Negli ultimi trent’anni
la storiografia sull’anarchismo ha compiuto significativi
progressi, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo.
Opere di vario genere hanno gettato luce su figure, aspetti,
momenti e problemi della storia libertaria italiana e internazionale,
ampliando e approfondendo il quadro generale della sua conoscenza.
Quasi tutti questi lavori, tuttavia, hanno posto l’attenzione
sui personaggi e sugli avvenimenti più noti ed emblematici,
con l’inevitabile conseguenza di delineare un quadro «elitario»
del fenomeno. Mancava cioè, fino ad oggi, una storia
«di base», una storia di quelle migliaia e migliaia
di oscuri militanti che hanno costituito in gran parte il tessuto
connettivo del movimento. Il presente dizionario, ovviamente,
non può colmare tale lacuna; costituisce però,
con le sue duemila voci, uno strumento fondamentale per progredire
in tal senso. Gran parte dei personaggi qui biografati sono,
infatti, «portati alla luce» per la prima volta,
permettendo una conoscenza più ricca del fenomeno anarchico.
Si tratta di uno squarcio della storia politica e sociale italiana
del tutto inedito, che allarga notevolmente lo sguardo generale
sul movimento operaio e socialista e anche, naturalmente, sulla
storia del sovversivismo nazionale e internazionale. Complessivamente
esso copre un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento
alla fine degli anni Sessanta del Novecento, con alcuni prolungamenti
biografici giunti fino ai nostri giorni.
Attilio Bulzamini, secondo da
destra, in partenza per la Spagna
Tre anni di lavoro
Frutto di un lavoro archivistico e bibliografico che per tre
anni ha impegnato a vari livelli oltre un centinaio di studiosi,
esso presenta alcune caratteristiche delle quali è necessario
dar conto. Come si può vedere dalle fonti utilizzate,
la ricerca si è mossa in varie direzioni, al fine di
offrire uno spaccato documentario e interpretativo il più
vario e articolato possibile. Sono stati utilizzati innanzitutto
i documenti relativi al Casellario Politico Centrale depositati
presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, che, come
è noto, offrono la possibilità di ricostruire
l’attività e i movimenti principali dei soggetti
sottoposti al controllo; questi documenti sono stati integrati
con altre carte di polizia e di prefettura provenienti da fonti
diverse. Naturalmente la ricognizione è avvenuta sulla
base della consapevolezza che tali testimonianze presentano
due fondamentali caratteristiche: da una parte l’aspetto
descrittivo e burocratico, dall’altra quello ermeneutico
e storiografico.
In generale, lo storico dell’anarchismo è interessato
solo alla prima caratteristica. Questa, infatti, se gli informatori
sono dei veri professionisti, è costituita dalla somma
– a volte anche copiosa – delle relazioni stese
dagli investigatori sull’attività dei soggetti
sottoposti a sorveglianza. Possiamo così avere una mappa
abbastanza dettagliata degli spostamenti e delle relazioni dei
militanti, acquisendo anche la conoscenza del contesto sociale
e geografico entro cui tutto ciò è avvenuto. Va
tuttavia tenuto presente che queste stesse fonti non sempre
sono attendibili perché la pura registrazione dei fatti
svoltisi nel tempo e nello spazio dice comunque poco rispetto
alla trama effettiva d’azione e d’intenti che animava
veramente i protagonisti. Il movimento anarchico, infatti, è
stato fin dal suo inizio un movimento antilegalitario e rivoluzionario:
senza dubbio, in generale, il più antilegalitario e il
più rivoluzionario dell’intero sovversivismo italiano.
Data questa inequivocabile natura, molte azioni e, ancor più,
molti intenti d’azione, non avendo avuto un seguito concreto
e visibile, sono rimasti ignoti ai contemporanei e ai posteri.
