Jan
Garbarek Quartet
26/6/2003 Teatro Romano, Verona
Megarassegna comunale in un posto storico e bellissimo in
riva allAdige: un meccanismo culturale ben oliato che
si ripete ovunque, indipendentemente dalla posizione geografica
e dallorientamento delle amministrazioni locali. Serata
sugg/estiva, calda ma non troppo. Lampi in lontananza, nuvole,
scirocco. Ma non piove.
Tutto esaurito, è chiaro. Riesco a beccare due biglietti
allultimo momento, posti numerati in platea, tramite
un amico. Si entra, nessuna ressa, tutti educati in fila.
Sorrisi di circostanza. Unocchiata sul palco: amplificazione
di qualità stratosferica, attrezzature plurimilionarie
e un pianoforte a coda da concerto. Tranquillizzante? Inquietante,
direi.
Una hostess in divisa mi accompagna al posto. Mi guardo intorno
e improvvisamente mi sento a disagio. È un ambiente
a cui non sono più di tanto abituato: generalmente
frequento le zone basse e le periferie, i cattivi e i precari.
Qui pullulano bancari in cravatta e camicia mezzemaniche con
dotazione di tramezzino e mezza minerale al posto della cena,
assessori in completo di lino spiegazzato ad arte, signore
firmate ed accessoriate che sfoggiano abbronzature da dépliant
di raggi UVA. Età media 45-55 (ormai anagraficamente
la mia, sospiro).
Leggerissimo ritardo, ed eccoli: in nero informale i maschietti,
la signora in un vestitino semplice rossomarrone, i musicisti
entrano accolti da un applauso energico e da urli tipo «bravi»
leggermente esagerati (in fin dei conti non hanno ancora fatto
un cazzo). I quattro salutano con deferenza e si appostano,
senza sorridere e soprattutto senza guardarsi. Non si guarderanno
mai per tutta la durata del concerto.
Dai che iniziano. I pochi ritardatari si affrettano. Rainer
Bruninghaus usa praticamente sempre un synth polifonico Kurzweill
dai suoni stupendi ed inauditi (neanche nei cd così
potente ed evocativo), che evocano tempesta lontana oppure
nebbia fredda oppure una tristezza sconfinata. Il pianoforte
gigantesco che gli sta dietro lo sfiora solo per un minuto
o due, e a metà concerto per un assolo strappabudella
(stava già lì per gli altri concerti, o è
stato un capriccio?).
Eberhard Weber suona come non mai: bassi da capogiro indescrivibili
a parole, bisogna esserci, e ascoltare con lo stomaco oltre
che con tutte due le orecchie e quello che ci sta in
mezzo. Marylin Mazur saltella come un passero dietro trincee
di campanellini, offrirà un tocco dolce e cristallino
e preciso per tutta la serata (pesta leggera sui cymbals come
Tony Oxley, incredibile). Jan Garbarek sembra che sorrida
(non è vero) e resta un passo indietro rispetto agli
altri sul filo del palco, quasi a suggerire che lui cè
sì e che le musiche sono sue, ma che quello di stasera
sarà lavoro di gruppo.
Si parte con «Rites». Silenzio obbligatorio come
in chiesa. Il norvegese dà al suo sax soprano storto
una voce di gabbiano, che assomiglia solo a quella che cè
dentro i dischi. Questa è più carica, più
colorata, più luminosa, complice il riverbero naturale
dellarena. E lui soffia e si contorce, e trasforma il
suono e lo plasma e lallunga sino a trasformarlo nel
verso terribile di un enorme dragone dapocalisse che
ti morde lanima.
A otto minuti esatti dallinizio il primo trillo di telefonino,
giusto due file davanti a me. Basta questo a scatenare le
chiacchiere a intermittenza dei miei vicini (hai visto quello,
e guarda un po chi cè, ma guarda come sè
vestita...) e i coccodè. Partono e arrivano i messaggini,
vibrano i vibracall dei più educati.
I ma-dove-sei-io-sto-a-un-concerto serpeggiano a mezzavoce
assieme al profumo della signora ingioiellata e firmatissima
seduta giusto davanti a me che commenta con lamica,
e che mi guarda così male perché mi permetto
di chiedere rispetto. Pubblico di merda. Spero che piova adesso
sui vostri telefonini e sul lavoro delle vostre parrucchiere.
I quattro lì sul palco sono bravissimi, inarrivabili...
ma glaciali. Sospesi sempre più lontani in mezzo alla
scenografia semplice/povera ma bella (tre vele che cambiano
colore a seconda delle gelatine dei riflettori). Il «Molde
canticle» si fonde a «The creek», a «I
took up the runes» e alla «Brother Wind march»
in un enorme magma polare preso dalla produzione degli ultimi
13 anni.
Come prevedibile, unesibizione complessivamente interessante
ma solo a tratti emozionante: nessuna concessione a unimprovvisazione,
a un guizzo creativo, a una sorpresa. Un surgelato, come dire
con una punta di delusione. Solo la Mazur, raccontabile (come
gli altri, sia chiaro) solo a superlativi e a punti esclamativi,
in una parentesi troppo breve sè messa a dialogare
con un gatto innamorato. Ma Jan Garbarek a un certo punto
guarda lorologio (gran brutto gesto, va detto), e decreta
la fine dellassolo di percussioni e anche del concerto.
Applausi. Un encore frettoloso. Applausi. Fine sul serio.
Ci si accalca alluscita. Tutti allenoteca, o a
prendere qualcosina in giardino da Mariuccia e Pierferdi,
o in gelateria. Lampi in lontananza, nuvole, scirocco. Ma
non piove.
