Non riesco a immaginare, al momento
in cui scrivo, se quando questo articolo sarà pubblicato
qualcuno si ricorderà ancora della polemica che ha scosso
il paese a fine ottobre primi novembre sul problema dei crocifissi
nelle scuole pubbliche e altrove. Si trattava, per una volta,
di una questione importante e significativa, ma qui in Italia
abbiamo una certa tendenza a dimenticare tutto nell’arco
di un paio di settimane, per cui proprio non so. E poi se ne
sono sentite davvero di ogni, e un poco di tregua, in questi
casi, non fa male a nessuno.
Qualcosina da dire, comunque, mi sembra che ancora ci sia. In
fondo, soltanto in questo paese poteva capitare che una decisione
tanto ovvia e ragionevole come quella di far togliere da un
luogo pubblico un simbolo religioso che, per una ragione o per
l’altra, poteva risultare sgradito ad alcuni frequentatori
istituzionali, desse la stura al diluvio di truculente castronerie
da cui siamo stati inondati. D’altronde è ben noto
come nel mondo ristretto dei politici e degli intellettuali
italiani (o sedicenti tali) abbondino i servi sciocchi, disposti
a ogni acrobazia concettuale pur di rendersi grati a chi sta
in alto, né sia pensabile che chi dispone di un’audience
qualsiasi decida, in una occasione in cui potrebbe benissimo
farlo, di tacere. Per cui ci siamo dovuti sorbire le penose
contorsioni verbali, per fare due nomi quasi a caso, di un Giulio
Anselmi e di una Livia Turco, che ci hanno spiegato, rispettivamente
su «Repubblica» e su «l’Unità»
(entrambi il 27 ottobre), come l’invito a togliere il crocifisso
altro non fosse che un incitamento all’intolleranza islamica,
come se quella cristiana fosse, per qualche motivo, meno nociva,
e abbiamo recepito, sgomenti ma non del tutto impreparati, le
esternazioni del presidente Ciampi, che, gettando al vento la
classica occasione di tenere la bocca chiusa, ha voluto spiegarci
che il crocefisso andava considerato eredità comune di
tutto il popolo italiano. E lasciamo pure perdere gli ideologi
di professione, come il noto Massimo Cacciari, che, in un’intervista
non saprei dirvi a chi (l’ho soltanto intrasentita in una
rassegna stampa radiofonica), ha dichiarato – se non ho
capito male – che il crocifisso in sé esprime tanti
di quei valori positivi che sarebbe stolto non esporlo dovunque,
salvo precisare che no, a casa sua lui personalmente non lo
esibisce, a conferma del fatto che l’antica tendenza dei
filosofi a prescrivere al prossimo comportamenti e credenze
da cui, personalmente, si considerano esenti alligna oggi con
la stessa virulenza dei tempi di Platone. Mai come in questa
occasione i pochi interventi sensati – citerei, con qualche
riserva, quelli di Umberto Eco e di don Mazzi e, soprattutto,
l’articolo di Alessandro Portelli sul «manifesto»
di giovedì 30 ottobre – hanno dato l’impressione
di essere le classiche voci di chi predica nel deserto.

«Simbolo dell’identità nazionale»?
Avrete notato tutti – suppongo – che la mossa vincente
nella polemica è stata quella, inaugurata, salvo errore,
dal cardinale Ruini, e fatta rapidamente propria dai vari zelatori
«laici», da Ciampi in giù: quella di svalutare,
in via preliminare, il valore del crocifisso, retrocedendolo,
da venerabile simbolo religioso, a manifestazione di un’identità
puramente culturale, «espressione», come ha detto
l’eminente porporato, «dell’anima profonda del
paese e simbolo dell’identità nazionale».
Si tratta di una derivazione, abbastanza meccanica, della nota
argomentazione crociata sul «perché non possiamo
dirci cristiani», ma è inutile far notare, in questa
sede, la spessa patina di ipocrisia clericale che avvolge simili
operazioni, nel senso che quella di identificare l’anima
profonda del paese con il suo retaggio religioso è una
mossa ovviamente meno pacifica, di quanto costoro non vogliano
far credere. L’occidente, e con esso l’Italia, ha
importato e sviluppato il cristianesimo, segnandone a fondo
la propria cultura, ma ha anche dovuto inventare, per non naufragare
nella tempesta delle guerre di religione, la libertà
di pensiero e lo stato laico, ed è a questa eredità,
sul piano istituzionale, che resta legato oggi. La legislazione
francese sul chador è senza dubbio un po’ formalistica,
e offre il destro a chi lo desideri di fare un bel po’
di casino ideologico a buon mercato, ma rappresenta probabilmente
l’unico modello normativo cui sia possibile ricorrere oggi
per evitare i rischi di un conflitto che lascerebbe dietro di
sé soltanto rovine.
