riflessioni
Governi, comunità, mutamenti
climatici
La riunione COP 9 sul clima tenutasi a Milano nei primi giorni
di dicembre si è conclusa. Le aspettative in particolare
afferivano alla possibilità di incrementare le modeste
politiche ambientali nel campo della riduzione delle emissioni
anche attraverso la ratifica da parte di altri paesi della convenzione
di Kyoto, la convenzione ad adesione volontaria che autolimita
le emissioni dei singoli paesi in un programma a medio e lungo
termine.
L’esito, come noto, è stato incerto. Da un lato
la politica dell’attuale governo degli Stati Uniti d’America,
tendente alla cancellazione della convenzione e all’annullamento
delle attività in corso, è stata contenuta, dall’altro
la già annunciata non ratifica della Russia ed il comportamento
minimalista di alcuni altri paesi hanno sicuramente rallentato
un processo di per sé non troppo vivace.
I livelli di alterazione del pianeta sono conosciuti: la concentrazione
di anidride carbonica nell’atmosfera (causa principale
dell’effetto serra da cui dipende l’innalzamento
delle temperature) ha superato le 360 parti per milione in volume
(270 prima della rivoluzione industriale); ogni anno 46 milioni
di persone è vittima di inondazioni; un quarto della
superficie del pianeta è oggetto di desertificazione;
negli ultimi dieci anni sono stati tagliati o bruciati 94 milioni
di ettari di foreste; i terreni fertili (coltivabili) sono in
riduzione; il consumo di petrolio dal 1950 è cresciuto
di 8 volte (il 16% della popolazione, ovvero quella dei paesi
industrializzati, consuma il 62% del petrolio, pari a 2,36 tonnellate
l’anno a persona); i ghiacciai perenni sono in scioglimento
(il Kilimangiaro è ridotto dell’80%, negli Stati
Uniti d’America nel territorio del Glacer National Park,
il Parco nazionale dei ghiacciai, non vi sono più ghiacciai
né ve ne saranno per i prossimi cento anni); con l’aumento
delle temperature il volume dei mari si espande e di conseguenza
il livello sale.
Nel continuo incremento negativo di questi fenomeni, che avviene
costantemente e indipendentemente dalle dichiarazioni di principio
e dalle innovazioni tecnologiche, si rilegge la difficoltà
dei governi a delineare un percorso concreto e incisivo per
ridurre in tempi brevi le emissioni ed avviare una politica
che tuteli i principali interessi della popolazione del pianeta,
primo tra tutti la salute e la qualità della vita.
Il Protocollo di Kyoto, ed in genere il percorso tracciato dalla
Conferenza di Rio, prospettava un futuro in cui gli stati governavano
in maniera coordinata i problemi ambientali al fine di migliorare
le condizioni complessive del pianeta. Nella strutturazione
dei documenti e degli obiettivi si intravedeva la possibilità
che le politiche nazionali si potessero orientare verso la regolamentazione
delle attività produttive e verso l’indirizzo dei
processi nel senso di una maggiore efficienza ecologica. Per
quanto riguarda il settore della produzione energetica questo
implicava in maniera dichiarata l’abbandono o la riduzione
dell’impiego dei combustibili fossili e l’avvio
dell’uso in larga scala di sistemi di produzione da fonti
rinnovabili.
Ma Rio e poi Kyoto ipotizzavano anche di più. Ipotizzavano
che si potesse invertire l’aumento dei consumi, che le
foreste sopravvivessero ai tagli e agli incendi, che le comunità
locali, attraverso l’Agenda 21, partecipassero alla definizione
del loro futuro, che si bloccasse il consumo di biodiversità
in atto e tante e tante altre cose che non è possibile
non condividere.
L’ipotesi perseguita era che le informazioni sulla profonda
alterazione del pianeta e sulle deprecabili condizioni della
sua popolazione, unite agli scenari, che presentavano un futuro
planetario di dubbia qualità sociale e ambientale, ed
agli enormi rischi diffusi costituissero quei fattori di modificazione
delle politiche e degli interessi degli stati e dei produttori.