Tornando a casa, in autostrada ripenso confuso a tutti i soldi
che ho dato a Garbarek e Manfred Eicher da «Sart»
a stasera, coi quali (esagero) magari avrei potuto sfamare
un campo profughi.
Marco Pandin
Musica
a cui volere bene
Una
band vista dal vivo, Three In One Gentleman Suit,
mi ha voluto recentemente omaggiare del loro primo CD
«Battlefields in autumn scenario».
I tre sono ottimi interpreti di quel punk costruito
su tempi medi, con un interplay tra chitarra e ritmica
delicato o iperdistorto e fragoroso. Dal vivo silenzi
e pieni, maestosi crescendi e ricami creavano anche
un impatto drammatico un po perso sul CD.
Al di là dellinglese un po scolastico,
un gruppo da seguire (contatti: three1gs@hotmail.com).
Fragil Vida, «Musicanti di cristallo»
è il titolo dun concerto teatrale proposto
da musicisti del Modenese tra fisarmoniche, contrabbassi,
chitarre e stili ad ampio raggio (forse troppo). I recitati
e le liriche con piglio Capossela/Conte/Tom Waits rimandano
a una visualità che il CD ovviamente non restituisce.
Cercateli dal vivo (contatti: www.fragilvida.com).
Andrea Pomini è un nome notissimo della
scena punk/indipendenza musicale da noi e a livello
internazionale. Dai Fichissimi agli attuali Disco Drive,
Andrea ha sempre creduto e lavorato in questarea
con convinzione e spirito collaborativo. Gestisce la
propria etichetta, Loveboat, della quale mi ha passato
qualche lavoro recente.
Diane Darby è una autrice americana che
propone delicate e intime canzoni sussurrate tra chitarre,
celli e qualche percussione. Siamo nel perimetro di
Kendra Smith (Dream Syndacate) e Beth Orton. Canzoni
sospese e fragili, dal sapore notturno ma pur sempre
rock!
Se vi piace la rurale Gillian Welch o la campfire music
di Michelle Shockhead questo bel CD fa per voi (contatti:
www.love-boat.org).
I Giardini di Mirò sono una band ormai
affermata nel panorama indipendente. Questo loro album
«Punk
not diet» va benissimo per questa
rubrica, Musica a cui voler bene: infatti mi
garba assai. Rock minimale, costruito su intrecci di
tastiere e chitarre, lingua inglese come trama aggiuntiva,
loops elettronici ora gentili ora a stratificarsi come
nuvole di De Chirico allorizzonte. Gatto Ciliegia,
Rothko, Godspeed You Black Emperor, Mogwai per far dei
nomi (contatti: www.homesleep.it).
Carver Trio «Broken sleep», primo
CD della band guidata da Luke Goss, fisarmonicista e
session man noto in UK nel circuito folk e jazz. Ottimo
e coinvolgente lavoro tra Dino Saluzzi e Charlie Haden
comprende stelle musicali di prima grandezza, Dylan
Fowler, Oli Wilson-Dickson e Nathan Thomson, che potete
trovare anche sul mio ultimo CD
(contatti: luke.goss@virgin.net).
Puntata tutta inglese (o quasi) di questa musica che,
against the odds, continua a farsi strada dal cuore
di qualcuno verso lanima di qualcun altro, me
ad esempio!
Nessun gruppo e etichetta autogestita più di
Stanton e Jonson Family meritano di essere rispettati
e amati: al concerto londinese (11 gruppi, 6 ore di
musica!) di presentazione del CD «The twominutemen»
tenutosi in luglio, gli Stanton hanno suonato
per lultima volta di fronte a 200 persone tristi
e felici allo stesso tempo, come si conviene ai sentimenti
più puri, più immediati. Un autentico
funerale blues.
Jonson Family, emanazione discografica del gruppo
Stanton, continuerà invece a esistere e a rappresentare
un tassello importante per lattitudine indipendente
britannica e non solo. Infatti «The twominutesmen»,
CD che raccoglie 39 bands già pubblicate su vinile,
ognuna per 2 minuti 2 di musica, vede allinterno
facce sonore dal nostro cortile: Lo-Fi Sucks, Perturbazione,
Gatto Ciliegia e chi vi scrive. Senza temere, puntate
il topo su www.jonsonfamily.com.
Dal vivo ho visto alcune bands, incluse nella compilation,
meravigliose: da Billy Mahonie, Cove, Montana Pete a
Charlottefield e Joeyfat. Ogni band ha plastica registrata
allattivo, cercatela.
Di Joeyfat vorrei andare più nel dettaglio
però: pubblicati da Unlabel (contatti: www.unlabel.net),
questo gruppo riformatosi dopo un paio danni di
silenzio, mi ha veramente colpito. Un cantante/attore
che recita/canta lunghissimi racconti in precisa cadenza
con un punk «cerebrale», vedi Slint, vedi
Fugazi. Ma, proprio per questo teatrale intersecarsi
di parole, sguardi, gesti e riff, mi ha riportato alle
stagioni più dada (e, quindi, più felici)
del punk anni 80/90, Pere Ubu, Gang of Four, Fall, Raincoats,
Detriti e Panico. Fate un giro in rete e cercate Unlabel
e, visto che ci siete, letichetta sorella di questultima
e Jonson Family, Victory Garden.
Se avete la possibilità di organizzare date di
gruppi... lontani, tutti quelli nominati in queste righe
vi faranno tornare quel profano amore per il Punk, nel
senso meno musicale del termine.
Concludo con una breve citazione torinese, per un demo
intrigante: Dragster Baby grezzo e potente indie
rock da mixare con Hole, Tsunami e Pixies. Il titolo
«Lullaby for an Anarchist» vale una corsa
del topo su dragsterbaby@libero.it.
Alla prossima.
Stefano Giaccone
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