Se le cose stanno così…!
È il refrain di una celebre canzone di Sergio Endrigo
degli anni Sessanta. Se le cose stanno come stanno, è
difficile che qualcuno capisca come stiano veramente. Ci riferiamo,
naturalmente, alla situazione conseguente all’intervento
americano in Iraq. Vediamo perché, a giudicare dagli
ultimi avvenimenti, è diffusa la sensazione che una consistente
parte di mondo sia andata fuori di testa.
Ma procediamo con ordine.
Dunque il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nella travagliata
seduta del 17 ottobre scorso, ha legittimato – così
si è detto – l’avventura americana in Iraq.
E già questa tardiva benedizione lascia molto perplessi.
Nessuno, infatti, che abbia un minimo di attitudine alla razionalità,
riuscirà mai a capacitarsi come può accadere che
un’iniziativa, sino ad un certo giorno ritenuta perversa,
avviata nel disprezzo più assoluto del diritto internazionale
e con motivazioni palesemente false e reiterate, possa il giorno
dopo rientrare nel novero degli eventi ormai accaduti e sui
quali è inutile tornare a recriminare. Per la verità,
nella forma, non è proprio così. Nella mozione,
genericamente, si respinge il criterio della guerra preventiva,
ma poi si passa a parlare subito d’altro, della necessità
di ricostruire l’Iraq e di favorire la costituzione di
un governo legittimo locale «al più presto possibile»,
con il concorso della comunità internazionale. Sui disastri
provocati dalla guerra unilateralmente decisa e condotta dagli
anglo-americani neppure una parola. Le migliaia di morti e feriti
provocati dai bombardamenti aerei e dalle operazioni militari
di terra tra la popolazione civile irachena, sono solo un tragico
incidente di cui non val la pena parlare, così come non
è il caso di parlare della destrutturazione quasi totale
dei servizi essenziali per la sopravvivenza di un’intera
nazione. Nulla di nulla.
Follia duratura
Ma la follia non finisce qui. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU,
all’unanimità, invita il consesso internazionale
a finanziare e ad appoggiare con uomini e mezzi il comando americano
nel difficilissimo dopoguerra iracheno, sanzionando che sia
le risorse economiche che quelle umane eventualmente elargite
dai governi sensibili all’appello siano affidate alla gestione
americana, senza che alcuno possa in qualche modo intervenire,
non foss’altro che per tutelare l’incolumità
e il benessere delle proprie truppe. A fronte di tutto questo,
neppure un ringraziamento, solo la promessa, ognuno valuti quanto
rilevante, che, in un futuro indefinito, il ruolo dell’ONU
sarà «cruciale»: per fare che non si capisce.
Io credo che se l’ONU avesse voluto veramente ribadire
il proprio ripudio della guerra preventiva e della logica che
ne costituisce il retroterra esplicito, avrebbe dovuto innanzitutto
invitare gli americani a ritirarsi dall’Iraq in data certa
e quanto più vicina possibile, riprendere in mano la
gestione politica del dopo Saddam e convocare al più
presto una conferenza internazionale, con la partecipazione
delle varie etnie irachene, per progettare una ricostruzione
del paese e organizzare elezioni politiche garantite dalla presenza
di osservatori imparziali nominati dall’ONU stessa.
Se non ha proceduto in questa direzione o, almeno, non ha neppure
tentato di farlo, di fatto, si è resa complice dell’invasore
e ne ha legittimato l’operato.
Questa constatazione è tanto più vera ove si scorra
l’intero testo della risoluzione, che, del resto, nel suo
impianto complessivo, è opera dello staff del presidente
Bush.
Già al paragrafo 1 l’ambiguità del testo
non riesce a mascherare l’abdicazione alle tesi anglo-americane.
Vi si legge: «Il Consiglio riafferma la sovranità
e l’integrità del territorio dell’Iraq e sottolinea
la natura temporanea dell’esercizio della responsabilità
da parte dell’Autorità provvisoria della Coalizione,
che cesserà quando un governo rappresentativo e internazionalmente
riconosciuto, stabilito dal popolo iracheno, avrà prestato
giuramento» Si prosegue (par. 7) invitando l’attuale
governo provvisorio a presentare entro il prossimo 15 dicembre
il calendario per la stesura di una nuova costituzione e per
la convocazione di elezioni democratiche. Tutto questo programma
affidato, naturalmente, all’amministrazione «provvisoria»
degli angloamericani e al governo da loro formato, inviso, come
è sempre più evidente, all’intero popolo
iracheno. Del resto, tutti sappiamo come gli americani sanno
formare i governi nei paesi sui quali pretendono di instaurare
e perpetuare il proprio dominio. Paradossalmente (ma, poi, non
tanto) il governo di minoranza baathista di Saddam fu proprio
formato con l’appoggio esplicito dell’amministrazione
americana in funzione anti iraniana. Per non parlare dell’America
Latina e del Sud-est asiatico. Ma ai paragrafi 13 e 15 si raggiunge
il colmo quando si dice che «il Consiglio di Sicurezza
autorizza una forza multinazionale a comando unificato
per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità
in Iraq …», omettendo, per pudore, di aggiungere
all’aggettivo unificato l’altro aggettivo veramente
qualificante angloamericano.