La Conferenza di Rio e i successivi atti sono stati l’esito
di una pressione popolare basata sulla diffusione di consapevolezza
ambientale mossa dalla rivoluzione culturale degli anni sessanta-settanta
e confermata dai tragici incidenti nucleari e chimici che sconvolsero
l’opinione pubblica.
Questa pressione si è principalmente orientata ad esercitare
un indirizzo nelle politiche delle amministrazioni pubbliche
sembrando, allora, che esse avessero la capacità di modificarsi
e gestire il processo di trasformazione che doveva interessare
l’intero sistema produttivo.
La sensibilizzazione sui temi ambientali di tecnici ed amministratori
fece in modo che le politiche avviate rispondessero anche alle
ragioni del miglioramento delle condizioni ambientali. Le stesse
ragioni pervasero i rapporti con le aziende che si risolsero
in una continua richiesta di miglioramenti di efficienza dei
processi.
I nuovi modelli apparivano praticabili in termini di costi economici
e politici, e aziende e amministrazioni pubbliche si mostravano
nel loro insieme generalmente disponibili.
Gli Stati Uniti d’America erano ad un passo dalla firma
e gli altri paesi promossero subito delle modificazioni alle
politiche energetiche. Per anni sembrò possibile che
quanto avviato potesse finalmente affrontare i problemi che
interessavano l’umanità: i consumi ebbero una flessione
(quasi tutta derivante dalla flessione di produzione dei paesi
dell’est), la politica dei paesi massimi consumatori di
energia e controllori della quasi totalità delle risorse
del pianeta (e in primo luogo quella degli Stati Uniti d’America)
era incerta lasciando speranze a percorsi alternativi.
Ma questo scenario si è rapidamente modificato. A dieci
anni di distanza dalla Conferenza di Rio, dopo una breve pausa,
i consumi sono aumentati in tutto il mondo anche nei paesi che
in precedenza hanno sostenuto il Protocollo di Kyoto e per esso
si erano impegnati. Le emissioni inquinanti degli USA sono aumentate
del 13-14%, la posizione assunta dal governo di questo paese
è di aperto boicottaggio al Protocollo; la Russia non
ha ancora aderito ed anche la politica di paesi come l’Italia,
tradizionale sostenitore del percorso avviato, è oggi
più ambivalente e comunque inadeguata agli obiettivi
di riduzione proposte. In Italia le emissioni sono aumentate
del 7,3% (invece che ridursi come previsto del 20%), non solo,
ma i finanziamenti pubblici si concentrano in opere stradali
(69% contro il 31% delle ferrovie, di cui la quasi totalità
in linee ad alta velocità), ed è prevista la costruzione
di centrali elettriche a combustibili fossili che aumenteranno
del 16% la potenza installata e quindi le emissioni).
Che cosa è successo. La base attiva e la capacità
di relazionarsi con la società dei movimenti ambientalisti
si è ridotta; se la consapevolezza delle problematiche
ambientali risulta nei paesi occidentali maggiormente diffusa
essa ha assunto caratteri di maggiore superficialità
e alla generica crescita di sensibilità non ha corrisposto
una altrettanto significativa azione di indirizzo e controllo
da parte della popolazione.
Contemporaneamente è aumentata la pressione dei produttori
sui governi.
Un grande cambiamento è avvenuto negli ultimi venti anni.
I fondamenti di questo cambiamento sono stati la consacrazione
della centralità del mercato all’interno della
società come unico modello per il raggiungimento del
benessere, la penetrazione delle merci nella vita degli individui,
la commercializzazione dell’intero sistema planetario,
naturale e antropico.
I gruppi imprenditoriali, dotati di un sempre maggiore potere
derivante dalla concentrazione della produzione e dai grandi
monopoli merceologici, nella ricerca di continui profitti hanno
messo in atto azioni molto aggressive, fino a pervenire a livelli
di voracità nello sfruttamento delle persone e delle
risorse non più mistificabili.
