Il 1° dicembre
scorso è stato presentato a Ginevra un progetto di accordo
israelo-palestinese, un concreto e realistico tentativo di portare
la pace in un conflitto che dura ormai da più di un secolo.
In ordine di tempo, al momento in cui scrivo, è questo
di Ginevra l’ultimo sforzo prodotto per consentire a due
popoli di vivere in pace. Ciò che lo rende diverso dagli
altri è che questo incontro tra palestinesi e israeliani
è stato organizzato da personalità della cultura,
della società civile, della politica di ambedue le realtà
senza l’avallo ufficiale delle autorità costituite
della Palestina e dello stato israeliano.
Questo accordo, pur costando ad ambedue gli schieramenti, sacrifici
e sofferenze, è comunque un concreto e fattibile passo
per raggiungere una pacificazione nell’area mediorientale.
Si tratta di sostenere iniziative concrete su tutte le principali
questioni che costituiscono i termini della discordia e quindi
della continua guerra. Questo documento si basa sulle risoluzioni
delle Nazioni Unite sul Medio Oriente, la conferenza di Madrid
(1991), gli accordi di Oslo (1993), l’accordo su Hebron
(1997), accordo di Wye River (1998). Inoltre si ispira all’accordo
di Camp David (luglio 2000) e di Taba (gennaio 2001) che sostengono
l’obiettivo di creare uno stato palestinese indipendente
a fianco di quello israeliano.
I promotori del trattato Beilin-Rabbo, dal nome dei primi firmatari,
sostengono che con le conclusioni a cui si ispira, la pace è
realisticamente possibile e attuabile da subito.
Il punto centrale è ovviamente l’ipotesi di costituire
uno stato Palestinese accanto a quello Israeliano.
Condizione ineludibile
Insomma ancora una volta la condizione ineludibile, così
come per tutti coloro che hanno proposto soluzioni pacifiche,
è la coabitazione di due Stati, uno che garantisca gli
ebrei l’altro i palestinesi. Accanto a questa fondamentale
dichiarazione, l’accordo sviluppa soluzioni relative alle
dimensioni precise dei due territori e alla delimitazione dei
confini all’interno delle frontiere definite ancora il
4 giugno del 1967; Gerusalemme diventerà definitivamente
capitale della Palestina e i quartieri ebraici a est della città
rimarranno sotto sovranità israeliana (ci sarà
sovranità specifica nei luoghi sacri delle varie religioni);
i coloni che si trovano in Cisgiordania e nella striscia di
Gaza saranno rimpatriati e così accadrà all’esercito
che si trova ad occupare questa terra; i rifugiati palestinesi
potranno essere indennizzati; il controllo sul rispetto degli
accordi sarà garantito da una forza multinazionale formata
in primis da Nazioni Unite, Stati Uniti, Europa, Russia.
Questa soluzione è fortemente appoggiata da un settore
di israeliani e di palestinesi che rifiutano le politiche di
Sharon e di Arafat e che trova consensi sempre più vasti
soprattutto all’interno della società civile israeliana.
Un altro elemento qualificante e incoraggiante è l’esplicito
riconoscimento da parte palestinese, in questo accordo, del
diritto dell’esistenza di uno stato ebraico in Palestina.
Inoltre occorre ribadire che questo accordo di Ginevra, pur
non avendo alcun valore giuridico, apre concretamente una speranza
di pace proprio perché affronta e da una soluzione concreta
a tutti i nodi e le controversie che sono presenti sul teatro
di guerra tra i due popoli. Come sostiene l’israeliano
Amram Mitzna «l’iniziativa di Ginevra segna una
svolta nella Storia, in quanto permette ai governi, se lo desiderano,
di comprendere esattamente quali concessioni concordate dalle
due parti permettono di porre fine al conflitto» (Le Monde
Diplomatique, dicembre 2003).
Il fatto di non essere prodotto da due istituzioni ufficiali
rende questo documento più credibile perché voluto
da cittadini di una e dell’altra parte. Di questo è
convinto il palestinese Qadura Fares che scrive: «L’iniziativa
di Ginevra è una visione basata sulla razionalità
e sulla volontà sincera di arrivare ad una soluzione.
