Max Nettlau, un giovane viennese
che veniva da studi di linguistica e che si sarebbe dedicato
a scrivere la storia dellanarchismo, incontrò per
la prima volta Errico Malatesta a Londra verso la fine del 1889.
Recandosi in una «vecchia casa quasi nuda» dove
Malatesta si era sistemato con altri compagni, Nettlau voleva
conoscere luomo che ai suoi occhi rappresentava «la
più venerabile antichità» nel movimento
anarchico. Rimase colpito da «un armadio pieno di carte,
manoscritte o stampate». Questo lo rafforzò nellidea
che Malatesta avrebbe dovuto raccogliere i suoi ricordi (1).
Allepoca Malatesta aveva trentacinque anni, Nettlau ventiquattro.
Malatesta aveva già la fama di vecchio rivoluzionario.
Era appena arrivato dal Sud America. Poco più che ragazzo,
aveva incontrato i primi internazionalisti nei congressi di
fondazione dellanarchismo; aveva preso parte nel Matese
a un moto insurrezionale il cui ricordo sfumava nelle gesta
di Carlo Pisacane; era vissuto in esilio, viaggiando per lEgitto,
la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Spagna, la Romania, il
Sud America e lInghilterra; aveva subito condanne e conosciuto
il carcere; aveva dato vita e collaborato a giornali e associazioni
operaie in molti paesi; aveva fatto tutti i mestieri per vivere,
dal meccanico allelettricista allinsegnante di italiano,
e perfino il cercatore doro in Patagonia; aveva pubblicato
articoli e opuscoli di propaganda, discutendo con uomini come
Carlo Cafiero, Andrea Costa, Amilcare Cipriani e Pëtr Kropotkin.
Molti chiesero a Malatesta di scrivere se non una autobiografia,
almeno i ricordi «dei suoi primi anni di lotte»,
come insisteva Nettlau, soprattutto dopo che un incendio aveva
distrutto quellarmadio di carte della casa di Londra (2).
Luigi Fabbri, di venticinque anni più giovane di Malatesta,
era presente a uno degli incontri in cui Nettlau tornò
sulla sua domanda, «nellinteresse della storia contemporanea».
Malatesta, che aveva più di cinquantanni, «rispose
che non aveva tempo e che importava assai più far propaganda
e lavorare per la rivoluzione». Fabbri condivideva il
punto di vista di Nettlau: con i suoi ricordi, Malatesta avrebbe
potuto contribuire«alla propaganda ed alla rivoluzione»,
«senza contare il servizio che renderebbe alla coltura
storica in generale, poiché le sue memorie si riferirebbero
agli avvenimenti più vasti e interessanti della storia
di mezzo secolo» (3).
Qualche decennio dopo Gaetano Salvemini avrebbe usato argomenti
simili con Armando Borghi. «Le tue memorie gli
diceva avrebbero una non comune importanza come testimonianza
storica». Borghi rispondeva come Malatesta:«Che
cosa vuoi che importi a me della storia? Bisogna badare al futuro,
e non al passato». Salvemini ribatteva che «il futuro
è figlio del passato», e che «ignorare il
passato è ricominciare sempre da capo». Borghi
si schermiva: «A ognuno il suo mestiere. La storia fatela
voi altri». Ma «se gli attori non ci offriranno
le loro testimonianze» replicava Salvemini
gli storici non potranno scrivere; e alla fine ricorreva allargomento
più convincente, almeno con Borghi: «Se gli anarchici
non se ne curano, la storia la faranno i loro nemici»
(4).
Non erano solo gli amici più giovani come Nettlau,
Fabbri, Borghi e Berneri a chiedere a Malatesta di scrivere
i propri ricordi (5). Un giornale inglese
gli offrì di che vivere «vivere da signore»,
specificò Fabbri se avesse accettato di pubblicare
le proprie memorie, ma lui rifiutò. Come concludeva sconsolato
Fabbri, Malatesta «non parla mai di sé» (6).
Il gusto per la battuta
Kropotkin pubblicò le sue Memorie di un rivoluzionario
a Londra nel 1899. Ispirandosi allautobiografia scritta
dallamico, Malatesta avrebbe potuto raccontare una vita
altrettanto e forse ancor più avventurosa. Avrebbe potuto
raccontare del paese della propria infanzia sotto il regno dei
Borboni, di vecchi cospiratori garibaldini che vivevano poveramente
di castagne lesse, di bande armate con la bandiera nera e rossa
che si scontravano a colpi di fucile con i regi carabinieri,
di passaggi in incognito a piedi o in diligenza attraverso passi
alpini coperti di neve, di lunghi viaggi oltre oceano, di fughe
da carceri e da isole di domicilio coatto, di passaporti falsi,
di tentativi di forzare le linee dellesercito britannico
in Egitto per prendere contatti con la rivolta araba, di autodifese
ai processi, di peregrinazioni nelle pampas argentine e della
corsa alloro in Patagonia, di lavori come elettricista
e meccanico, di comizi e di manifestazioni, di giornali clandestini,
di conferenze e di contraddittori in pubblico, di scioperi e
di moti insurrezionali, di soldati a fianco dei rivoltosi, di
esuli russi, di esplosivi, di attentati ai re (7).
Non lo faceva spesso, ma quando si lasciava andare al racconto,
Malatesta rivelava gusto per laneddoto e per la battuta.
Forse aveva imparato dal vecchio Giuseppe Fanelli, uno dei promotori
dellInternazionale, in seguito deputato nel parlamento
del Regno dItalia, il quale scrive Malatesta
«era molto riservato e modesto», a meno che non
vi fosse nel racconto «qualche nota comica». Malatesta
ricordava di quando, da giovane, frequentava Fanelli. Allepoca
abitava presso una zia, e si chiudeva in camera con quelluomo
molto più vecchio di lui. La zia, che sospettava qualcosa
di poco chiaro, una volta chiamò il nipote in disparte
per fargli «un predicozzo», e, piangendo, gli chiese:
«Ma insomma, si può sapere chi è quel signor
Fanelli che viene a parlarti in segreto?». Per rassicurarla,
il nipote le disse che Fanelli era un deputato. Improvvisamente
la zia diventò severa:«Come? un deputato! E tu
non ti vergogni? Tuo padre era un galantuomo e tu tratti con
quella gente, senza pensare che così disonori la famiglia!».
Max Nettlau assicura che Malatesta parlava «con piacevole
umorismo» del viaggio fatto a ventanni in Spagna.
I compagni di Cadice avevano deciso di liberare un detenuto
corso, di nome Alerini. Malatesta andò dal direttore
del carcere e con poche monete doro lo convinse a lasciar
uscire il prigioniero per un giro in città. Fu noleggiata
una barca. Le guardie furono convinte ad allontanarsi e si ubriacarono.
Ma allultimo momento Alerini non volle lasciare la cella,
perciò fu necessario riportare in carcere i secondini
ubriachi. Il giorno dopo Alerini sembrava convinto. Fu somministrata
al guardiano «una pozione sonnifera». Tutto era
pronto, ma ancora una volta Alerini non se la sentì,
forse perché aveva una donna a Cadice, o forse perché
non voleva avere più niente a che fare con gli Internazionalisti
(8).
