Rivista Anarchica Online


politica internazionale

Delirio di onnipotenza
di Antonio Cardella

 

Mentre i venti di guerra soffiano sempre più forte, gli Usa sentenziano chi è amico e chi no. E per chi non è amico…

Dobbiamo attraversare tempi davvero bui se una mattina ci si sveglia soddisfatti per il successo elettorale della coalizione verde rosso-pallido nella competizione per la nuova composizione del Bundestag.
Poi ci si pensa un po’ di più e si scopre che il sollievo che si prova è tutto per la sconfitta di Stoiberg piuttosto che per la vittoria di Schroeder, e per alcuni dati obiettivi che trascendono lo specifico tedesco.
Abbiamo avuto sempre una diffidenza istintiva nei riguardi dei pifferai bardati da tirolesi, che sfilano per le strade della Baviera, delle ridenti contrade austriache e del sud-Tirolo, con fucili a tracolla e penne sul cappello. Ci è sempre tornata in mente, quando siamo stati spettatori di simili sfilate, l’immortale definizione dei boy scouts, formulata da un anonimo buontempone, al quale, però, certamente non sfuggiva il versante tragico dello spettacolo, tutto sommato grottesco, che vedeva degli innocenti bambini vestiti da cretini, guidati da un cretino vestito da bambino. Solo che questi bavaresi sono assai più pericolosi, perché tra pifferate, canti cadenzati ed ettolitri di birra, sfornano periodicamente personaggi che si trasmettono, da una generazione alle successive, concezioni della vita e della storia che poi si incarnano in personaggi come Josef Strauss e, nella stessa area geografica, come l’ineffabile Heider (avrete notato come il verde sia la nota dominante di tutti questi rigurgiti revanchisti e siano pressoché identici gli slogan lanciati nelle manifestazioni pubbliche?), per non andare molto indietro nel tempo e imbattersi in un certo Adolf Hitler. Personaggi che poi trovano insospettabili epigoni, per esempio sul terreno dell’antisemitismo e del razzismo vero e proprio come il liberale Juergen Moellemann, che, per fortuna, non ha più neppure la lingua per leccarsi le ferite, tanto cocente è stata la sconfitta sua e del suo partito.
Ma a queste considerazioni, tutto sommato epidermiche e personali, se ne aggiungono delle altre viceversa molto serie, che riguardano l’intero panorama dello scacchiere internazionale.

Il fronte franco-tedesco

La prima, la più ovvia, è che la Germania rimaneva, con la Svezia, l’unico paese con un governo di sinistra, che dichiarava di essere contro la guerra all’Iraq non per ragioni puramente tattiche ma per radicate convinzioni ideologiche. Il ministro degli esteri Fischer, che è il vero vincitore delle elezioni tedesche, ha più volte dichiarato che il ripudio della guerra come soluzione delle controversie internazionali è una costante del governo di centro-sinistra tedesco, riguadagnando così alla coalizione un consenso che i sondaggi delle settimane precedenti al voto davano in pericoloso declino.
La seconda considerazione riguarda gli equilibri politici di un’Europa che sembrava consegnata interamente alle destre e votata a politiche interne ed internazionali omologate al modello anglo-americano, sia nell’accettazione supina delle più retrive leggi del mercato, sia nella politica di potenza nei riguardi del mondo arabo, non solo, ma di tutti i paesi del terzo mondo ai quali si negavano, e si negano ancora oggi, i più elementari diritti alla sopravvivenza. Con una Germania guidata da Stoiberg, i residui di stato sociale che ancora resistono e che, nel bene e nel male, costituiscono punti di riferimento per le istanze della sinistra nei vari paesi europei, sarebbero stati spazzati via, così come non avrebbero avuto più alcun argine le spinte xenofobe presenti in buona parte del nostro Continente.
Ma la conseguenza più rilevante dell’esito delle elezioni tedesche è senza dubbio la ricostituzione del fronte franco-tedesco, non più finalizzato a visioni egemoniche continentali (del resto del tutto anacronistiche in un contesto in cui le singole potenze militari e industriali abdicano rispetto agli equilibri dei conti interni: livelli di disoccupazione e di inflazione, debiti pubblici, bilancia dei pagamenti, comparati ai parametri di stabilità definiti dall’Ue, determinano ormai la forza o la debolezza di uno stato e, sotto questo aspetto, sia la Germania che la Francia sono in difficoltà), non pretese egemoniche, dicevamo, ma un fronte comune, quello franco-tedesco, contro la politica egemonica dell’amministrazione Bush.
È, infatti, assai plausibile che la conferma di Fischer alla guida della diplomazia tedesca abbia consentito a Chirac di rendere meno flessibile la sua posizione contro la guerra e più esplicitamente intransigente il suo rapporto con la Casa Bianca.
A giudicare dai commenti che circolano, sembra che sulle posizioni franco-tedesche sia disposto a schierarsi anche Putin, solo che il personaggio è tutt’altro che cristallino e nei suoi comportamenti appare evidente la tentazione di approfittare della teoria bushiana della guerra preventiva per liquidare in casa propria la questione cecena e quella georgiana.
Certo, a rendere insostenibile la posizione della Casa Bianca, dal punto di vista del diritto internazionale, è il documento di 33 pagine che lo stesso George W. Bush ha reso pubblico il 20 settembre scorso, nel quale si esplicita una teoria dell’impero che, di fatto, pone l’America al di sopra di tutti gli organismi internazionali e le dà mano libera per intervenire militarmente in qualunque parte del mondo nel quale, a suo insindacabile giudizio, si nasconda un pericolo potenziale per la sua supremazia.
È un documento, a mio giudizio delirante, che sino ad oggi nessun foglio italiano ha pubblicato nella sua interezza e che è apparso soltanto per pochi giorni sul sito internet di Le Monde e del New York Times. Il nucleo centrale del documento non lascia dubbi alla pretesa dell’attuale amministrazione americana di imporre al mondo intero il proprio dominio: si parte dalla premessa che, per la prima volta nella storia del mondo, una sola nazione, gli Usa, appunto, possiede una potenza economica e militare che non ha eguali ed è quindi legittimata a rendersi garante dell’ordine mondiale.
Questo nuovo statuto dei rapporti di forza negli equilibri internazionali ha come conseguenza immediata che la superpotenza egemone ha per definizione la facoltà di intervenire in qualsiasi parte del pianeta si profili la minaccia “potenziale” di uno o più stati che insidino tale supremazia o che ospitino fazioni o gruppi di individui che abbiano lo stesso obiettivo. Naturalmente il delirio di onnipotenza non arriva a tanto da emarginare definitivamente l’Onu e gli altri organismi internazionali, di cui si auspica la collateralità, ma si ribadisce con perentorietà che se tali organismi non dovessero allinearsi, e in fretta, alle decisioni prese dalla superpotenza, questa si riterrà legittimata ad agire da sola e senza la preventiva consultazione con chicchessia.
Non credo sia necessario sottolineare al lettore intelligente la terroristica conseguenzialità di quel termine “potenziale”, collocato nel punto giusto del discorso e con tale evidenza da non lasciare dubbi: in barba a qualsiasi norma di diritto internazionale, l’America decide di scegliersi di volta in volta gli amici e i nemici. I primi si definiranno alleati e saranno chiamati a partecipare attivamente alle campagne di “polizia internazionale”, i secondi saranno definiti “stati canaglia” e subiranno la giusta punizione.

