Il dubbio esistenziale della vigilia
era se Berlusconi sarebbe andato o no al vertice di Johannesburg.
La confidenza fatta dal premier alla folla plaudente dei ciellini
sul fatto che Bush lo avrebbe consultato sui progetti USA contro
lIraq e con lui si sarebbe deciso il da farsi, aveva esaltato
la platea di Rimini, notoriamente di bocca buona, ingenerando
in essa la convinzione (che era pure una non infondata speranza)
che le sorti del grande raduno sudafricano fossero, in realtà,
nelle mani del Cavaliere.
Nel teatro latino, la farsa seguiva lo svolgimento e lepilogo
del dramma; nel caso nostro lo precedeva, quasi fosse radicata
la convinzione che, dopo il dramma, ci sarebbe stato poco spazio
per le comiche finali. E che, nella sostanza, Johannesburg fosse
il contesto appropriato ad unimmensa tragedia, lo sanzionava
la condizione del popolo di Mandela, afflitto come gli altri
popoli del suo continente da un irredimibile sottosviluppo,
che non poteva certo essere occultato dalle velleità
letterarie del suo vecchio e stanco leader, assente ingiustificato
allassemblea dei no-global, il quale continuava a scrivere
le sue memorie mentre la sua polizia blindava la città,
relegava in ghetti lontani le manifestazioni di opposizione,
picchiava ed arrestava i partecipanti ai raduni e alle assemblee
alternative agli incontri ufficiali.
A nostro giudizio, la grande assemblea dellONU è
stata chiamata a ratificare il fallimento di qualunque tentativo
di convivenza non conflittuale tra paesi poveri (molti) e paesi
ricchi (pochi), tra i 5 miliardi circa di uomini ai quali è
destinato il 20% delle risorse planetarie e gli 850 milioni
che ne consumano e dissipano il rimanente 80%.
Legoismo è certamente componente importante nellirrigidimento
dellOccidente verso qualsiasi tentativo di rivedere i
criteri di produzione e distribuzione delle risorse, ma non
è il solo. Cè la forza inerziale di modelli
di sviluppo che hanno dinamiche interne rigide e non violabili
pena il crollo dellintera struttura economica e giuridica
che regolano. La così detta legge del mercato impone
la logica delleconomicità dei beni prodotti e,
quindi, la loro veicolazione solo in quelle aree che possono
acquistarli ai prezzi e alle condizioni prestabiliti.
Certo, possono consentirsi delle elargizioni una tantum
e così ecco che a Johannesburg linviato di Bush
promette 15 miliardi di dollari, a regime nel 2006, per più
o meno credibili piani di intervento nelle enormi plaghe di
indigenza del nostro pianeta. Che è un giuoco creativo
alla Tremonti, si parva licet, perché i 10 miliardi
di dollari stabiliti a favore dello sviluppo nella conferenza
di Monterrey del marzo scorso corrispondevano allo 0,1% del
Pil statunitense; mentre i 15 miliardi complessivi al 2006,
stabiliti adesso a Johannesburg, rappresentano certo lo 0,15%
del Pil USA, ma diluiti in quattro anni, registrano una caduta
di oltre un terzo (sempre rispetto al Pil), Rileva Antonio Tricarico
della campagna per la riforma della Banca Mondiale: Dieci
anni fa il contributo di Washington equivaleva allo 0,2% del
Pil degli Stati Uniti, oggi si è dimezzato allo 0,1%,
anche se la cifra assoluta resta costante per effetto della
crescita del Pil nazionale. Ma, come abbiamo visto, quello
di Tricarico è un calcolo ottimistico.
Se, però, in tema di elargizioni si può sempre
discutere, guai a rivedere i criteri che di fatto escludono
dai mercati del pingue occidente i prodotti agricoli dei paesi
del sottosviluppo; guai a disancorare dal balzello dei brevetti
i medicinali che potrebbero alleviare gli esiti di veri e propri
flagelli che affliggono le popolazioni del terzo mondo; guai
soprattutto a metter le mani sullindustria dellinquinamento:
il petrolio è la risorsa energetica che ha più
di ogni altra veicolato la logica del dominio e, intaccarla,
significherebbe la caduta verticale delle leadership che governano
il mondo. E poco importa che il degrado conseguente alluso
dissennato delle risorse energetiche sia ormai non solo percepito
dagli ambienti scientifici, ma si manifesti palesemente con
mutamenti climatici innaturali (alluvioni ricorrenti, scioglimento
dei ghiacciai, collasso progressivo di quelle correnti atmosferiche
e marine che hanno sin qui garantito gli equilibri climatici
del pianeta); con lalterazione dellassetto idrogeologico
della terra (desertificazione, erosione delle coste, innalzamento
delle temperature delle acque degli oceani, ecc...); con la
crescita esponenziale di quei prodotti che consumano petrolio
e derivati, prodotti che, come i veicoli su gomma, hanno reso
invivibili le città e irrespirabile la loro aria.
Un fallimento su tutta la linea
Ogni anno, noi immettiamo nellatmosfera 24-25 miliardi
di metri cubi di anidride carbonica e gas inquinanti: dicono
gli scienziati che, per smaltirli, occorrono 250 anni. Pensate
alla cappa che grava su tutta lumanità per linquinamento
pregresso e il tempo che occorrerebbe se per un qualche
miracoloso evento, smettessimo del tutto di emettere gas tossici
per ristabilire gli equilibri ecologici. A fronte di
questi dati drammatici, America, Canada e Australia, e, è
notizia di oggi, sembra,anche la Russia, si rifiutano di sottoscrivere
il pur blando protocollo di Kyoto, che prevede la progressiva
diminuzione del 5% delle emissioni tossiche in cinque anni.