Ratificazione della forza
Nella sostanza, tutto il potere resta in mano americana, le
elezione avverranno quando le potenze occupanti le avranno organizzate
e l’ONU non ottiene alcun ruolo se non quello del tutto
nominale della importanza della sua funzione.
È evidente, in tutto ciò che sinteticamente si
è descritto, che la decadenza delle Nazioni Unite non
si è tanto evidenziata quando ha dovuto subire la prepotenza
americana nell’avviare la guerra contro l’Iraq: non
aveva gli strumenti per opporvisi; ma proprio nel giorno in
cui ha ratificato, con la risoluzione del 17 ottobre, la legittimità
della forza nella risoluzione dei conflitti internazionali.
Tutto, nel testo della risoluzione, evidenzia che l’uso
della forza alla fine paga. Proprio l’opposto della funzione
che i costituenti avevano affidato a questo organismo internazionale.
Ma il vero nodo che la risoluzione neppure menziona è
quello dei veri beneficiari della ricostruzione del paese mediorientale.
Se appena lo si fosse sfiorato, si sarebbe dovuto dichiarare
esplicitamente che i soldi richiesti alla comunità internazionale
finiranno nei bilanci delle grandi imprese americane alle quali
sono già stati affidati gli appalti per le opere di costruzione
e riattivazione delle infrastrutture principali dell’Iraq.
Il sistema aeroportuale, gli impianti idrici, le centrali di
produzione e la rete di distribuzione dell’energia elettrica,
ma, soprattutto, gli imponenti lavori la riattivazione dei pozzi
petroliferi e degli oleodotti sono già in mano di industrie
quali la Bechtel, la Exxon e via dicendo.
Resta da capire perché Francia, Germania e Russia (per
la Cina e la Siria il discorso è un altro e sarebbe riduttivo
affrontarlo qui in poche righe), così irriducibilmente
avverse alla guerra, abbiano alla fine accettato di votare a
favore della risoluzione, che non rimuoveva nessuna delle riserve
che avevano avanzate alla teoria della guerra preventiva e,
nello specifico, all’invasione dell’Iraq.
Se le cose stanno così...
A mio modo di vedere, le principali ragioni sono tre.
La prima è la preoccupazione di rimanere emarginati dall’evoluzione
di un’area, quella mediorientale, che avrà comunque
un ruolo decisivo sul futuro dello sviluppo del continente europeo,
e non soltanto per le risorse energetiche, da cui tutti questi
paesi dipendono, ma per la posizione strategica che il Medioriente
occupa rispetto al mondo asiatico.
La seconda ragione è che si attende di risolvere il problema
delle concessioni petrolifere che il regime di Saddam aveva
concesso principalmente a Francia e Russia (ma c’è
anche l’AGIP), il cui esito dipenderà dagli umori
del governo iracheno (provvisorio o no) che, come abbiamo visto,
sarà praticamente condizionato dalla presenza americana.
La terza ragione è che i tre paesi fanno parte, a diverso
titolo, dell’occidente industrializzato, ne condividono
la dimensione economica e la interdipendenza. Bene o male, se
la borsa di Wall Street ha il mal di pancia, le borse di Parigi
e di Francoforte sono in preda alla dissenteria. Questo per
dire che uno scontro frontale avrebbe certamente provocato un
danno immediato all’amministrazione Bush, ma poi, se non
si fosse deciso di radicalizzare lo scontro tra USA ed Europa,
si sarebbe dovuto comunque arrivare ad un compromesso, e i costi
sarebbero stati assai maggiori.
Nessuno di questi paesi, comunque, ha risposto all’appello
di Kofi Annan: lo hanno detto più o meno esplicitamente:
rimanendo le cose così come stanno, né un uomo
né un euro saranno da loro destinati alla normalizzazione
della ingarbugliata matassa irachena.
Sembra di sentire Rutelli o D’Alema o Castagnetti che certamente
diranno sì al proseguimento della missione italiana,
sentendosi coperti dall’ombrello dell’ONU. E di quale
ombrello si tratti abbiamo tentato di spiegarlo in queste poche
righe.
Antonio Cardella
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