Il ruolo di mediazione tra interessi privati e interessi comuni
svolto dalle amministrazioni si è molto ridotto ed i
governi hanno riassunto palesemente quel ruolo di formalizzatori
degli interessi privati che già in passato avevano ricoperto
.
La marginalizzazione del ruolo del potere pubblico, teorizzato
ed applicato diffusamente nell’ultimo decennio, ha invalidato
il progetto politico dell’ambientalismo che lo vedeva
come partner principale della modificazione delle attività
e dei comportamenti al fine di ridurre le emissioni e riqualificare
l’ambiente.
Paradossalmente lo “stallo” del Protocollo di Kyoto
e quindi gli esisti della COP 9 sono da considerarsi un successo
non tanto per essere riusciti a mantenere in vita un ambito
di azione comune ai governi ma proprio per avere dimostrata
l’incapacità di questi a risolvere in tempi rapidi
i problemi che interessano l’intera popolazione planetaria.
Visti gli esiti della COP 9, la lentezza e la scarsa incisività
delle azioni avviate, il continuo peggioramento delle condizioni
ambientali del pianeta, si può con tranquillità
sostenere, dopo più di dieci anni dal formale avvio dell’azione
ambientale degli stati (Conferenza di Rio), che:
• I governi sono più sensibili agli interessi delle
compagnie che gestiscono la produzione energetica mondiale piuttosto
che agli interessi dei miliardi di persone che subiscono le
modificazioni climatiche.
• I governi hanno scarsa capacità nel risolvere
i problemi planetari.
• I governi pongono molta attenzione alla demagogia dell’informazione
e appare questa l’unica plausibile motivazione dell’avvio
del programma di finanziamenti per ridurre gli effetti negativi
nei paesi poveri, ridicolo per entità, colpevole per
ideazione (non si lavora sulle cause connesse alle grandi compagnie
imprenditoriali, ma sugli effetti maggiormente localizzati in
territori poveri).
• I governi perseguono una impostazione commerciale (si
interviene nell’ambiente quando questo è un affare)
che riduce l’incidenza di altri parametri e non permette
di modificare significativamente l’organizzazione produttiva.
• I governi usano strumentalmente ogni occasione per sostenere
l’interesse di alcune grandi compagnie statunitensi, come
provato dalla promozione in sede di COP9 dell’uso dei
rimboschimenti geneticamente modificati che sono assolutamente
marginali alla soluzione del problema.
In sintesi la COP9 ha dimostrato al mondo che è errato
ipotizzare un ruolo sostanziale degli stati nel garantire gli
interessi comuni in quanto sottomessi agli interessi dei pochi
soggetti privati in cui si concentra gran parte dello sfruttamento
delle risorse e delle popolazioni del pianeta.
Questa constatazione, che dovrebbe essere alla portata di tutti,
potrebbe portare alla modificazione delle politiche dei movimenti
ambientalisti ridimensionando le aspettative nei confronti dei
governi nazionali e dei soggetti internazionali che sono di
loro emanazione, a fronte di un contemporaneo incremento delle
attività volte alla promozione autonoma di comunità
e di individui che perseguano comportamenti ambientalmente sostenibili.
Ciò non implicherebbe l’eliminazione della pressione
sui governi ma l’acquisizione di una criticità
che sostituisca quella ingenua fiducia riposta in organismi,
quali quelli governativi, che non hanno mai mostrato una capacità
di essere conflittuali con gli apparati da cui sono sostenuti.
Se così fosse le comunità e gli individui avranno
comunque un futuro segnato dai problemi ambientali perché
l’inettitudine e il disinteresse palesati in questi anni
dai governi ha già preparato le tragedie e i danni che
vivremo nei prossimi anni.
Ma se così fosse le comunità e gli individui individuerebbero
un percorso indipendente dalla demagogia e dagli interessi dei
governi, risparmierebbero un mucchio di tempo di ingiustificate
speranze e di conseguenti delusioni e riacquisterebbero il piacere
dell’azione diretta.
testimonianze
Ambiente e modelli sociali
Partiamo dalla fine. Nel dicembre 1835 novecento guerrieri
maori sbarcarono sulle isole Chatham e massacrarono circa 2.000
Moriori che le abitavano.