Questi sono i temi principali sui quali lassise di Johannesburg
avrebbe dovuto misurarsi e misurare le reali intenzioni di tutti
i partecipanti, in prima fila America ed Europa, di affrontarli
e avviarli a soluzione. Il resto è chiacchiericcio estemporaneo,
puro vaniloquio, come laccordo per una pesca compatibile,
che, senza norme precise (che non sono state neppure proposte),
è vuota affermazione di principio; o come luso
dei pesticidi, che avrebbe dovuto essere totalmente bandito
entro un certo numero di anni e che, per lopposizione
di un fronte nutrito di liberisti, ha partorito
il topolino di una formula evanescente, che invita i produttori
a ridurre le componenti chimiche di questi prodotti che provocano
danni alluomo.
Insomma, un fallimento su tutta la linea, largamente previsto,
del resto, ma che ha il merito di sgombrare il campo dalle residue
illusioni di poter redimere, con i mezzi della persuasione e
con la pressione finora pacifica dei molti derelitti della terra,
il sistema politico-economico oggi prevalente, anche per potenza
militare, del pianeta terra.
Né ha fondamento la speranza che lapparente articolazione
delle posizioni allinterno stesso dello schieramento occidentale
porti ad unevoluzione degli squilibri esistenti tra i
ricchi ed i poveri della terra. Se i giri di valzer di questo
o quel paese del blocco capitalistico sono compatibili con il
sistema per ristabilire equilibri o per riaffermare egemonie,
non aprono varchi nella monoliticità dellarea:
a richiamare allordine e alla compattezza ci sono le borse
con i loro listini che ristabiliscono priorità e impongono
indirizzi.
Così anche le differenti posizioni che si sono evidenziate
a Johannesburg, per esempio, tra America ed Europa (ma, poi,
quale Europa!) hanno il sapore di conflitti più di metodo
che di sostanza: quando si tratta di uscire dal vago e indicare
regole e scadenze i se e i ma prevalgono nettamente: valga per
tutti la sorte del protocollo di Kyoto e la stessa evanescenza
dei pochi punti tutti scarsamente significativi rispetto
ai problemi veri sottoscritti, anche questi con molte
riserve, dai delegati dellassise sudafricana.
Cè da chiedersi se la prevalenza degli interessi
dei più forti, riaffermatasi anche in questa circostanza,
sia un segno di forza o di debolezza del mondo capitalistico
A breve scadenza, certo, gli scenari rimarranno pressoché
inalterati e, quindi, allapparenza, la forza e la prepotenza
delloccidente continueranno a dominare lo scenario internazionale.
Ma, alla lunga, il margine delle certezze in questa direzione
si restringerà sempre più significativamente.
Molti studiosi, anche americani, prefigurano unimplosione
del sistema, determinata dalle dinamiche interne del sistema
stesso.
Torneremo su questo argomento che merita certamente uno spazio
molto più ampio che la conclusione di questo articolo.
Turbolenze ricorrenti
Vogliamo, però, accennare ad un argomento che a noi
sembra assai importante e che non trova molto spazio nelle indagini
a respiro strategico di studiosi e commentatori politici. Cè,
da parte dellOccidente, il tentativo di universalizzare
i propri principi giuridici ed affermare la propria visione
dei rapporti tra istituzioni e cittadini, che trova la sua catalogazione
nei codificati diritti civili.
Basta dare uno sguardo anche superficiale agli istituti giuridici
internazionali per accorgersi che essi riproducono modelli prevalenti
in occidente, sia in sede penale, che civile. A parte la parzialità
del tutto evidente di questo modello, esso stimola ed esalta
conflitti etnici, religiosi e culturali ascrivibili alla necessità,
per le controparti, di resistere, di opporsi a tale tentativo
di omologazione e ciò anche allinterno degli schieramenti
che oggi sembrano fronteggiarsi monoliticamente. La guerra portata
da Stati Uniti, Gran Bretagna e presenze militari simboliche
europee in Afganistan ha prodotto la caduta del regime talebano,
certamente, ma non ha risolto, anzi, ha esaltato i conflitti
etnici preesistenti, scatenando per simpatia altri conflitti
latenti nellarea (per esempio quello indo-pakistano per
il Kashmir), conflitti dai quali le potenze delloccidente
non potranno mai chiamarsi fuori, perché direttamente
o indirettamente riconducibili a loro interessi concreti (il
controllo delle risorse energetiche, la preservazione di equilibri
politici la cui alterazione provocherebbe effetti a catena nocivi
alla logica di dominio, e via dicendo). Solo che per questi
conflitti regionali la potenza militare occidentale è
sovradimensionata oltre ad essere inadeguata la cultura
politico-diplomatica necessaria per dirimerli e, quindi,
ogni intervento risulterà enormemente costoso e non risolutivo.
Così è avvenuto nel Kossovo, così in Iraq.
Queste turbolenze ricorrenti ecco il punto al quale volevamo
arrivare minano le fondamenta dellImpero, in primo
luogo perché bruciano risorse immense sempre più
difficilmente rigenerabili, poi perché vanno molto al
di là delle cause prossime che le provocano, investendo
lambito dello scontro tra civiltà. E, a lungo andare,
anche sul fronte interno sarà sempre più arduo
far digerire ai popoli le ragioni di questi sprechi e la chiusura
manichea verso altri popoli, per quanto diversi dai nostri siano
i loro costumi e le loro fedi.
Antonio Cardella
|