Gli stessi anarchici, poi, quasi mai hanno ricostruito le varie
vicende che li hanno visti protagonisti. Naturalmente queste
considerazioni non implicano affatto l’idea che tali zone
d’ombra costituiscano la parte più interessante
della storia dell’anarchismo: la parte più interessante
e più importante della storia dell’anarchismo è
quella che già conosciamo. Detto questo, vanno comunque
considerati degni di studio tali anfratti storici ed è
ovvio, a questo punto, che le uniche fonti utili per far luce
su di essi siano fornite dagli archivi della questura, della
prefettura e della magistratura.
Alberico Angelozzi
40 paesi 5 continenti
Il fatto che tale documentazione governativa sia stata quasi
sempre presente in questa ricerca, costituendone per molti aspetti
la base principale, è dovuto anche alla ovvia considerazione
che l’azione degli anarchici è, per sua natura,
un’azione immediatamente politica. Il suo carattere
fortemente antilegalitario e rivoluzionario li ha continuamente
posti in un rapporto diretto con le autorità costituite,
attraverso una lotta che si è svolta – come dire
– in prima persona. Ciò spiega perché molti
militanti, al fine di sottrarsi ai vari mandati di cattura,
hanno dovuto sottoporsi a continui e logoranti spostamenti tra
diverse città e regioni e anche, molte volte, a ripetuti
espatri in vari Paesi. Rispetto all’intera massa dei biografati
qui considerata, sono circa il 60% quelli che sono emigrati
dall’Italia almeno per una volta nella propria vita, rimanendovi
lontani oltre sei mesi. Gli anarchici biografati emigrano in
tutto il mondo, toccando oltre 40 destinazioni diverse, dalle
Antille all’Argentina, dalla Bulgaria al Paraguay. Raccogliendo
– per semplicità – i paesi di destinazione
per continente, risulta che gli anarchici italiani soggiornano
prevalentemente in altri paesi europei (70% delle migrazioni
registrate), in particolare in Francia, Spagna, Svizzera e Belgio,
che sono anche fra i paesi più toccati in assoluto (rispettivamente
700, 260, 230 e 130 soggiorni di almeno 6 mesi ciascuno). Seguono
come aree di destinazione l’America latina (13,5%), dove
spicca soprattutto l’Argentina (120 soggiorni), e l’America
del nord anglofona (9,7%, con 150 soggiorni negli Stati Uniti).
L’Africa nel complesso accoglie il 6,2% dei movimenti
migratori, diretti in particolare verso i paesi dell’Africa
mediterranea (Algeria, Egitto e Tunisia). Asia e Australia,
invece, sono mete marginali, con uno 0,3% di soggiorni. Ovviamente
questo dato non è tutto politico, perché molte
emigrazioni sono avvenute anche per altri motivi, soprattutto
per cercare lavoro, ma non si deve dimenticare che spesso la
disoccupazione dei militanti – anche nella più
tranquilla età giolittiana – non era il semplice
portato dell’andamento del mercato del lavoro, ma il risultato
di un processo di emarginazione (licenziamenti e sfratti) del
quale era in larga misura responsabile il continuo e assillante
controllo poliziesco. Il dato in ogni caso conferma ulteriormente
l’idea che, in generale, la vita del militante anarchico,
migrante irrequieto o continuo soggetto di espulsione da una
patria «matrigna», sia stata sempre molto movimentata.
Lo testimonia, del resto, la somma davvero impressionante delle
denunce, delle ammonizioni, degli arresti, delle detenzioni,
dei domicili coatti e di qualsiasi altra forma repressiva collezionata
dagli anarchici (ad esempio, solo nel 1894 risultano 560 gli
anarchici finiti al domicilio coatto). Da questo punto di vista
è incomparabile il tasso di repressione esercitato dalle
autorità governative verso i libertari, rispetto alle
altre forze politiche di segno antimonarchico e anticapitalistico.
Il che, naturalmente ha degli effetti non secondari, nel moltiplicare
ed accelerare i movimenti migratori. Tutto ciò emerge
in modo inequivocabile da quasi tutte le biografie raccolte
nella presente opera. Di qui la difficoltà, per lo studioso,
di ricostruire i percorsi dei militanti, sia sotto il profilo
puramente materiale, sia sotto quello politico e sociale, considerando
anche il dato della forte valenza internazionalistica dell’anarchismo.