È vero, d’altronde, che i simboli, tutti i simboli,
anche i più nobili e venerati, sono caratterizzati da
una specie di plurivalenza, che non sono mai riducibili all’uso
esclusivo di chicchessia. Anche nel crocifisso chiunque può
vedere quello che vuole vederci: l’emblema di una religione
che vive, da un millennio e mezzo abbondante, in stretta simbiosi
con il potere, e non si è mai distinta per una particolare
tolleranza verso le credenze e le usanze altrui, o la raffigurazione
(terrificante, in quel senso) di una vittima che agonizza inchiodata
a uno dei più spaventevoli attrezzi di morte che la perversione
umana sia mai riuscita a escogitare. E quindi può rappresentare,
figuriamoci, anche l’eredità storica di una nazione,
in un senso puramente laico: basta decidere di volerlo intendere
in quel modo. Ma questo, con buona pace del cardinale Ruini
e del presidente Ciampi, non cambia affatto le carte in tavola.
Intanto perché tutto si tiene e nessuno può prescindere,
nell’apprestare i propri apparati simbolici, di quello
che le loro icone rappresentano per gli altri, almeno se con
quegli altri vuole in qualche modo comunicare. E poi perché
l’identità nazionale, vivaddio, non è un
qualcosa di dato una volta per tutte, qualcosa cui abbiamo semplicemente
l’obbligo di adeguarci, pena l’espulsione dal corpo
vivo del paese e l’accompagnamento coatto fuori dai suoi
confini. Come tutti i valori in una società democratica
è anch’essa un quid che siamo chiamati a
costruire insieme, immigrati e nativi, cittadini di vecchia
e di nuova data, cristiani, musulmani e senza dio, mettendoci
quel poco di buona volontà che è sempre dovere
di tutti mettere in campo.
Privilegiare la libertà dell’individuo
Insomma, ai nostri confratelli di altra origine etnica e di
diversa cultura (se pure vogliamo ostinarci a dare importanza
alle minime sfumature che distinguono le culture umane in questi
tempi di globalizzazione) non possiamo proporre soltanto di
adeguarsi o di andarsene: l’alternativa, per chi sia appena
un po’ attento ai valori della democrazia e della convivenza,
è altrettanto improponibile sul piano civile di quanto
non lo sia su quello religioso. Anche sul crocefisso, come sul
chador, sull’infibulazione, sui tabù alimentari
e su qualsiasi altra prescrizione cultuale che per qualche motivo
desti in qualcuno delle perplessità, nulla ci vieta,
anzi, tutto ci impone di discutere a oltranza, senza offendere
nessuno, ma tenendo presente il principio che la legislazione
riguarda gli individui, non i gruppi predefiniti, e che la libertà
dell’individuo va privilegiata, per forza, anche rispetto
a quella del gruppo di cui fa (o dovrebbe far) parte. Il fatto
di avere al governo, ahimè, un ministro che a una sentenza
sul cui merito dissente risponde disponendo un’ispezione
amministrativa al tribunale che l’ha emanata è una
di quelle disgrazie che ci unificano, in un certo senso, alle
popolazioni islamiche vessate dalla sharia e dalle sue
applicazioni temporali. E rispondere, come è stato puntualmente
fatto, che Adel Smith è un personaggio ambiguo, sgradevole
e poco rappresentativo non vuol dire proprio una beata fava,
perché non è di un ideologo in carriera che si
sta discutendo, ma del futuro di un’Europa che non potrà
che essere multiculturale, e quindi tollerante, nel senso di
Locke e Voltaire.
Nella prospettiva contraria, la logica che, implicitamente,
ci si propone è quella per cui, anche sul piano dei simboli,
tutto ciò che non è obbligatorio va considerato
vietato. Che è una logica cui, senza eccezione, potrebbero
aderire tutti gli uomini di potere, cristiani, musulmani, buddisti,
liberi pensatori o presunti tali. Ma per mettere d’accordo
tra loro i detentori del potere, in fondo, non servono discorsi
tanto complicati. In un modo o nell’altro, sappiamo già
che lo sono sempre. Di solito sulla nostra pelle.
Carlo Oliva
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