Cera un altro episodio che Malatesta raccontava volentieri:
«uno dei pochi scrive Armando Borghi che
sembrava lo tentasse a sbottonarsi». Riguardava la sua
partecipazione, a diciannove anni, al convegno di Saint-Imier,
in Svizzera, dove avrebbe realizzato il sogno di incontrare
Bakunin. Partì assieme a Carlo Cafiero. Il San Gottardo
era coperto di neve. A Zurigo giunse con tosse e febbre, e fu
ospitato in casa di Bakunin. Questi, un omone grande e grosso,
lo mise a letto, lo coprì con quante coperte e cappotti
poté, gli diede del tè bollente e gli disse di
dormire. Più tardi, da sotto le coperte, Malatesta sentì
Bakunin dire malinconicamente: «Peccato che sia così
ammalato; lo perderemo presto, non ne ha per sei mesi».
«E poi?» chiedeva Borghi. «E poi il giorno
dopo stavo benone. Ci recammo a Saint-Imier».
Borghi, che malgrado avesse trentanni di meno laveva
conosciuto bene, rivedeva Malatesta raccontare «divertendosi
un mondo», con «quel suo sorriso di tutto il volto,
tutto mimica e tanto comunicativo», la mano sinistra con
«limmancabile pipetta», la mano destra in
tasca, «la barbetta grigia e forte in avanti», il
viso magro «dal color olivastro talvolta di malato»,«gli
occhi infossati quasi e scintillanti nel cavo nero» (9).
Borghi credeva di capire però il motivo di quei commenti
umoristici: la battuta chiudeva il racconto, scoraggiava ulteriori
domande e «disarmava di botto» linterlocutore
(10).
Malatesta usava la battuta e il commento umoristico per non
dare troppa importanza alla sua persona e al suo ruolo. Non
lo avrebbe mai fatto per parlare dei movimenti collettivi, che
prendeva sul serio e in cui si immedesimava. Ricorse allironia
solo per raccontare, a distanza di tempo, le insurrezioni armate
cui aveva partecipato da giovanissimo.
Quando scrisse il resoconto della spedizione nel Matese, in
carcere subito dopo i fatti, Malatesta lo fece usando i toni
dellepica. La banda, attorniata dalla simpatia dei contadini,
era stata sconfitta dalla furia degli elementi naturali, dalla
forza preponderante della truppa, forse dal tradimento. Circondati,
avevano camminato sotto una pioggia battente cercando di risalire
il versante del massiccio coperto di neve; i più deboli
cominciarono a restare indietro; sempre inseguiti dai soldati,
avevano continuato la marcia tra i monti, «e pioveva sempre»;
poi arrivò la nebbia; si ripararono in una masseria,
grondando acqua da ogni parte; ecco apparire la truppa, forse
guidata da qualcuno del luogo, che li fece prigionieri senza
che potessero sparare un colpo, perché i fucili, bagnati,
«non avrebbero preso fuoco in una fornace». Condotti
in carcere, davanti al giudice istruttore dichiararono di aver
preso le armi per fare la rivoluzione.
Con il passare del tempo, Malatesta raccontò episodi
come questi con profonda simpatia verso gli ideali che li avevano
animati, ma allo stesso tempo con distacco. Impegnato a sostenere
e a promuovere in ogni ambito sociale forme di lotta e di organizzazione
non autoritaria operaia, sindacale e di classe ,
aveva smesso di credere che bande armate che si davano alla
campagna per accendere la scintilla della rivoluzione fossero
un buon metodo di lotta. Anni dopo, rievocando il fallimento
della spedizione tentata nelle Puglie allepoca
aveva ventun anni , ricordava che sul luogo dellappuntamento
a Castel del Monte, invece delle centinaia di persone che avevano
giurato di esserci, si erano trovati in sei. Aperta la cassa
delle armi, trovarono vecchi e sorpassati fucili ad avancarica;
armatisi, dichiararono guerra allesercito italiano. «Battiamo
la campagna per diversi giorni raccontava , cercando
di trascinare i contadini, ma senza trovare eco». Dopo
tre giorni si accorsero di essere circondati dalla truppa. «Non
cè altro da fare; si seppelliscono i fucili e si
decide di disperderci; io mi nascondo in un carro di fieno e
così riesco ad uscire dalla zona pericolosa».
Un uomo dazione
Malatesta riteneva importante che la storia del movimento anarchico
fosse scritta da qualcuno che ne facesse parte. Per questo motivo
mise in contatto Max Nettlau con compagni che avessero documenti
scritti o ricordi personali, sia in Italia che in Spagna (11).
A un compagno che gli aveva raccontato per lettera dei particolari
sulla parte avuta da Bakunin nei moti del 1874, rispondeva incoraggiandolo
a continuare, perché così «noi rendiamo
omaggio e giustizia ad un amico carissimo, e facciamo opera
di propaganda» (12). Il ricordo
era legato alla discussione politica. Quando accettava di raccontare
un episodio della propria vita, Malatesta lo faceva essenzialmente
per discutere idee e progetti di azione. Ricordava come «una
delle più belle memorie della mia vita», la campagna
condotta «con il mio vecchio amico avvocato Merlino»
contro le «idee aberranti» del «movimento
terroristico»: «e con discorsi, conferenze e stampati
e mettendoci in urto con tanta gente, ed esponendoci anche a
pericoli personali, riuscimmo a stroncare quella tendenza».
Un suo articolo per Umanità Nova del 1922
sembrava promettere un ricordo autobiografico: «Ricorderemo
un fatto di cui qualcuno di noi fu testimone e parte. Era il
Primo maggio del 1890. In Inghilterra la manifestazione per
le otto ore prese proporzioni grandiose. In tutte le grandi
città vi furono comizi e cortei di centinaia di migliaia
di operai. NellHide Park di Londra si riunirono più
di un milione di persone, piene di entusiasmo, pronte a tutto,
ma purtroppo, al seguito dei capi». Ma a questo punto
Malatesta scompare dalla scena. Il seguito del brano infatti
contrappone due proposte politiche: quella degli anarchici («Volete
le otto ore di lavoro? domani dopo aver lavorato otto ore, posate
gli utensili e rifiutatevi a continuare e sabato esigete
il salario intero») e quella dei socialisti e dei dirigenti
dei sindacati operai tra i quali John Burns («votare pei
candidati socialisti, i quali, diventati deputati, avrebbero
proposto al Parlamento la legge delle otto ore»). Il ricordo
autobiografico era un pretesto per parlare di politica, in questo
caso per ribadire i vantaggi dellazione diretta rispetto
alle vie parlamentari: «La giornata legale di otto ore,
divenne il motto dordine dei lavoratori inglesi, ed i
padroni poterono continuare a farli lavorare nove ore o dieci.
[
] Giovanni Burns divenne deputato e poi ministro, ma
delle otto ore non si parlò più. Quando impareranno
i lavoratori a fare da loro, ed a comprendere che dando il potere
sia pure ai loro migliori ne fanno fatalmente dei nemici!».