Si deve infatti osservare che la ripetuta circolazione europea
e atlantica dei suoi maggiori esponenti deriva, per l’appunto,
da questa caratteristica, che appare del tutto unica rispetto
alle altre formazioni del movimento operaio e socialista. Quest’ultimo,
tra Otto e Novecento, subisce un processo di nazionalizzazione,
mentre l’ala libertaria mantiene inalterata la dimensione
transnazionale della sua azione politica.
Pasquale Binazzi
«Immaginario» poliziesco
Di scarsa – per non dire nulla utilità –
è invece il secondo aspetto accennato sopra, vale a dire
quello propriamente storiografico ed ermeneutico. I rapporti
di polizia e le varie relazioni sugli intenti d’azione
degli anarchici, stilati dagli investigatori, rimangono inevitabilmente
«fuori» dalla vera natura delle cose. Tali documenti,
che pretendono di interpretare l’anarchismo, non solo
sono quasi sempre «grossolani» per l’utilizzo
costante di categorie definitorie burocratiche e precostituite,
ma anche viziati da un ovvio pregiudizio a favore dell’ordine
costituito, che spinge inevitabilmente l’occhio dell’indagatore
a «demonizzare» ogni mossa dell’avversario,
rendendo insignificanti anche quegli elementi di rilievo che
potrebbero verificarsi in un determinato contesto. E ciò
perché tutte le azioni e tutti gli intenti sono posti
sullo stesso piano: il risultato, quasi sempre, è quello
di dedicare la medesima attenzione sia ad un insignificante
episodio sia ad un fondamentale avvenimento. Volendo spingere
in avanti tali considerazioni, potremmo dire che il panorama
delle biografie degli anarchici qui presentate costituisce,
semmai, una ricca e avvincente documentazione dell’«immaginario»
poliziesco in relazione alle sue capacità di valutare
i pericoli reali (dopo Bresci l’ossessione dell’attentato
ai reali determina situazioni che sfiorano la comicità
dell’assurdo) e di difendere lo Stato dagli assalti del
sovversivismo. Ma ciò apre un capitolo di storia istituzionale
che non costituisce oggetto precipuo di questa trattazione.
Naturalmente è stata tenuta in debito conto la differenza
tra le carte prodotte dalla polizia e dalla magistratura durante
l’età liberale e quelle prodotte dalla polizia
e dalla magistratura nel periodo fascista. La differenza consiste
nel fatto che durante la dittatura tutto diventa illegale ed
è perciò facile, per il ricercatore, cadere nella
trappola di «caricare» d’eccessiva importanza
alcuni avvenimenti minori: molti documenti che affollano e appesantiscono
i faldoni archivistici del Casellario Politico Centrale sono
il frutto maniacale di un enfatico rigore poliziesco che giunge
a punte parossistiche (continui e isterici allarmi per questa
o quest’altra possibile azione contro il regime). Quante
«reti» di cospiratori, quanti complessi movimenti
sospetti sono risultati, a un più attento esame, il semplice
frutto della casualità o del modesto sforzo di piccolissimi
gruppi. In conclusione, per lo storico dell’anarchismo
le fonti di polizia sono indispensabili per ricostruire la cornice
dei fatti, quasi mai, invece, per interpretare il quadro esistente
entro tale cornice.
Analisi di testi e opuscoli
Oltre alle fonti offerte dalle carte di polizia, della prefettura
e della magistratura, la ricerca si è avvalsa anche della
stampa periodica anarchica e socialista. Questa ricognizione
è stata poi arricchita dall’analisi dei testi e
degli opuscoli (compresa la memorialistica) pubblicati dai militanti.
