Ci sono delle parole che diventano simboli
di una cultura e rappresentazioni della realtà. E poiché
i sistemi sociali occidentali si fondano sullequazione
realtà-razionalità (la filosofia hegeliana nelle
sue varie articolazioni, marxismo compreso, domina), i concetti
opposti a quelli dominanti diventano simboli di negatività.
È il caso della parola velocità e
del suo opposto lentezza.
Parecchi anni fa ad un convegno a Venezia sui Nuovi padroni,
parafrasando un noto titolo di un testo di Ernst Schumacher,
Piccolo è bello, Leopold Khor presentò
una relazione dal significativo titolo Lento è
bello.
Anticipando quindi una questione assolutamente attuale, Khor
sosteneva in questo scritto che la velocità non appartiene
alla dimensione umana la quale, in realtà, si realizza
compiutamente invece nella lentezza.
Quella che mi sembrava allora una stravagante, seppur suggestiva,
affermazione, mi appare, oggi più che mai, un concetto
di estrema attualità che trova riscontro empirico nelle
molteplici attività degli esseri umani e inoltre può
costituire un esempio concreto di sovvertimento dellimmaginario
collettivo e delle sue applicazioni.
Nelle moderne società post-industriali la velocità
è diventata il parametro con cui misurare e quindi dare
valore a tutte le attività umane non solo lavorative
ma anche turistico-ricreative.
Il dominio della velocità è pressoché totale
sopra ogni altro valore. Spesso infatti siamo soliti definire
ogni concetto accoppiandolo sempre al valore del tempo. Viviamo
insomma un tempo della velocità, che assieme a quello
dello sviluppo (di cui ho parlato nel numero precedente della
rivista) costituisce uno dei valori fondanti lattuale
sistema di vita. Sono questi i nostri nuovi integralismi, le
nostre nuove religioni occidentali. Invece lambiente sociale
e naturale che ci circonda ha bisogno di tempi distesi e lenti
per essere apprezzato e penetrato nella sua essenza senza stabilire
in questo rapporto tra noi e laltro una gerarchia fondata
su un tempo tiranno per una reciproca conoscenza.
La dolcezza della lentezza
Attraverso una riflessione sulla nostra esistenza quotidiana
e scambiando le nostre osservazioni con gli altri possiamo attaccare
e forse, almeno in parte, distruggere questa forma subdola di
dominio. Tutti gli esseri umani hanno bisogno di fuggire dallossessione
della performance ricavando, o meglio rubando, delle pause e
dei momenti di abbandono alla dolcezza della lentezza. Lappropriazione
di questi aspetti più naturali della nostra identità
di esseri umani ci permetterà di ridefinire i veri e
più autentici significati della nostra esistenza, riscoprire
i gusti e i sapori, apprezzare ed esaltare i piaceri della convivialità,
dellincontro, non mediato ma diretto, tra individui. È
lapprezzamento del camminare (H. D.Thoreau) sul correre,
del viaggiare sul fare i turisti, del rivalutare il qui e ora
sulla tensione del continuo ed incessante dover-essere.
Il passo del pedone può farci capire che la lentezza
non è il passato della velocità ma potrebbe essere
il suo futuro o, almeno, un suo indispensabile punto di equilibrio
(Raniero Regni, Geopedagogia, Roma, Armando, 2002, p.
62).
Dobbiamo insomma indugiare, soffermarci ad osservare, ad ascoltare,
a contemplare, a sognare, perché solo così possiamo
esercitare il nostro diritto a giudicare ciò che ci circonda
e a modificarlo.
Quando qualcuno gira con una carrozzina con dentro un neonato
per le nostre città e i nostri paesi si accorge immediatamente
come il tempo e lo spazio siano costruiti e pensati per annichilire
la dimensione debole della vita rispetto a quella
forte dellideologia dominante. Basta entrare
in una aula scolastica di una scuola qualsiasi per sperimentare
concretamente come la naturale e individuale capacità
di apprendere venga soffocata da unorganizzazione del
tempo e anche dello spazio edificata su bisogni e valori che
non appartengono al soggetto ma al sistema.