Vicino ai sessantanni Malatesta sembrò quasi cedere
alle richieste di Nettlau. Cominciò a pensare a un libro
di Ricordi, ma ci avrebbe messo mano solo dopo aver scritto
un libro dal titolo La Rivoluzione Sociale. Pensieri di un
anarchico, che immaginava gli avrebbe richiesto molto tempo.
«Se questo lavoro avrà un qualche valore
scrisse a Nettlau , il merito sarà tutto da attribuirsi
a voi, che mi spingete con una insistenza che in verità
io non merito». Ma il progetto fu messo da parte: ci fu
la guerra mondiale e subito dopo un periodo di lotte operaie
e contadine che facevano pensare che la rivoluzione fosse vicina.
In ogni caso il libro non sarebbe stato quellautobiografia
che ci si aspettava da lui. Come scrisse a Nettlau, Malatesta
pensava piuttosto a una raccolta di vecchi scritti che fossero
ancora «di qualche interesse», da commentare con
«note sul tempo e le circostanze della loro origine, sulle
persone colle quali ho lavorato ecc.» (13).
Se avesse raccolto i suoi ricordi personali, non si sarebbe
comunque ispirato allautobiografia, ma a un romanzo su
modello del Lorenzo Benoni di Giovanni Ruffini, un libro
che raccontava secondo i canoni del gusto romantico la storia
di un giovane studente repubblicano costretto alla fuga dallItalia
e allesilio (14). In tarda età
pare avesse iniziato a scrivere la propria vita sotto forma
di un romanzo storico, ma senza portarlo a termine (15).
Armando Borghi scrisse che Malatesta era un «ottimista
incorreggibile, per cui pensava ogni giorno che la più
bella battaglia era quella che non aveva ancora dato»:
non era tipo da perdersi «nelle contemplazioni retrospettive
e nelle reminiscenze nostalgiche» (16).
Anche quando, passati i settantanni, si trovò a
vivere in una casa sorvegliata dalla polizia a Roma, pensava
che «il regime abominevole che la dittatura fascista impone
allItalia» non poteva durare a lungo. Un giorno
il «regime odioso» sarebbe crollato e i compagni
sarebbero tornati dalle carceri e dallesilio senza conoscere
a sufficienza la situazione e la mentalità delle masse
popolari: «Ebbene, io voglio essere qui» (17).
Borghi tornò a scrivergli dallesilio: stava raccogliendo
i propri ricordi e gli chiedeva di fare altrettanto. Malatesta
rispose che faceva bene a scrivere le sue memorie, perché
«quello che si è fatto non è che un preludio
alle cose più importanti che faremo in seguito».
E concludeva: «Scrivere le proprie memorie è una
cosa che dovrei fare anche io ed ho sempre una mezza intenzione
di farlo; ma chi sa se ci riuscirò mai». Borghi
capiva che era un rifiuto, perché una «mezza intenzione»
in un uomo dai «propositi decisivi, tenaci, inflessibili,
pur sotto le più bonarie apparenze» era come non
averne (18).
Malatesta era un uomo dazione. Quando si recò a
Saint-Imier nel 1922 per commemorare il congresso anarchico
tenutosi in quella località cinquantanni prima,
ricevette dai compagni i mezzi finanziari per scrivere alcuni
libri, uno dei quali doveva essere di ricordi. Rientrato in
Italia, con i soldi ricevuti Malatesta diede invece vita alla
rivista Pensiero e volontà (19).
Su una scala con scalpello e martello
Ugo Fedeli contrappone Errico Malatesta a Luigi Fabbri, di
cui era stato amico e collaboratore in Italia e nellesilio
degli anni Trenta. Nel primo hanno il sopravvento «lazione
e il dinamismo»; nel secondo «lesame dei fatti»,
il «loro commento» e la «loro spiegazione».
Continua Fedeli: «Il Malatesta, per provare la bontà
e lefficacia della propaganda del fatto, con Cafiero e
altri compagni, formò le bande armate e andò per
il Beneventano a lottare; il Fabbri ci avrebbe scritto un libro»
(20).
Non era solo questione di temperamenti. Fabbri era stato maestro
elementare e direttore didattico, mentre Malatesta faceva lavori
manuali per vivere. Pietro Gori raccontava di quando, andandolo
a trovare assieme a Kropotkin, a Londra, lo trovò «in
cima ad una scala con scalpello e martello» (21).
Il pittore Carlo Carrà ricorda un incontro in un ristorante
di Londra dove lui faceva il decoratore e Malatesta lelettricista;
era lepoca in cui gli anarchici italiani si divisero a
proposito del gesto di Gaetano Bresci (22).
Luigi Fabbri descrisse Malatesta come un uomo «modestamente
vestito, dal volto abbronzato e dalle mani callose», che
a Londra girava «con la sua gerla di arnesi» per
aggiustare apparecchi elettrici, cucine economiche o tubi del
gas. Quando andò a trovarlo a Roma nel 1923 Malatesta
aveva settantanni lo trovò come lo avevano
visto Gori e Kropotkin a Londra trentanni prima: «in
cima a una scala a piuoli menando gran colpi di martello nella
parete» (23).
Come Fabbri, Malatesta amava leggere, scrivere, studiare. Scriveva
e parlava in inglese, francese, spagnolo, e prima della guerra
del 1914-18 imparò a leggere il tedesco; a Londra, quando
poteva, frequentava la British Library. Ma Fabbri si alzava
alla mattina alle quattro per scrivere, e riprendeva a farlo
dopo il lavoro nel pomeriggio e fino a tardi, curando soprattutto
la corrispondenza: diceva che riusciva a pensare solo con la
penna in mano. Malatesta invece trovava tempo di scrivere solo
di sera (24). A sessantanni, mentre
stava a Londra, si scusava con un compagno in Italia di non
poter collaborare subito al futuro giornale Volontà,
dovendo prima «sbarazzarmi del lavoro delettricità
che ho in mano e che non mi lascia né tempo né
forza» (25).
Nelle stanze in cui abitò, ospite di compagni, non cerano
mobili, ma non mancavano mai un tavolino e un lume a petrolio
per scrivere. Max Nettlau descrive la stanza di Malatesta a
Londra, in casa di Giovanni ed Emilia Defendi, con «un
letto, un tavolino, le sue carte e forse un cassettone»
(26). Luigi Fabbri, che conobbe Malatesta
nel 1897 ad Ancona, ricorda «una piccola stanza, con un
lettino da campo, un tavolo su cui ardeva un lume a petrolio,
un paio di seggiole, e sulle seggiole, sul tavolo, sul letto,
per terra, una quantità indescrivibile di carte, giornali
e libri in apparente disordine» (27).
Malatesta non voleva «vivere della propaganda»;
affermava che «il pericolo più grande che minaccia
il movimento operajo, ed un po anche il movimento anarchico,
è la tendenza dei leaders a considerare la propaganda
e lorganizzazione come un mestiere» (28).
Gli dispiaceva «sciupare» il suo tempo «a
fare lavori, spesso brutti e inutili, per il comodo dei borghesi»,
mentre avrebbe potuto «consacrare molta più attività
alla causa nostra, che è poi quella di tutti»,
ma vedeva gli effetti negativi di quella che chiamava la «peste
dei segretari pagati e permanenti, degli organizzatori di mestiere».
