... ebbene tutto ciò che Brassens
rappresentava e rappresenta rideva e ride ancora di questi inutili
tentativi di intorbidire la purezza insubordinata della sua
poesia.
Georges Brassens era nato a Sète nel 1921 e vi è
morto esattamente sessantanni dopo. Arrivato a Parigi
a ventanni, vi ci ha trascorso tutta lesistenza,
tranne gli ultimi mesi. La sua vita è straordinariamente
povera di vicende esteriori... troppo, secondo alcuni, che non
hanno mancato di rimproverargli latteggiamento assolutamente
distaccato e la totale mancanza di prese di posizioni a proposito
delle vicende gravi e appassionanti che si svolgevano in Francia
in tuttil corso della sua carriera: dallIndocina
allAlgeria, dallOAS al Maggio 68. Ma lostilità
alla società intesa comunque come insaziabile divoratrice
di individualità ha fatto svolgere a Brassens la sua
intera opera, in unintima coerenza, come un atto di diffidenza
a ogni forma di potere, di organizzazione e di mitologia, che,
se da una parte non ha mai derogato da un impegno inflessibile
sui temi che gli stavano a cuore: lantimilitarismo più
totale, la difesa degli umili, il rifiuto della morale borghese
(matrimonio, religione, patriottismo), dallaltra ha evitato,
con anche troppa inflessibilità, come la peste ogni rischio
di identificazione con una figura di predicatore laico, porta
parola di qualsiasi gruppo, di caposcuola a cui far riferimento.
Limpegno, mai venuto meno, di Brassens è stato
nel raccogliere la grande, ma insterilitasi nella didascalia,
tradizione cosiddetta «realiste» della canzone francese,
quella che si occupava delle puttane, dei piccoli magnaccia,
dei delinquenti di strada, dei poveri cristi e sposarla alla
solarità swing, alle immagini pure, alla geometria letteraria
di gusto surrealista che gli veniva dalladorato Charles
Trenet per questo, a torto o a ragione, il padre della
moderna canzone poetica francese ; questoperazione
arditissima e linguisticamente rivoluzionaria ha consentito
a unarte che ha sempre corso il rischio dessere
apprezzata da pochi, di finire sulla bocca di tutti... tutti
hanno pianto per il «pauvre Martin», il contadino
abbrutito dal lavoro e arreso alla morte liberatrice, come tutti
hanno riso del giudice che avendo condannato a morte
qualcuno viene goliardicamente sodomizzato da un gorilla
inconsapevole e vendicatore, e, anche se questo non ha significato
fare la rivoluzione sociale, certo ha guadagnato unincalcolabile
simpatia alla «causa», completamente ribaltando
il centro dinteresse della canzone poetica. Brassens ha
definitivamente sposato una canzone in cui le tematiche sociali
hanno una centralità assoluta, col rigore e i sentimenti
della vera opera darte. Lha fatto con una forza
e una riconoscibilità tale da diventare lui ostile
come nessunaltro alle «scuole» il più
imitato dei riferimenti... forse solo Bob Dylan ha influenzato
altrettanto il genere. Brassens ha sottratto agli effettacci
da basso feuilletton il mondo della rue (la strada) che
popolava le canzoni dei suoi predecessori, e lha eternizzato
in una bellezza povera di sentimentalismo e ricchissima di sentimento
e di humor.
La rivolta in Brassens non proviene mai da un atto di rancore,
per quanto giustificato, ma sempre da un atto damore,
per questo si mantiene di una freschezza priva di brutalità
e si compiace degli stilemi popolari più ridanciani e
solari, dopo averli liberati dalla pesantezza grossolana dellautocompiacimento
delle più turpi manie della miseria.
George
Brassens legge Le monde libertaire, il foglio anarchico
di cui fu collaboratore
Lerbaccia
1954
Quando
arrivò il giorno di gloria
appena morti tutti gli altri
solo io conobbi il disonore
di non essere morto sul campo di battaglia.
Sono
come lerbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
La morte falciò gli altri
brava gente
e fece grazia a me
sarà immorale ma è così.
Tra
la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
chio viva un po.
La
ragazza che ama un po tutti
poi mi dà quotidianamente
i pezzetti di lei talmente nascosti
che gli altri non le hanno mai toccato.
Sono
come lerbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
Lei si vende agli altri
brava gente
e si regala a me
sarà immorale ma è così.
Tra
la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
che mi si ami un po.
Ci
dicono che gli uomini son fatti
per stare in banda come le pecore.
Io vivo per conto mio, e non credo
che seguirò mai la loro retta via.
Sono
come lerbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
Sono come lerbaccia
brava gente
e cresco in libertà
nei parchi malfamati.
Tra
la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
chio viva un po.
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La lingua
e la musica di G.B.