È sufficiente frequentare una palestra per accorgersi
che quello che viene praticato non è lo sport di cui
necessita il nostro corpo per liberare lenergia e magari
sciogliere le tensioni, ma piuttosto una fabbrica a tempo e
con un suo rituale ritmo attraverso la quale diamo spazio alla
cultura dominante nel nostro corpo.
E che dire dei luoghi di lavoro dove il manager di turno è
lesempio più evidente e da imitare per vedere come
si può trovare il tempo per ogni attività che
contribuisca a creare unimmagine di uomo che anche nel
momento in cui fa lamore con una donna deve dimostrare
che la velocità di esecuzione è qualificante lidea
di potenza che emana tutta lorganizzazione della sua vita.
Se ognuno di noi pensa ad un aspetto qualsiasi della sua vita
quotidiana troverà sicuramente tanti altri esempi che
dimostrano come la dimensione della velocità primeggi
e schiavizzi ogni azione della nostra giornata.
Sempre meno consumatori
Occorre invece riscoprire la lentezza tutte le volte che ciò
è possibile, esercitarsi a riscrivere la nostra vita
secondo nuovi parametri, opporsi con azioni continue alla dittatura
della velocità.
Questa scelta è in grado di rispondere ad un bisogno
profondo della nostra umanità e inoltre può essere
un utile (uno dei tanti) approccio per recuperare la dimensione
sovversiva nel nostro comportamento oltre che testimoniare la
possibilità concreta di vivere in un modo diverso.
Naturalmente non voglio con queste considerazioni fondare una
nuova teoria rivoluzionaria (di teorie ce ne sono già
troppe e tanti guasti a volte producono) ma semplicemente offrire
a chi legge una pausa di riflessione questa volta sulle modalità
dei nostri abituali comportamenti.
Nel camminare (dimensione della lentezza) possiamo trovare soddisfazione
a tutti i nostri sensi, non solo la vista ma anche lodore,
il rumore e o i suoni, ecc. e quindi essere in grado di valutare
il mondo che ci circonda da diverse prospettive. In questo modo
è più facile accorgersi concretamente di come
la società nella quale viviamo e che anche noi contribuiamo,
seppure in misura diversa, a perpetuare o a costruire, sia il
risultato dellevoluzione di macchine e teorie, di economie
e di diritti, di culture e di bisogni, che sono completamente
sfuggiti ad ogni dimensione umana e ad ogni possibile controllo.
Il nostro essere al mondo si è trasformato in un essere
per il mondo degli oggetti, il nostro naturale tempo e spazio
si è trasformato in un tempo e in uno spazio dellorganizzazione
sistemica. Il progresso ad ogni costo e in ogni modo è
il dio sacrificale al quale dobbiamo inchinarci e sottomettere
lestensione naturale e integrale delle nostre possibilità
allo sviluppo di tutte quelle cose e quelle logiche che governano
la ricerca del profitto e del dominio.
Non si tratta di abbracciare teorie primitiviste ma di riaffermare
il proprio diritto ad essere sé stessi, ad usare dei
mezzi e delle cose e a non farsi usare da essi.
Riscoprire la lentezza è come riaffermare la nostra debolezza,
la nostra più intrinseca caratteristica piuttosto che
consegnarci totalmente agli oggetti e al potere.
Il riconoscimento profondo del nostro essere è la prima
ed indispensabile condizione per intraprendere ogni cambiamento
e ri-educarsi alla lentezza un passaggio obbligato per conoscere
noi stessi. Da qui si può partire per saper stare in
modo autonomo e il più possibile libero in un mondo che
cambia velocemente le forme del dominio proprio perché
nella velocità sta la sua potenza. Nella rapidità
del cambiamento a cui siamo sottoposti quotidianamente si fonda
lideologia della violenza istituzionale che il sistema
sociale occidentale perpetua e impone nella nostra vita e nel
nostro immaginario. Se noi rallentiamo il procedere nostro individuale
e possibilmente anche quello dei nostri simili riusciremo a
liberare le energie mentali indispensabili per apprezzare la
nostra naturale lentezza e quindi la nostra più profonda
essenza.
Insomma potremo diventare sempre meno consumatori e sempre più
produttori della nostra esistenza.
Francesco Codello
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