“Teologia della repressione”

Ma la conseguenza più aberrante di una simile rivoluzione del diritto internazionale è che non vi saranno più guerre tra avversari, che, sia pure in conflitto, godranno di pari statuto giuridico, ma vi saranno, da una parte, i detentori di tutte le ragioni e di tutti i diritti e, dall’altra, i terroristi, che non avranno alcuna tutela e che saranno in totale balia dei loro sopraffattori, così come è già avvenuto per i talebani catturati in Afganistan, arbitrariamente detenuti a Guantanamo dagli americani, senza neppure la prospettiva di comparire dinanzi ad un tribunale, di qualsiasi natura, ma pubblico e al servizio di una struttura giuridica che degli imputati valuti i torti e le ragioni.
Qualcuno ha sostenuto che una simile impostazione del diritto internazionale potrebbe essere proponibile se a esserne investita fosse l’Onu, sia pure riformata nella sua attuale struttura che di paritario non ha proprio nulla.
Mi permetto di obiettare che una “teologia della repressione” di simile drasticità non fu ipotizzata neppure nel periodo, non certo esaltante ai fini dell’eguaglianza dei popoli, dell’impero romano.
Se anche l’Onu fosse riformata in senso più democratico, se per ipotesi si abolisse il Consiglio di sicurezza, che, in seno all’Onu è l’organo che riunisce i popoli più potenti della terra e che dell’Onu in buona sostanza definisce la politica, anche se tutto ciò avvenisse, gli interessi preminenti dell’occidente, la scarsa possibilità dei popoli del terzo e quarto mondo di far valere una propria capacità contrattuale, finirebbero con il riprodurre quella stessa logica del dominio che consente oggi a Bush di illustrare la sua strategia per un ordine planetario nuovo, senza sollevare neppure una parvenza di indignazione da parte delle istituzioni statali di un occidente che si definisce civile e che vanta tradizioni di virtuosa legalità.
L’appendice italiana di un tale scenario, per quanto risibile, non è meno pericolosa: stabilita in maniera tanto manichea la virtuosità degli amici e la perversità dei nemici, sembra stiano per iniziare le prove tecniche per la compilazione di liste di proscrizione da tenere a portata di mano caso mai giungesse l’ora della definitiva resa dei conti. Sono ancora segnali deboli, discreti, ma che non lasciano presagire nulla di buono.
Si ritorna ad occuparsi dei fatti di Genova del luglio 2001. Lo fanno gli organi inquirenti, i carabinieri dei Ros e la polizia di stato. Non riusciamo ad immaginare cosa possa esserci di nuovo che non sia stato detto o indagato e, quindi, tanto rinnovato interesse ha il sapore di un tentativo di rivalsa che francamente non ci piace.
Vorremmo proprio sbagliarci.

Antonio Cardella