È la visione che presentiamo ai politici come agli intellettuali
e all’opinione pubblica, affinché i due popoli
possano decidere essi stessi il loro destino. Questa trasparenza
e questa larga diffusione sono essenziali perché, se
può capitare che gli uomini politici siano ostaggio di
ideologie e pregiudizi, l’opinione pubblica spesso distingue
meglio la via di un avvenire migliore. Dato che non rappresentiamo
un’istituzione ufficiale, tentiamo di preparare il terreno
ad una soluzione politica equilibrata, fondata su una giustizia
accessibile» (Idem).
Una forte convinzione e un ritrovato ottimismo trapela tra i
protagonisti di questa proposta e questo, vista la composizione
mista dei promotori, non può che infondere in noi tutti
una certa speranza. Se accanto a ciò vogliamo considerare
come, soprattutto in Israele, stia crescendo un movimento spontaneo
e stiano maturando una serie di iniziative di base a forte carattere
pacifista e antimilitarista, certamente il flebile filo della
speranza di pace non può che essere solidificato da tutto
ciò.
E la speranza è sicuramente una componente indispensabile
per ogni progetto umano e individuale, è la nutrice dei
sogni e un ottimo antidoto contro la rassegnazione e la disperazione
prodotte dai fondamentalismi.
Ma questa soluzione così coraggiosamente proposta sembra,
come sostiene Amos Oz («L’Espresso» del 30/12/2003),
una pace degli stanchi, simile più a un divorzio che
non a un inizio nuovo. Più una fine di una forzata convivenza
che non il principio di un amore.
Due Stati in cambio di uno
Personalmente credo più ad un valore simbolico che,
se opportunamente sostenuto e liberato dall’illusione
tutta Politica che la soluzione stia in due Stati al posto di
uno, può liberare tra i contendenti la luce derivante
dall’aver capito realmente che proprio al di là
dei due poteri, vi sono uomini e donne che desiderano incontrarsi
e dialogare. Inoltre solo dall’incontro diretto e reale,
non mediato dall’immaginario religioso e politico dei
fondamentalismi, può scaturire una vera prospettiva di
pace fondata sulla libertà e la giustizia sociale.
Togliere le illusioni, che Sharon e Arafat alimentano nei rispettivi
popoli, di divenire i veri sovrani dell’area contesa,
magari facendo leva sui fondamenti e sui relativi messianici
postulati religiosi, è una delle operazioni che tutti
i veri sostenitori della pace hanno l’obbligo di perseguire
a favore piuttosto di un continuo e sistematico, ma libero e
dal basso, intreccio compromissorio tra ebrei e palestinesi.
Il pregio immaginario di questo accordo è quello di fondarsi
non tanto su delle affermazioni di astratti principi, in un
contesto esasperato dalle disuguaglianze concrete e giornaliere,
ma di solleticare azioni e comportamenti possibili fin da subito
e fondati su logiche egualitarie e di dimostrare che la soluzione
esiste già anche a prescindere dalla logica politica
e statale. In questo senso, e solo in questo, mi appare comunque
un’iniziativa da sostenere e incoraggiare dal punto di
vista libertario e non tanto nel punto di partenza, ma ahimè
anche di arrivo, che riconosce come auspicabile i due stati.
Alzare confini, anche in nome della pace, non si è mai
dimostrato produttivo nella storia, se si mira all’integrazione
e alla miticizzazione, unico obiettivo realmente pacifico.
La logica della separazione, che questo trattato sostiene come
inevitabile anche se dolorosa, sostanzialmente accetta la logica
della Politica e dello Stato, è quindi subalterna alla
riproduzione del potere, che questa volta sarà magari
meno duro ma comunque discriminante, perché non tocca
le condizioni interne di disuguaglianza delle due realtà.
Credo infatti che vadano incoraggiate e sostenute tutte quelle
forme di ribellione e di dissenso che all’interno dei
due schieramenti stanno lottando per riportare la ragione al
centro della convivenza, la libertà e l’uguaglianza
possibile e concreta a fondamento della resistenza ad ogni forma
di dominio.
Esiste già una contro società in Israele e in
Palestina, anche se minoritaria, composta da uomini e donne
che abbattono tutti i muri divisori riconoscendosi reciprocamente
come esseri umani portatori di medesimi diritti e doveri seppur
di fedi e culture diverse. La strada è ancora lunga e
le tappe sono spesso forzate e ineludibili, ma l’importante
è non perdere il senso ultimo e più vero del cammino
e non assuefarsi mai neanche al peggiore dei crimini.
La consapevolezza della propria debolezza è anche in
questo caso l’unica salvaguardia contro l’onnipotenza
del potere.
Francesco Codello
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