Scriveva a Luigi Bertoni nel 1913: «Tu sai quanti farabutti
si ficcano nel movimento sindacalista, socialista e anarchico
per viverne e sai che al fondo di quasi tutte le scissioni che
dilaniano il nostro campo e quello degli altri vi sono delle
questioni di denaro, delle rivalità bottegaje».
Discorsi in pubblico, discorsi tra compagni
Malatesta si sentiva a disagio quando gli capitava di trovarsi
al centro dellattenzione. Per esempio, esitò molto
ad accettare linvito al cinquantenario del congresso di
Saint-Imier, perché sarebbe stato «il più
vecchio (che gusto!) dei convenuti», e perciò sarebbe
stato «oggetto di speciali attenzioni». Come scrisse
allamico Luigi Bertoni, «questo mi seccherebbe tanto,
tanto. Avrei laria di essere venuto ad esibirmi e tu comprendi
che la cosa mi dispiacerebbe assai» (29).
Oltre al carattere, contavano le convinzioni. Soprattutto dopo
il suo ritorno in Italia alla fine del 1919, Malatesta, come
ha ricordato Borghi, «avvertiva che era diffusa nel paese
una pericolosa aspettazione del capo redentore, e questo
lo indispettiva» (30). Lo si chiamava
«Lenin dItalia»; da lui si attendevano ordini;
girava lo stornello «O Malatesta, suona la tua tromba».
Benché la sua oratoria fosse «semplice, alla buona»,
«senza paradossi, senza violenze verbali, senza accenti
dodio, nellassenza di ogni retorica tribunizia»
(31), i suoi comizi infiammavano folle
entusiaste. «Uomini e donne scrive Salvemini
accorrevano a frotte ad ascoltare Malatesta e leggere il suo
giornale, con la speranza di trovare in lui il salvatore, il
suo liberatore, il leader, un nuovo Garibaldi, il Lenin italiano»
(32). Le speranze e le attese nei suoi
confronti trasformarono i suoi viaggi di città in città
in una marcia trionfale (33). Aldo Aguzzi,
allora ventenne, agli inizi del 1920 presentò Malatesta
in un salone delle scuole elementari di Voghera, «salutando
in lui il Lenin dItalia, quegli che, superando il socialismo,
ci avrebbe condotti alla rivoluzione come in Russia».
Cominciò a parlare Malatesta. Il pubblico non cessava
di acclamarlo «Lenin dItalia». Egli ringraziò
della fiducia e disse che quanti lo avevano accolto con entusiasmo
erano sinceri rivoluzionari. Ma egli non poteva essere un Lenin;
non poteva essere il loro capo, perché tutti i capi erano
uguali; non voleva obbedire, ma soprattutto non poteva comandare.
Se fosse diventato il loro Lenin, sarebbe diventato il loro
tiranno. Si sarebbe circondato «di poliziotti, di burocrati,
di parassiti», e avrebbe dato vita «ad una nuova
casta di oppressori e privilegiati». Poi stando
ai ricordi di Aguzzi parlò di occupare le fabbriche
e di prendere le armi (34).
Più in generale, Malatesta riteneva che indulgere allautobiografismo
fosse in contrasto con i principi anarchici. Se gli si chiedeva
di raccontare quello che aveva fatto personalmente in uno sciopero
o in un movimento ad esempio nella Settimana rossa ad
Ancona , rispondeva di non aver fatto «né
più né meno di quello che hanno fatto tutti i
miei compagni» (35). Questo era
un riflesso della polemica da lui svolta tutta la vita contro
le posizioni individualistiche. Per lui contava lidea,
che allora si scriveva con liniziale maiuscola: era lIdea
a muovere le masse e gli individui. Quando venne a sapere che
una rivista francese stava pensando di dedicargli un numero
speciale, scrisse a Gigi Damiani chiedendogli di fare il possibile
«per indurre quegli amici a rinunziare». Erano cose
«supremamente antipatiche», e non gli sembravano
«troppo coerenti collo spirito anti-personalistico dellanarchismo,
anche se rispondenti alle deplorevoli abitudini di non pochi
anarchici». E ribadiva: «Ho io fatto qualche azione
insigne
o qualche colossale corbelleria? Non mi pare».
Senza contare che «il risultato sarebbe quello di fare
aumentare intorno a me la sorveglianza già tanto stretta
e crearmi ancora maggiori difficoltà» (36).
Inoltre, non cera motivo di fornire notizie alla polizia.
Quando nel 1914 un giornalista de Il Giornale dItalia
gli chiese di raccontare come fosse fuggito poco tempo prima
da Ancona per ripararsi in Inghilterra, Malatesta rispose che
era «una domanda indiscreta». Disse solo che quando
capì «che ad Ancona non spirava più aria
buona», riuscì a giocare le guardie «con
un sistema di una semplicità infantile» e scomparve.
Il giornalista volle insistere: «A San Marino?»
«Ma né meno per sogno rispose Malatesta
senza però dire di più . Cambiai domicilio
in Ancona
Fui ospite di un buon monarchico, troppo monarchico
per essere sospettato
E poi con comodo presi il treno
per Lugano
» (37).
Parlando di come riusciva a sottrarsi al controllo della polizia,
Malatesta fu sempre elusivo, per non compromettere altri. Quando
fuggì da Lampedusa, i sui compagni rimasti nellisola
subirono «noie e persecuzioni» perché sospettati
di averlo aiutato. Egli mandò allora una dichiarazione
al giornale socialista LAvanti!, per «far
osservare ai perspicaci birri dItalia che io non posso
aver avuto complici fra i coatti, poiché naturalmente
i complici sarebbero stati anche compagni di fuga». Non
aggiunse altro. Volle solo ringraziare il governo il quale,
mandandolo in unisola «abitata da una popolazione
generosa ed intelligente», gli aveva assicurato senza
volerlo «la simpatica cooperazione di centinaia di cittadini».
Meno avaro di dettagli fu quando raccontò in che modo
era riuscito a entrare clandestinamente in Italia nel 1919.
Lo fece solo per mettere fine alle insinuazioni, ma anche in
questo caso aggiunse poco o niente rispetto a quanto era già
noto. Si diceva che dietro laiuto fornitogli dal capitano
Giuseppe Giulietti, noto come «il capitano», segretario
della Federazione italiana lavoratori del mare e amico di DAnnunzio,
ci fossero accordi politici, forse un comune progetto insurrezionale;
altri ipotizzavano un intervento del presidente del consiglio
Nitti. Malatesta chiarì i fatti. Aveva chiesto molte
volte il passaporto al console italiano a Londra, e gli era
sempre stato rifiutato. Una volta ottenutolo, il governo francese
gli aveva negato il visto per attraversare la Francia, e il
governo inglese la partenza per mare, a causa delle pressioni
del governo italiano. Nessun capitano di nave voleva rischiare
ad averlo come passeggero. Alfredo Giulietti, fratello del capitano,
fece allora imbarcare Malatesta con un falso nome su di un piroscafo
diretto a Taranto. Da Taranto, Giulietti lo accompagnò
a Genova, in casa del capitano, che lo ospitò «con
la più squisita cortesia». Malatesta si disse «profondamente
grato» ai due fratelli, ma negò che la cosa potesse
avere «alcun significato politico». A chi lasciava
intendere un intervento di Nitti, rispondeva che «Nitti,
poliziotto nellanimo e stupido come tutti i poliziotti»,
gli aveva negato il passaporto finché non aveva visto«ingigantire»
la protesta in Italia; fatto rilasciare il passaporto, aveva
poi cercato «gesuiticamente» di impedirgli di tornare.