In questo ci fu lo zampino degli uomini occidentali: una barca
di australiani cacciatori di foche informò i Maori dell’esistenza
delle isole Chatham a loro ignote e della pacifica e praticamente
disarmata popolazione che le abitava.
Siamo in Polinesia. I Maori discendono da un gruppo di agricoltori
polinesiani che hanno occupato la Nuova Zelanda intorno al 1000
d.C. Avevano trovato in essa le condizioni ottimali per le proprie
coltivazioni; crebbero fino ad arrivare a 100.000 unità
solo nell’isola del Nord; divisero il territorio in parti
densamente popolate e costantemente impegnate tra esse in guerre;
sovrapproducevano alimenti e ciò permetteva loro di mantenere
gruppi improduttivi (burocrati, militari); il costante aumento
di produzione alimentare era necessario per mantenere gli improduttivi
e la crescita demografica era necessaria agli eserciti e alle
guerre utilizzate come sistemi per l’appropriazione di
terreni agricoli di altri gruppi. Tutto ciò produsse
uno “sviluppo” tecnologico e sociale..
I Moriori discendevano da un gruppo di agricoltori polinesiani
che avevano occupato la Nuova Zelanda intorno al 100 d.C. e
che da lì si spostarono subito dopo nelle isole Chatham
dove furono cacciatori-raccoglitori; non produssero eccedenze
alimentari; non mantennero eserciti e burocrati; non praticarono
la guerra; erano dotati delle tecnologie sufficienti a prelevare
ciò che era necessario per la loro esistenza.
I due sistemi sociali erano totalmente diversi: i Maori avevano
una organizzazione verticistica, specializzata, iper-produttiva
e quindi aggressiva, militarizzata,
I Moriori praticavano una organizzazione non specializzata,
non volta alla produzione, pacifica.
I Maori avevano un rapporto con la natura del tutto produttiva,
essa serviva a dare da mangiare alla popolazione e non avevano
alcuna consapevolezza dei limiti del sistema in cui erano insediati
sfruttandolo al di la della sua capacità, in primo luogo
attraverso una serrata riproduzione (aumento della popolazione
che spingeva alla ricerca di nuove terre).
I Moriori avevano un rapporto equilibrato con il sistema in
cui erano insediati: utilizzavano le risorse senza danneggiarle
e nel far questo cercavano un equilibrio interno, in primo luogo
limitando il numero degli individui in ragione delle disponibilità
delle risorse (alcuni maschi venivano castrati).
L’esito dei due modelli nell’ambiente fu notevolmente
diverso: l’Isola del Nord era fortemente sfruttata e non
garantiva in termini di risorse il mantenimento del modello
sociale praticato; le isole Chatman furono descritte dai cacciatori
dei foche ai Maori come un paradiso: “c’è
abbondanza di pesci e molluschi, nei laghi nuotano miriadi di
anguille e sulla terra il Karake dà le sue bacche mature…”.
I Moriori erano riusciti a conservare la ricchezza di individui
e la diversità delle specie naturali, condizione necessaria
per rendere facile il prelievo della risorsa, facilità
di prelievo che era posto alla base della loro organizzazione
sociale.
Le informazioni sono prese dal recente e interessante libro
di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie, edito da
Einaudi (Torino, 1998). L’autore considera la Polinesia
un buon laboratorio per la verifica delle relazioni tra ambiente
e tipo di società insediata in ragione della grande diversità
degli ambienti e delle organizzazioni sociali. Egli, proprio
utilizzando l’esempio dei Moriori, arriva alla conclusione
che proprio le condizioni delle isole Chatman impedì
l’impianto delle specie tradizionalmente coltivate e impose
una trasformazione alle popolazioni lì pervenute.
