Abbiamo bisogno di
identità forti? Dobbiamo necessariamente appartenere
a gruppi e conformarci alla condotta collettiva? Le identità
sono modi di disegnare circuiti di appartenenza mediante un
processo di riduzione del plurimo al simile, di generazione
di un’omogeneità di sentimenti, di pratiche e di
valori. Proprio nel distinguere e nel caratterizzare ciò
che fa parte dell’identità di un gruppo si giocano
dinamiche di potere: il potere di selezionare i valori condivisi
e di diffondere le pratiche considerate accettabili per chi
appartiene al gruppo. Il potere di omogeneizzare una pluralità
e di generare una contrapposizione verso l’ «altro».
Negli ultimi decenni l’antropologia culturale ha mostrato
che le identità che ci vengono presentate come naturali
e inevitabili sono costruite e arbitrarie. Essendo culturalmente
costruite, le identità potrebbero essere decostruite,
svuotate e riconfigurate. Si possono quindi rifiutare dinamiche
di appartenenza che mistificano la lettura della realtà
e inconsapevolmente richiedono subordinazione? Si può
ma spesso non si fa. Anche in circuiti antagonisti, anche in
circuiti libertari. È relativamente più semplice
cogliere il potere, al di fuori di noi, nelle istituzioni –
nel carcere, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle caserme,
nelle cliniche, nello stato –, è più problematico
prendere coscienza di come noi stessi riproduciamo il potere
nel vissuto quotidiano. Non ci sono ricette per abbattere queste
forme di potere discorsivo e sfuggevole se non la consapevolezza
individuale delle dinamiche sociali quotidianamente riprodotte
e all’apparenza normali e innocue.
Ordinare e raggruppare
La classificazione degli esseri umani prevede l’utilizzo
di categorie per mettere ordine e raggruppare le singolarità
in modo da offrire schemi cognitivi che permettono di «leggere»
il sociale. Le classi concettuali assumono una dimensione lessicale:
«ragazza», «fascio», «marocchino»,
«barbone», «madre di famiglia», «rasta»,
«disobbediente» sono termini che identificano ambiti
di appartenenza e di condotta. Gli individui entrano a far parte
di gruppi con cui dovrebbero condividere dei tratti e un modello
di comportamento. Le identità sono il risultato di circuiti
sociali che tendono ad omogeneizzare il comportamento di chi
vi appartiene per segnare una distinzione rispetto all’altro.
Le categorie che utilizziamo per distinguere i gruppi non sono
totalmente arbitrarie. Alcune si riferiscono a fattori come
il sesso, l’età, la provenienza, l’occupazione,
l’adesione più o meno formalizzata ad associazioni.
L’appartenenza alle categorie genera condotte differenziate.
La società si attende che una certa categoria adotti
dei comportamenti specifici e, in effetti, quelli che sono identificati
come i membri di quella categoria – per esempio «gli
anziani» – adottano modi di fare che noi riconosciamo
come appropriati, adatti, congruenti con la categoria in questione.
Le individualità vengono incanalate in modalità
di condotta standardizzate che caratterizzano il loro gruppo
di appartenenza. La collettività si attende quindi un
certa condotta e effettivamente c’è una messa in
opera della condotta attesa da parte dei membri di un determinato
gruppo. Il nostro vissuto e ciò che osserviamo conferma
la giustezza delle categorie che abbiamo elaborato: la maggior
parte degli «anziani» si comporta da «anziano»
perché i membri dei gruppi adottano – inconsapevolmente
– condotte conformi a ciò che ci si attende da
loro. L’adesione all’ordine sociale è una
forza di conservazione che induce all’ubbidienza –
senza costrizioni fisiche – attraverso continui riferimenti
simbolici che entrano a far parte delle nostre disposizioni
mentali e corporee. Si aderisce alle categorie e si impara a
categorizzare gli altri senza rendersene conto.
Quello che è arbitrario è la rappresentazione
che questi gruppi si danno e che noi riconosciamo loro. Questa
congruenza tra comportamento atteso – come si dovrebbe
comportare un membro di un gruppo – e comportamento reale
– come si comporta un singolo che appartiene al gruppo
– ci può far credere che le categorie che noi abbiamo
generato per comprendere e ordinare il mondo siano dotate di
un’essenza. Ci sarebbe quindi un modo di fare, per esempio
«maschile» – la manualità, il gusto
per il calcio, l’occupazione privilegiata di spazi pubblici,
l’indisposizione alle cure parentali, etc. –, che
sarebbe insito nell’essere uomo e non dovuto a come siamo
stati abituati a concepire – e a riprodurre nella pratica
– la mascolinità. La conformità di condotta
all’interno di un certo gruppo sarebbe dovuta ad un’essenza
intangibile comune – un carattere, uno spirito, una natura
condivisa – e non a un’operazione sociale di apprendimento,
ossia imparare a comportarsi come gli altri si attendono da
noi.