Certo, «Nitti ha servito la causa dellanarchia»,
concludeva, ma solo per la protesta che la sua politica aveva
messo in moto.
Anni dopo, nel 1930, in pieno regime fascista, si riaprì
la polemica. Malatesta ribadì di non poter raccontare
come erano andate le cose, «perché questi non sono
tempi da dire al pubblico, e quindi alla polizia, quello che
uno può aver fatto, o tentato di fare», e per non
tradire la fiducia delle persone nei suoi confronti. Cose che
non si potevano dire in pubblico si potevano però dire
tra compagni. In una lettera privata a Luigi Fabbri, nel giugno
di quello stesso anno, raccontò del progetto insurrezionale:
qualcuno in grado di far affluire armi e uomini da Fiume
Fabbri capiva che si trattava di Giulietti lo aveva coinvolto
nel progetto di una sorta di marcia su Roma, ma non se ne fece
niente perché i socialisti rifiutarono.
Dal
volume "La rivoluzione volontaria", Edizioni Antistato,
Milano 1980, testi di Elis Fraccaro, illustrazioni di Fabio
Santin
Non sono abbastanza vanitoso
In un articolo pubblicato nel 1920 su Umanità
Nova, Malatesta scrisse: «A me secca il dover parlare
di me stesso: io non sono abbastanza vanitoso per dire quello
che posso aver fatto di bene, né abbastanza ingenuo per
raccontare al pubblico quello che posso aver fatto di male.
Ma ogni regola ha la sua eccezione». Leccezione,
spiegava, era ammessa per «rettificare quando si fanno
correre delle voci che potrebbero nuocere allopera mia».
Oltre che nel caso del rimpatrio del 1919, Malatesta replicò
pubblicamente a insinuazioni sul suo conto almeno altre due
volte.
Rientrato dallesilio di Londra, fu accusato da ambienti
socialisti di essere massone. Rispose rigettando laccusa
e spiegando «i fatti», che risalivano a quasi cinquantanni
prima. Era entrato nella massoneria nellottobre 1875,
chiedendo di essere esentato dal giuramento e dalle «ridicole»
cerimonie di iniziazione; presto si era accorto che la massoneria
«non serviva che per favorire gli interessi dei fratelli
più furbi», e quando, dopo qualche mese, la sua
loggia decise di ricevere il ministro Nicotera con musica e
bandiere, decise di «protestare ed uscire», per
non avere da allora con la Massoneria «che relazioni di
ostilità».
Qualche anno dopo, in seguito a un articolo di Benedetto Croce,
venne accusato di contatti con lex regina di Napoli Maria
Sofia per liberare Gaetano Bresci. In effetti Malatesta, come
scrisse in una lettera intercettata dalla polizia e finita sul
tavolo di Giolitti, aveva ricevuto «dei mezzi» dallex
regina, convinto di non farsi mai imporre in futuro «da
lei o da chi per lei una qualsiasi direzione».
Quando la polemica venne ripresa da lUnità,
Malatesta rispose sul Risveglio ma senza svelare
particolari. Ironizzò sulla svista di Benedetto Croce,
che aveva collocato il tentativo di liberare Bresci nel 1904,
quando Bresci era morto da tre anni («Ah, questi storici!»).
Circa laiuto di Maria Sofia non rispose, ma fece capire
che non ci vedeva niente di male: in altre parole non lo escluse,
precisando di non trovare «niente da ridire contro chi
per far evadere un detenuto si servisse magari dei carabinieri».
Quanto allintervento di Maria Sofia nellattentato,
dichiarò: «Io, naturalmente, non so nulla di nulla;
e se sapessi qualche cosa non vorrei raccontarla alla polizia,
nemmeno per il tramite dellon. Enrico Ferrari».
Anche in questo caso Malatesta si attenne al principio che ribadì
più volte nei suoi scritti: «Sopra tutto, malgrado
tutto, né per ritorsione né per qualsiasi altro
motivo gli anarchici non fanno la spia» (38).
Malatesta infine accettò di raccontare in pubblico episodi
della propria vita quando cera da difendere compagni che
riteneva calunniati. Lo fece dopo che un giornale anarchico
accusò Galileo Palla di essersi dileguato alla manifestazione
del Primo maggio a Roma nel 1891 «non appena eccitato
il tumulto», prima degli scontri con i soldati, «senza
che lo si conti tra i morti o tra i feriti». Malatesta
rispose sullo stesso giornale dichiarando di portare la sua
testimonianza a favore dellamico, e di farlo per «il
pubblico» che poteva lasciarsi «impressionare quando
le accuse partono dal nostro stesso campo, dagli stessi nostri
commilitoni».
Aveva conosciuto Palla qualche anno prima, a Firenze. A Napoli
era il 1884 era scoppiato il colera, e «molti
fra i socialisti» (allora si diceva indifferentemente
«socialisti» o «anarchici») «anelavano
di correre in soccorso dei colerosi». Malatesta con altri
amici stava raccogliendo soldi per il viaggio, quando si presentò
a casa sua, «gridando e gesticolando», una persona
che non conosceva, rimproverandolo di non correre a Napoli a
portare aiuto. Quando Malatesta rispose che non avevano i soldi
per il treno, luomo che si sarebbe rivelato Galileo
Palla vuotò le tasche sul tavolo e mise a disposizione
il denaro. Partirono per Napoli. Malatesta lo ricordava coraggioso,
infaticabile, sempre allopera ad aiutare i malati. Fu
grazie al denaro che riceveva da casa e che metteva in comune,
se lui e gli altri compagni di Firenze, che facevano la fame,
poterono «andare alla men peggio fino alla fine dellepidemia».
Se non fosse stato per difendere Palla, Malatesta non avrebbe
mai raccontato in un giornale la sua avventura come cercatore
doro in Patagonia. Volendo descrivere il carattere generoso
dellamico, Malatesta si dilungò in particolari.
Mentre si trovava con lui a Buenos Aires, si diffuse la notizia
che a Capo delle Vergini, nellestremo lembo meridionale
dellArgentina, era stato scoperto loro e che il
lavoro era libero. Malatesta e altri quattro compagni, tra i
quali Palla, decisero di partire. Presero un battello. Appena
giunti, dopo pochi giorni, si presentò una compagnia
di operai, al comando di un uomo, e con una scorta di soldati.
Luomo era rappresentante della società proprietaria
dei terreni auriferi, appartenente al fratello del presidente
della repubblica, cui il governo argentino aveva concesso il
monopolio dei tratti di spiaggia dove si era trovato loro.