Ma in Polinesia si passa dalle società di cacciatori-raccoglitori
delle Chatman, con densità di 5 abitanti per kmq, fino
ad arrivare ad Anuta, un’isola di 40 ettari e 160 abitanti,
con una densità pari a 400 ab/kmq; si passa quindi da
sistemi sociali verticistici a società non autoritarie
e questo spesso in condizioni ambientali simili.
Il caratteri principale e comune appare l’isolamento dei
diversi territori che ha comunque comportato la necessità
di rendere le popolazioni insediate autonome e tendenzialmente
equilibrate con le risorse.
Si sono così definiti dei sistemi chiusi in cui la definizione
del modello produttivo e sociale dipendeva sicuramente dal contesto
ambientale ma non era esente dall’interpretazione che
a quel contesto ambientale veniva data dalla cultura delle comunità.
osservazioni
sulla contemporaneità
Storie di grattacieli 1:
la demagogia del progresso
A Taipei in Taiwan è stata inaugurata il mese scorso
una prima parte del grattacielo più alto del mondo.
Taipei 101, con i suoi 508 metri di altezza, 101 piani, ha superato
le Torri Petronas, 452 metri, situate in Kuala Lampur (Indonesia),
precedenti detentrici del record di altezza.
Le sue forme ricordano quelle della Torre Jinmao di Shanghai
(il più alto grattacielo della Cina, 421 metri).
La costruzione di grattacieli è molto diffusa anche in
quei paesi del sud-est asiatico, vittime-carnefici dell’economia
globale e dei nuovi mercati, ed è una componente essenziale
del modello insediativo imperante.
I grattacieli comportano degli impatti molto elevati sia in
termini ambientali (aumento dei consumi energetici nella fase
di costruzione, di manutenzione e di funzionamento) ed anche
sociali (mancanza di relazioni tra l’edificio e la città,
l’edificio svolge al suo interno tutte le funzioni) ed
in sintesi non risponde ad alcuna domanda da parte della popolazione
(non si capisce a quale benessere abitativo diffuso vuole rispondere).
Ma attraverso di essi si riescono ad ottenere enormi profitti
(aumento della densità su di una ridotta area, quantità
di metri quadrati vendibili per area edificabile) proprio nei
luoghi delle città dove è maggiore la domanda
di uffici e residenze di lusso, che ben si confondono con la
demagogia del monumento. Tanto da lasciar dire al presidente
di Taiwan, paese con problemi ambientali e sociali elevatissimi
e con città invivibili, a proposito di Taipei 101, “è
il nuovo punto di riferimento della capitale, creerà
opportunità di mercato, di prosperità e di progresso
e collocherà Taiwan nella scena mondiale”.
Storie di grattacieli 2:
la clonazione del bisnonno
Come noto il giorno 11 settembre a New York (Stati Uniti d’America)
sono crollati, in seguito ad un attentato, due grattacieli.
Forse meno noto è che il comune ha rapidamente bandito
un concorso per un progetto di larga massima di sistemazione
delle aree.
I progetti presentati sono stati 5200. La quasi totalità
dei progetti, e comunque nessuno dei primi 10, ha ipotizzato
altro che costruire di nuovo dei grattacieli; come se si dovesse
negare l’esistenza di un fatto quale l’abbattimento
delle torri gemelle, come se si dovesse per forza sostituire
quello che non c’è con la stessa cosa, come se
fosse necessario che il nuovo fosse più grande del vecchio
come se ad una persona gli morisse il bisnonno e lo rimpiazzasse
con uno, qualunque, ma più alto.
Kuala Lumpur (Malesia), Le torri
Petronas
Storie di grattacieli 3:
gestione del sentimento
Il progetto vincitore del concorso per la sistemazione dell’area
delle due Torri di New York pone le sue basi in quella miscellanea
di sensazioni definite dalla campagna governativa dove si mischiano
un superficiale senso del dolore, il disinteresse alla comprensione,
il senso patriottico, il martirio per la civiltà, la
grandezza e la superiorità del popolo, tutto strumentalmente
volto al sostegno delle politiche internazionali e nazionali
del governo.