La novità rappresentata dal perfetto equilibrio delle
canzoni di Georges Brassens ha fatto si che fossero fra le più
adattate dai cantanti non francofoni: versioni tedesche di Daghenardt,
versioni catalane, versioni russe, versioni valloni, uno stupendo
disco cantato da Paco Ibañez... e ovviamente versioni
italiane (o in dialetti italiani). Quattro o cinque dischi interi
di Svampa, due di Beppe Chierici, quel pugno di celeberrime
versioni di De André, e una ridda di traduttori e interpreti
più sporadici, o che non hanno trovato riscontro discografico
(ci piace ricordare almeno Enrico Medail e Fausto Amodei). Eppure
Brassens è forse, paradossalmente, lautore meno
traducibile della canzone francese.
Brassens prima ancora che un sublime artista dei sentimenti,
è un infaticabile artigiano della parola: la sua scrittura
è formalmente matematica, i suoi versi non sgarrano di
un millimetro, adottando una struttura metrica che è
spesso un vero rompicapo... se non si comprende questo sottile
rigore formale si rischia di far cadere lintera impalcatura
dellopera sua... Attenzione però, egli non fa il
gioco dellenigmista (come fra i suoi «allievi»
fece incredibilmente Boby Lapoint), la sua forma è incandescente
di tensione morale, è fremente dironia, è
percorsa di pietà; piuttosto la natura al contempo schiva
e sensibilissima delluomo gioca un costante rimpiattino
con una forma interessante di per sè, così come
labilità di melodista, che gli fa comporre musiche
orecchiabili ed emozionanti, viene mascherata da una certa arguzia
armonica che si insinua perfettamente nella pregnanza ritmica
dei testi; Brassens ama il jazz, e la sobrietà della
sua orchestrazione (voce, una o due chitarre e contrabbasso)
non impedisce passaggi di richiamo alla tradizione dello swing-musette
dellimmenso Django Reinardth.
Insomma un grande calore umano, servito da un formidabile dominio
formale!
Si aggiungano, scorrendo per le stratificazioni linguistiche,
luso costante di frammenti di proverbi, di citazioni letterarie
deformate, di frase idiomatiche usate fuori contesto, e si avrà
limpressione precisa della dialettica fra richiamo al
«già sentito» e contestazione ironica dei
luoghi comuni, fra solidità pennaiola e linguaggio vivente,
che dà quel sapore così unico ai versi del cantante
di Sète.
Il mondo sarà anche più triste dal momento chè
morto, ma la canzone è molto più allegra da quandè
nato!
Alessio Lega
George
Brassens
LA
BALLATA DI QUELLI NATI DA UNA QUALCHE PARTE
1972
È
pur vero che son piacevoli questi villaggetti
questi borghi, le frazioni, questi siti, le città,
con le fortificazioni, le chiese, le spiagge
non hanno che un difetto: essere abitati,
ed essere abitati da gente che sogguarda
gli altri con disprezzo, dallalto dei bastioni,
la razza degli sciovinisti, i portatori di coccarde,
gli imbecilli felici desser nati da una qualche
parte.
Maledetti
tutti i figli di una madre-patria
che si impalassero una volta per tutte sul loro campanile
quando vi mostrano le loro torri e i musei e i municipii,
e vi riempiono del loro paese natale fino a farvi vomitare.
Che vengano da Roma, Parigi o Sète,
o da casa del diavolo, o da Zanzibar,
anche fosse Montcuc, son capaci di vantarsi, perdinci,
gli imbecilli felici desser nati da una qualche
parte.
La
sabbia nella quale, finissima, i loro struzzi
sprofondano la testa, non ce nè di più
raffinata...
Quanto allaria con cui gonfiano le loro palle
le bolle di sapone, è un soffio divino.
E così, poco a poco, giungono a montarsi
la testa fino a ritenere che lo sterco dei loro cavalli
(anche di legno) renda invidioso il mondo,
gli imbecilli felici desser nati da una qualche
parte.
Non
è un luogo comune quello della loro
nascita,
compatiscono davvero quei poveri disgraziati,
gli incapaci che non ebbero la presenza di spirito
di vedere il giorno nel loro stesso luogo.
E quando la squilla li chiama, rompendo la tranquillità
precaria,
contro qualche straniero, certamente barbaro
escono dal loro fosso per morire alla guerra
gli imbecilli felici desser nati da una qualche
parte.
Dio
mio, che bella sarebbe la terra umana
se non si incontrasse questa razza demente
questa razza importuna, e che abbonda ovunque
la razza territoriale, la gente dorigine controllata.
Sarebbe bella la vita, in ogni caso
se non avessi cavato fuori dal nulla questi cazzoni,
prova definitiva della tua inesistenza:
gli imbecilli felici desser nati da una qualche
parte.
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