Non restava che tornare indietro. Il battello passava due volte
allanno. Dopo «lunghi mesi di sofferenze»,
eccolo arrivare. Malatesta quel giorno non cera; si era
trasferito a lavorare da solo in un altro punto della costa,
da dove avrebbe preso il vapore dopo gli altri. Arrivato a Capo
delle Vergini, il battello buttò a terra la posta e proseguì
la sua corsa. Come lo videro, Palla e gli altri compagni, che
si trovavano a parecchia distanza dal mare, si misero a correre.
Palla giunse per primo alla spiaggia. «Il mare in quel
punto ricorda Malatesta , oltre a essere glaciale,
è percorso da correnti violente che impediscono laccostarsi
delle barche ed è popolato dai pesci cani». Palla
si spoglia, si butta nellacqua e comincia a nuotare verso
il largo, «mentre i compagni giunti alla costa dietro
a lui, gridano ed agitano la sua camicia per attirare lattenzione
di quei di bordo». Il vapore rallenta la corsa, si ferma;
si stacca una barca e Palla viene portato sul battello «mezzo
intirizzito». Il capitano lo riceve «villanamente»
a bordo e dà lordine di partenza. Palla lo prega
di mandare a prendere con una barca i compagni rimasti a terra,
ma il capitano rifiuta. «Allora, risponde Palla, ritorno
coi miei compagni e fa per buttarsi nuovamente in mare.
Lo trattengono a viva forza, ed il capitano ordina di metterlo
ai ferri. Ma egli strepita, prega, minaccia, e riesce infine
a commuovere i passeggeri, i quali obbligano a prendere coloro
che erano rimasti a terra».
Pubblico e privato
Queste pagine presentano brani tratti da lettere ad amici,
da autodifese nei processi, da articoli di giornale, da interviste
e da dichiarazioni, in cui Malatesta raccontò in prima
persona episodi della propria vita. Sono rimasti esclusi episodi
pubblicati dagli amici più vicini anche se basati
direttamente su suoi racconti , perché avrebbero
mostrato soprattutto limmagine che i compagni più
giovani avevano di lui. Le storie che riguardavano la sua vita
diventavano facilmente leggendarie, persino tra le persone che
lo conoscevano meglio. Per esempio, Nettlau riportava in modo
molto diverso lepisodio di Capo delle Vergini. In casa
del compagno russo Cherkezov, Malatesta avrebbe raccontato che
mentre con alcuni compagni era imbarcato nel battello per tornare
a Buenos Aires, il capitano aveva ricevuto lordine di
sbarcarli «in una landa deserta» sulle coste della
Patagonia. Allora, per protestare, Malatesta spiccò un
salto dal ponte, si tuffò nellacqua gelida e di
lì, rivoltosi al capitano, lo sfidò ad abbandonarlo.
Il capitano lo salvò e non eseguì lordine
di sbarco. Nettlau completava questo racconto con un particolare
che ben delineava la figura mitica di un rivoluzionario: «Alla
domanda di Cherkezov che gli chiedeva che impressione gli avesse
fatto lacqua gelida, Malatesta si limitò ad alzare
le spalle. Lira gli aveva infuso tanto calore da renderlo
insensibile al freddo» (39).
I brani raccolti toccano alcuni periodi della vita di Malatesta,
e ne escludono altri; per molti anni e su molti avvenimenti
di cui fu protagonista, non compaiono notizie. In altre parole,
questi brani non compongono, postuma, quellautobiografia
che egli rifiutò sempre di scrivere. Piuttosto fanno
capire quale idea Malatesta avesse dei ricordi autobiografici
e del rapporto tra vita quotidiana e politica; e in questo modo
fanno intuire le ragioni per cui quellautobiografia non
fu mai scritta. Sono in gran parte scritti di carattere pubblico,
e riguardano pochissimo la vita privata; si inseriscono in una
prospettiva di azioni più importanti da compiere nel
futuro; raccontano movimenti collettivi e discussioni politiche.
Nellautodifesa al processo di Ancona nel 1898, Malatesta
dichiarò di non avere famiglia «perché la
vita travagliata non mi ha permesso di comporla». Accennò
a suo figlio lo presentava come suo figlio adottivo ,
ma solo per mostrare ai giudici «un documento umano su
quello che sono gli anarchici». Disse di averlo portato
in Italia, perché voleva dargli «un mestiere utile
che gli potesse assicurare la vita e lo rendesse utile a sé
ed agli altri». Dopo che Malatesta era finito in prigione,
il ragazzo aveva trovato in Ancona «tante madri, tanti
padri, quante sono le famiglie che mi amano». «È
un partito di malfattori questo?» concludeva rivolgendosi
ai giudici.
Malatesta era di salute cagionevole, ma di questo non parla
mai. Lo faceva per riderne, come quando raccontava di quella
volta che Bakunin gli aveva profetizzato non più di sei
mesi di vita. Era il 1872, aveva diciannove anni e ne visse
altri sessanta. La sua salute, già fragile, risentì
delle persecuzioni politiche. Al processo di Milano del 1921,
dichiarò di aver passato in vita sua dieci o dodici
anni di prigione. Nettlau calcolava che altri trentacinque
ne aveva passati in esilio (40). Borghi
non dimenticò mai gli attacchi bronchiali di cui Malatesta
fu vittima «nel fetido cellulare di Milano, nel freddo
inverno del 20-21» (41).
Stavano a due celle di distanza, di notte lo sentiva tossire
con «singulti prolungati», sembrava che«in
certi momenti rimanesse soffocato». Malatesta aveva quasi
settantanni, ma «gli ripugnava di essere considerato
malato» e non voleva trattamenti di riguardo. Quando il
cappellano del carcere «un rubicondo pretone dalle
arie melliflue e caritatevoli» si offrì
di trovargli una stufa a gas, «Errico ringraziò,
ma non ne volle sapere» (42).
Nei suoi scritti e nelle sue lettere gli affetti, la vita di
ogni giorno e le relazioni tra persone non diventano quasi mai
oggetto di discorso pubblico, a meno che non abbiano a che vedere
con il movimento e con lorganizzazione: non fanno parte
della sfera della politica, e sembrano svolgersi su un piano
diverso e meno importante. Di Emilia Defendi, per esempio, che
a Londra gli preparava da mangiare e badava a come si vestiva,
Malatesta scrisse a un amico come Luigi Fabbri, parlandone come
«la Defendi», solo quando le sembrò sul punto
di morire, dopo «cinquantanni di affetto fraterno».
«Vi domando scusa gli scrisse se vengo ad
affliggervi con queste tristi notizie ma non mi era possibile
scrivervi senza dare sfogo al mio dolore». Gli parlò
della «straziante malattia che la tiene ogni giorno in
pericolo di vita e che non lascia o ben poca speranza
di guarigione», e poi della malattia del figlio di Emilia
«ti ricordi, Gigi, il mio Erricuccio?»
costretto a letto, «forse destinato a spegnersi lentamente»
(43). Ma sono accenni rari; a stento
si trovano nelle lettere di Malatesta notizie sui numerosi mestieri
che fece per vivere, sui bambini con i quali nella casa di Londra
passava il tempo a giocare, sui romanzi che leggeva la sera
con Emilia (44).