L’edificio più alto raggiunge i 1.776, piedi la
stessa data della dichiarazione di indipendenza degli Stati
Uniti d’America, e così diviene il grattacielo
più alto del mondo; esso ricorda il profilo della statua
della libertà come essa si presentò al progettista,
giovane immigrato, quando arrivò a New York; la disposizione
degli edifici è tale che un giardino denominato “Parco
degli eroi” si illumini completamente di luce solare solo
in corrispondenza dell’ora e del giorno dell’attentato;
a venti metri di profondità viene conservato un muro
di contenimento del fiume Hudson quale “simbolo eloquente
della ferma resistenza della democrazia al terrorismo”;
gli ultimi piani del grattacielo maggiore sono occupati da vegetazione
che vuole richiamare il senso della vita della rinascita. L’elenco
potrebbe continuare in questo che più che un progetto
è un insieme di luoghi comuni afferenti al tema presi
da culture diverse e unite come in un catalogo del compassionevole
dove però non si dimentica il commercio, così
da fare comparire la “zona zero” come un misto tra
demagogia della memoria e mercato, un cimitero e un supermercato
dove si prega e si compra garantendo così i fondamenti
di quella alienazione propria dell’infelice modello globale
senza tentennamenti sostenuto dal governo statunitense.
Ma il progetto ha vinto anche perché l’ideatore
è egli stesso un progetto.
L’architetto D. Libeskind è un immigrato, polacco,
figlio di sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, progettista
del museo ebraico di Berlino. Egli si è proposto come
il rappresentate di un dolore che si voleva richiamare per rendere
ancora più tragico il già di per sé tragico
evento.
Ma il progetto della figura dell’architetto non è
stato casuale: D. Libskind si è presentato ai media con
spilla raffigurante bandiera americana sulla giacca, presentandosi
sempre come statunitense immigrato, ammiratore del paese e sostenitore
dei principi governativi ed ha sempre tentato di muovere quella
melassa di sentimenti su cui aveva fondato la sua attività
progettuale sottolineando la sacralità del progetto,
anche perché svolto da una persona “segnata”
dalla tragedia e quindi tanto pura da poter essere sacerdote
di quella sacralità che è la ricostruzione degli
edifici.
Storie di grattacieli 4:
gestione dell’interesse economico
Una volta comunicati con grande risonanza i contenuti del progetto
vincitore per la sistemazione dell’area già occupata
dalle torri gemelle in New York, il processo progettuale ha
subito un brusco cambiamento di direzione.
I proprietari dei suoli, che non erano il soggetto che ha bandito
il concorso, recependo le indicazioni del progetto vincitore,
hanno affidato la progettazione esecutiva ad una società,
denominata OMS, di propria fiducia.
La società ha avviato una profonda rivisitazione degli
edifici tesa a ridurre i costi ed aumentare la quantità
di superficie coperta vendibile. Le principali modificazioni
hanno riguardato l’eliminazione del giardino posto nella
parte alta del grattacielo più alto, sostituito da uffici,
e dalla riduzione della profondità della parte interrata;
ma tutto il progetto vincitore è in trasformazione.
La progettazione esecutiva dei parcheggi, anch’essi considerevolmente
aumentati, è stata affidata ad un architetto spagnolo.
Completata la strumentalizzazione demagogica, costituita l’immagine,
entra in gioco l’interesse economico che modifica e adatta
ai propri obiettivi indipendentemente dai valori espressi e
comunicati.
Il libero mercato può fare anche questo: affliggere con
contenuti lacrimosi e squallidi e tessere interessi con essi
conflittuali, abboffare i media di memoria, tragedia, vendetta,
simbologia e concludere all’ombra di questo i propri affari.
Adriano Paolella
antiglo@mclink.it
La prima puntata di questa rubrica, dedicata a
“Energia e comunità”,
è stata pubblicata sul n. 295 di “A”. La
prossima apparirà sul n. 298.
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