I gruppi tendono a presentarsi come soggetti consolidati, con
caratteristiche antiche e immutabili, che hanno radici nella
loro «natura». Questo è un tratto accentuato
nella essenzializzazione delle caratteristiche di genere e di
età ma anche nella appartenenza a nazioni: lo spirito
«italiano» avrebbe le sue radici – nella retorica
fascista ma anche dello stato repubblicano – nella Roma
antica così come quello «padano» avrebbe
– improbabili – origini celtiche. L’appartenenza
ha bisogno di rappresentarsi come qualcosa di antico: gli scambi
materiali e immateriali che hanno caratterizzato l’intera
storia dell’umanità così come le trasformazioni
di composizione genetica nei residenti in una certa area –
il mischio genetico della popolazione della penisola è
ovvio – sono negate. Si occulta la documentazione che
mostra che i gruppi sono frutto di continue ibridazioni. Si
nega l’evidenza della permeabilità delle società
e della mutevolezza delle configurazioni identitarie e dei tratti
che vengono presentati come caratteristici di un certo gruppo.
Alla categoria di «anziano», così come a
quella di «donna» o di «romano» sono
state attribuite caratteristiche assai diverse nello spazio
e nel tempo.
Continuo processo di ibridazione
L’identità non è immaginabile come isolata.
Si caratterizza per contrapposizione ad altre. Mentre si presentano
identità distinte, omogenee al proprio interno e irriducibilmente
diverse dalle identità contigue, i tratti di ciascuna
identità sono frutto di un continuo processo di ibridazione
dove l’alterità entra a far parte dell’identità.
Eppure ogni identità si presenta come pura, difende i
propri confini reali e simbolici e ripudia quei tratti di alterità
che sono entrati a far parte del sé. La tendenza a valorizzare
il «noi» e a devalorizzare l’altro è
un passo che si accompagna alla produzione di identità.
Il razzismo, il nazionalismo, il campanilismo, il maschilismo
nascono da una visione dell’alterità che si limita
a confermare stereotipi negativi.
Il pensiero libertario ha colto e si è posto in modo
critico rispetto alla costruzione di alcune identità
rigide. L’appartenenza nazionale è stata vista
– come è – un processo di costruzione di
un senso di appartenenza finalizzato a minimizzare le sovversioni
interne e ad esaltare l’origine e la nascita comune. La
critica a identità rigide andrebbe estesa a tutte le
identità di gruppo – quelle comunali, regionali,
etniche, razziali, politiche, di genere. In quest’ottica,
per esempio, non c’è una essenza maschile, come
non c’è un’essenza femminile: uomini e donne
generano – seguendo modelli di identità prevalenti
– modi di agire distinti che pensano facciano parte della
loro natura ma – se confrontati con i diversi modi di
intendere il maschile e il femminile nelle diverse culture –
si comprende che sono solo configurazioni arbitrarie. Rendersi
conto dell’arbitrarietà delle proprie appartenenze
identitarie – la nostra condotta è costruita e
potrebbe essere costruita in modi radicalmente diversi –
è il primo passo per svincolarsene. Si tratta di tornare
a considerare gli individui in quanto tali, singolarità
irriducibili ad appartenenze vincolanti, non leggibili secondo
gli stereotipi che caratterizzano il gruppo. Si tratta, come
singoli, di rifiutare modalità di vestirsi, di rapportarsi
agli altri, di discorrere, di pensare stereotipate. Si tratta
di liberare noi stessi dalle attese sociali degli altri e gli
altri dalle nostre aspettative. Si tratta di sabotare, nel vissuto,
lo stereotipo di quello che dovremo essere.
Andare contro l’identità non deve necessariamente
– e forse non può – sfociare in un rifiuto
completo di categorie sociali. Forse non si può immaginare
un mondo dove si possa far a meno delle classificazioni delle
persone secondo criteri di appartenenza. Quello che è
possibile è rendersi conto che tutte le identità
sono costruite, mutevoli e ibridate. Essere coscienti dell’arbitrarietà
delle nostre classificazioni permette di apprezzare i singoli
nelle loro differenze, di cogliere la persona oltre le etichette
che la società gli assegna. La lettura delle appartenenze
altrui diventa così debole – non necessariamente
un singolo rispecchia i tratti del gruppo in cui lo abbiamo
classificato – e fluttuante – la sua identità
e quella del suo gruppo sono soggette a continui cambiamenti.
La lettura delle appartenenze nostre permette di acquisire coscienza
di dinamiche di potere che subiamo inconsciamente e che dettano
il nostro agire. Si può imparare a sovvertire le aspettative
degli altri rispetto ai comportamenti che si attendono da noi.
I circuiti di appartenenza non si dovrebbero fondare su meccanismi
simbolici che richiedono un’obbedienza ma sulla condivisione
cosciente di valori, ideali e vissuti. Praticare la disobbedienza
a questi vincoli sociali – importanti quanto inconsci
–, leggere gli altri e vivere se stessi al di fuori di
schemi prefissati diventa una pratica libertaria. Una pratica
che non può mirare ad una esclusività di una categoria
di «libertari», che non può fondarsi sulla
contrapposizione rispetto ad altre posizioni ma che trova il
suo senso in una condivisione ideale e in una pratica coerente
priva di connotazioni precise.
Liberarsi da un potere prodotto socialmente ma che ci pervade
un po’ tutti, liberare gli altri da un potere che riproduciamo
un po’ tutti.
Stefano Boni
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