Notizie sulla vita privata, comprese le condizioni di salute,
compaiono e si fanno più frequenti solonegli ultimi anni,
a Roma. Accanto alle notizie di compagni finiti in carcere o
al confino, di assalti fascisti alle tipografie e alle sedi
dei giornali anarchici, di perquisizioni, di sequestri di lettere
e di stampati, di arresti in massa, di pedinamenti, di camion
di squadristi per le strade, di botte a chi portava «sciarpe
alla Matteotti», e ancora alle notizie dellesecuzione
di Sacco e di Vanzetti, di giornate del Primo maggio con la
polizia di guardia alla porta («Quante memorie! e quanta
tristezza!»), accanto a tutto questo, nelle lettere di
Malatesta compaiono informazioni sulla sua compagna Elena Melli
con cui passò gli ultimi anni di vita a Roma, sulla figlia
di lei Gemma, e sulle proprie condizioni di salute (45).
Malatesta è orgoglioso per i risultati scolastici di
Gemma, e informa gli amici dei progressi dei suoi studi («Così
tra 4 o 5 anni Gemma sarà dottoressa in chimica pura,
industriale, farmaceutica, ecc. e sceglierà il ramo che
più le piacerà»); teme per la salute di
Elena, che a un certo punto crede in fin di vita, e prova un
grande sollievo quando si ristabilisce («Il pericolo è
passato: sarà questione di convalescenza più o
meno lunga, ora la guarigione completa è sicura»);
scrive a Luigi Fabbri di passare le domeniche con il proprio
nipote che stava per farsi prete («Stranezze della vita!
gli rispondeva Fabbri forse egli è lunico
erede del tuo nome, e sarà proprio un prete. Ma, per
lo meno avrà di Malatesta la sincerità della fede;
ed è già qualche cosa
») (46);
è abbattuto alla notizia della morte di Francesco Saverio
Merlino con cui era rimasto amico anche dopo le polemiche che
li avevano divisi («Io fui suo compagno di scuola e siamo
stati amici per più di sessantacinque anni. La sua sparizione
mi lascia come un vuoto nellanima»); racconta tra
il contrariato e il divertito i tentativi di villeggiatura al
mare, su consiglio del medico, interrotti dalla polizia («Nessuno
poteva accostarsi a noi e chi lo faceva era arrestato»);
ringrazia per il denaro mandatogli dai compagni in esilio, che
gli permetteva di vivere.
Dopo un brutto periodo di malattia, Elena si ristabilì,
e Gemma proseguì brillantemente luniversità.
Malatesta, superata una broncopolmonite, scriveva agli amici
di voler vivere fino ai novantanni, ma nella primavera
del 1932 le sue condizioni si aggravarono. Agli amici allestero
scrisse: «non mangio quasi nulla perché lo stomaco
non sopporta il cibo, ed intanto sono di una debolezza estrema
e per respirare ho bisogno di ricorrere spesso allossigeno,
di cui debbo tenere sempre una bombola presso il letto o la
sedia dove sto». Sperava di rimettersi. Si tormentava
«di non potere forse far più nulla nellavvenire»,
e non voleva mancare proprio ora,«quando forse siamo alla
vigilia di avvenimenti risolutivi»; poi si tranquillizzava
pensando che «i compagni che sono tanto buoni per me [
]
continueranno lopera, che ora ci è comune, per
il benessere dellumanità». Morì pochi
mesi dopo, a settantanove anni, il 22 luglio 1932.
Malatesta non poté raccontare questepilogo; alla
sua penna si sostituì quella della sua compagna. Elena
Melli scrisse allamico Gigi Damiani: «Povero caro
Errico, quanto ha sofferto! Questi ultimi giorni non respirava
più, soffocava con tutto lossigeno, del quale consumava
una bombola di mille e cinquecento litri in quattro ore e mezzo
o cinque ore. Si è spento così; piano piano come
un lumino in cui fosse finito lolio». La polizia
fissò il percorso del corteo funebre, e bloccò
tutte le vie daccesso laterali. Gemma voleva seguire il
feretro con un mazzo di fiori rossi, le fu vietato e buttò
i fiori dalla finestra. Racconta Elena: «Non fu permesso
di fare nemmeno un passo a piedi, ci obbligarono a salire in
carrozza appena fuori dal cancello e via di gran corsa».
Seguivano il feretro tre carrozze di parenti e amici, unautomobile
piena di poliziotti, un furgone «e poliziotti in bicicletta
di qua e di là che passavano avanti e indietro strada
facendo». Altri poliziotti di guardia alla tomba prendevano
le generalità di chi si avvicinava.
Piero Brunello
Note
1.
M. Nettlau, Errico Malatesta. Vita e pensieri,
Il Martello, New York 1922, pp. 217-218. Max Nettlau (Vienna
1865-Amsterdam 1944) pubblicò molti scritti sulla
storia dellanarchismo; sul movimento in Italia scrisse
Bakunin e lInternazionale in Italia. Prefazione
di E. Malatesta, Edizioni del Risveglio, Ginevra 1928.
2. Nettlau, Errico Malatesta cit., p. 218.
3. L. Fabbri, Errico Malatesta, in E. Malatesta,
Lanarchia, Casa Editrice Sociale, Milano
1921, p. 5.
4. G. Salvemini, Prefazione, in A. Borghi, Mezzo
secolo di anarchia (1898-1945), Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1954, pp. 7-9.
5. Camillo Berneri scrisse a Max Nettlau, Firenze, 6 novembre
1922: «Anchio ho consigliato a Malatesta la
propria biografia, ma egli non ne vuol sentir parlare»
(C. Berneri, Epistolario inedito, II, a cura di
P. Feri e L. Di Lembo, Edizioni Archivio Famiglia Berneri,
Pistoia 1984, p. 19). Camillo Berneri (Lodi 1897-Barcellona
1937) allora aveva venticinque anni.
6. Fabbri, Errico Malatesta cit., p. 5.
7. Vedi ora la biografia di G. Berti, Errico Malatesta
e il movimento anarchico italiano e internazionale 18721932,
Franco Angeli, Milano 2003.
8. Nettlau, Errico Malatesta cit., pp. 131-132.
9. A. Borghi, Errico Malatesta, Istituto Editoriale Italiano,
Milano 1947), pp. 40-41.
10. A. Borghi, A proposito delle mancate memorie di
Malatesta, «Adunata dei refrattari», 1
ottobre 1932. Armando Borghi (Castel Bolognese 1882-Castel
Bolognese 1968) a sedici anni conobbe Malatesta processato
ad Ancona, iniziando unamicizia che durò
tutta la vita. Nel primo dopoguerra fu segretario dellUnione
Sindacale Italiana (U.S.I.); nel 1922 fu in carcere a
Milano con Malatesta; dal 1926 andò in esilio,
prima in Francia e poi negli Stati Uniti, da dove tornò
nel 1945.
11. Lettera di presentazione a José Viñas
e Trinidad Soriano, Londra, 26 gennaio 1892, in International
Institute of Social History, Amsterdam [IISH], Archive
Nettlau; la lettera di presentazione a Celso Ceretti,
Alfonso Leonesi e Serafino Mazzotti, Londra, 21 marzo
1893 è in E. Malatesta, Epistolario. Lettere
edite e inedite 1873-1932, a cura di R. Bertolucci,
Avenza 1984, p. 72. Malatesta mise in contatto con Nettlau
anche il giovane Camillo Berneri, venticinquenne laureando
in filosofia. Cfr. la lettera di Berneri a Nettlau, Firenze
26 ottobre 1922, in Berneri, Epistolario cit.,
II, p. 18.
12. Errico Malatesta a Celso Ceretti, Londra 3 giugno
1892, in P. C. Masini, Storia degli anarchici italiani
da Bakunin a Malatesta (1862-1892), Rizzoli, Milano
1972, pp. 334-335.
13. Nettlau, Errico Malatesta cit., p. 272. Loriginale
della lettera di Malatesta a Nettlau, Londra, 22 Marzo
1912, in francese, in IISH, Archive Nettlau.
14. Borghi, Errico Malatesta cit., p. 15.
15. Riferendosi a Malatesta, Camillo Berneri scrisse a
Max Nettlau, Firenze 6 novembre 1922: «Aveva cominciato
a scrivere una specie di romanzo storico, ma non so se
lo continuerà» (in Berneri, Epistolario
cit., II, p. 19).
16. Borghi, Errico Malatesta cit., p. 13.
17. Risposta di Errico Malatesta a Sébastien Faure
che lo invitava a Parigi (1925 o 1926), «Adunata
dei refrattari», 20 agosto 1932, ora in E. Malatesta,
Scritti, III. Prefazione di Luigi Fabbri, Edizione
del «Risveglio», Ginevra 1935 (ristampa anastatica
a cura del Movimento Anarchico Italiano, Carrara 1975),
pp. 389-390. Nella ristampa del 1975 i primi due volumi
hanno per titolo Pagine di lotta quotidiana.
18. La lettera di Malatesta a Borghi, 1 giugno 1928, è
citato da Borghi, A proposito delle mancate memorie
cit., «Adunata dei refrattari», 1 ottobre
1932.
19. U. Fedeli, Luigi Fabbri. Prefazione di Luce
Fabbri, Gruppo Editoriale Anarchico, Torino 1948, p. 108.
20. Ibid., p. 106. Luigi Fabbri (Fabriano 1877-Montevideo
1935) più volte incarcerato, nel 1899-1900 fu a
domicilio coatto a Ponza; diffuse in Italia le idee educative
libertarie di Francisco Ferrer; maestro elementare, rifiutò
il giuramento di fedeltà al regime fascista e andò
in esilio, prima in Francia e poi in Uruguay.
21. L. Fabbri, Malatesta. Luomo e il pensiero,
Edizioni RL, Napoli 1951, pp. 53-54.
22. C. Carrà, La mia vita. Presentazione
di V. Fagone, Feltrinelli, Milano 1981 (prima ed. 1945),
pp. 26-30.
23. Fabbri, Malatesta. Luomo cit., pp. 53,
55.
24. Fedeli, Luigi Fabbri cit., p. 108.
25. Errico Malatesta a Cesare Agostinelli, Londra 2 aprile
1913, in Malatesta, Epistolario cit., pp. 81-82.
26. Nettlau, Errico Malatesta cit., p. 230.
27. L. Fabbri, Come conobbi Enrico Malatesta, dattiloscritto
in IISH, Archive Luigi Fabbri; lo scritto fu pubblicato
con lo stesso titolo in «Studi sociali», Montevideo,
20 novembre 1933.
28. Errico Malatesta a Luigi Bertoni, Londra, 3 giugno
1913, in Malatesta, Epistolario cit., pp. 88-89.
29. Errico Malatesta a Luigi Bertoni, Roma, 14 maggio
1922, in Malatesta, Epistolario cit., pp. 175-176.
30. Borghi, Mezzo secolo cit., p. 211.
31. Fabbri, Malatesta. Luomo cit., p. 28.
32. G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia.
Lezioni di Harvard, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli
1979 (quarta ed.; prima ed. 1961), p. 261. «Il proletariato
applaudiva i discorsi più altisonanti commenta
Salvemini , dava sfogo con gli applausi alle vaghe
speranze di un mondo migliore, e poi tutti tornavano a
casa aspettando che questo mondo migliore piovesse dal
cielo» (p. 262).
33. C. Levy, Charisma and Social Movements: Errico
Malatesta and Italian anarchism, «Modern Italy»,
1998, 3, p. 212.
34. Lepisodio è ricordato da Fabbri, Malatesta.
Luomo cit., pp. 35-39.
35. G. Calza Bedolo, Intervista con Malatesta a Londra,
«Il Giornale dItalia», 1 Luglio 1914.
36. Errico Malatesta a Gigi Damiani, Roma, 26 gennaio
1927, in Malatesta, Epistolario cit., p. 242. La
rivista era «Semeur de Normandie»
37. Calza Bedolo, Intervista cit.
38. E. Malatesta, Vogliono dunque proprio che li trattiamo
da poliziotti, «Umanità nova»,
6 maggio 1920, ora in Id., Scritti cit., I, p.
68.
39. Nettlau, Errico Malatesta cit., p. 208.
40. E. Malatesta, Dichiarazioni sullattentato
del Diana, in Id., Scritti cit.,
II p. 311; Nettlau, Errico Malatesta cit., p. 319.
41. Borghi, Errico Malatesta cit., p. 41.
42. Ibid., p. 220.
43. Loscillazione tra il «tu» e il «voi»
è nella trascrizione.
44. Sulla vita londinese, vedi lo scritto di Pietro Di
Paola in Errico Malatesta, Autobiografia mai scritta.
Ricordi (1853-1932), Edizioni Spartaco, Santa Maria
Capua Vetere, 2003.
45. Qui e in seguito cito dalle lettere scritte da Malatesta
negli ultimi anni di vita, in Malatesta, Epistolario
cit., pp. 173-377.
46. Luigi Fabbri a Enrico Malatesta, Montevideo, 4 marzo
1932, in ACS, CPC, b. 2952, «Malatesta Errico fu
Federico». Qualche anno dopo, Elena descriveva a
Leone Stone una situazione familiare molto tesa, proprio
a causa di quel nipote fattosi prete: «Gemma si
fidanzò con un giovane, il quale per poter entrare
in casa nostra si fece conoscere per antireligioso
cioè cattolico apostolico romano e fra lui
e il nipote di Errico, il quale si è fatto prete
adesso che ha 45 anni, hanno montato questa ragazza contro
le nostre idee e specialmente contro gli anarchici. Non
tento nemmeno di descriverti la lotta che ho dovuto sostenere
con costoro. Volevano trascinare anche me e si servivano
di mia figlia; me la scagliarono contro straziandomi in
tutti i modi. E questa lotta terribile è durata
per più di due anni» (Elena Melli a Leone
Stone, da Roma, il 17 maggio 1935, in ACS, CPC, b. 4211,
«Gemma Ramacciotti fu Giuseppe e Melli Elena»).
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