In questo caso si è proceduto ad un raffronto continuo
tra la documentazione archivistica e la documentazione bibliografica,
onde individuare il più possibile i punti di consonanza
e i punti di contraddizione. In tal modo si è avuta la
possibilità di «limare» e di rendere più
coerenti molte voci biografiche. Un ulteriore raffronto è
avvenuto comparando molte biografie tra loro, consultando gli
archivi familiari, quelli del movimento libertario e raccogliendo
testimonianze orali, con lo scopo di eliminare eventuali discrepanze
e con il fine di individuare, nel contempo, situazioni ed avvenimenti
comuni, considerandoli alla luce dei grandi momenti della storia
politica e sociale italiana. Si è trattato di un lavoro
complesso rivelatosi lungo e minuzioso e che ha dato buoni frutti,
anche se, inevitabilmente, sono rimaste alcune zone d’ombra
difficili da rischiarare.
Poiché l’oggetto di indagine è stato il
movimento anarchico italiano, lo scavo storiografico si è
modellato sulla base di un criterio metodologico preciso: porre
in primo piano l’azione dei suoi aderenti, cercando di
calarla nel contesto più generale della storia politica
e sociale del tempo. Di qui il tentativo di correlare gli eventi
del mondo libertario con quelli del mondo repubblicano, socialista
e operaio-sindacalista. Si può notare, a questo proposito,
come la forte contiguità fra le varie formazione dell’Estrema
si rinsaldi in modo particolare nei momenti di maggior scontro
sociale e politico. Il quadro complessivo che ne è uscito
rivela in modo assai preciso la natura storica del fenomeno
anarchico, che in parte conferma e in parte smentisce alcune
idee storiografiche rimaste pressoché dominanti fino
ad oggi.
Nel Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale
dello Stato di Roma – Casellario istituito alla fine dell’Ottocento
e rimasto in vigore fino alla Seconda Guerra mondiale –
risultano conservati complessivamente, per l’intero periodo,
152.652 fascicoli personali, di cui 26.626 (pari al 17% circa)
sono schedati come anarchici. Secondo una stima governativa
ufficiale stilata nel 1913, gli anarchici italiani militanti
risultavano allora 4.968, mentre i biografati raggiungevano
il numero di 9.198. Era considerato anarchico militante chi
aderiva alle organizzazioni ufficiali, mentre il biografato
era giudicato tale indipendentemente dall’appartenenza
o meno a un’associazione. Si tratta di una cifra di tutto
riguardo, qualora si considerino i numeri presenti contemporaneamente
nello schieramento della sinistra italiana. In termini «partitici»,
cioè di stretta militanza e appartenenza, l’inferiorità
numerica dei libertari non era così significativa rispetto
alle altre formazioni anticapitalistiche e antimonarchiche:
gli anarchici (circa 9.000) risultavano poco meno di un terzo
dei repubblicani (33.000) e circa un quarto dei socialisti (40.000).
Comunque, dei 26.626 anarchici schedati, annoverati per tutto
il periodo in cui è rimasto in vigore il Casellario,
il presente dizionario ne riporta, sotto forma di lemma, circa
un decimo. In realtà, la cifra è decisamente superiore,
perché spesso sotto una voce apparentemente singola vengono
segnalati più individui. È il caso tipico di alcuni
gruppi familiari biografati sotto il nome dell’esponente
più significativo, padre, madre, fratello, compagno che
fosse, quando non è parso opportuno dare loro uno spazio
autonomo per povertà di notizie o per scarsità
di rilievo del personaggio. Un esempio per tutti. Di Angelo
Galli, morto poco più che ventenne, e i cui funerali
sono entrati nella storia della pittura grazie ad un fortunato
quadro di Carlo Carrà, non si conosce quasi nulla, ma
Angelo figura nella voce dedicata al fratello Alessandro, importante
organizzatore sindacale. A volte, però, non sono i legami
familiari a tenere assieme più individui ma eventi o
azioni collettive che in qualche modo ne esauriscono la parte
recitata nella storia dell’anarchismo e che sono stati
collegati nel dizionario ad una figura che finisce per costituire
il capofila di un gruppo più o meno nutrito.
Carlo Cafiero
Fugace apparizione
Tenuto conto poi che in numerosi casi i personaggi presenti
nel Casellario Politico Centrale (non per tutti esiste un cenno
biografico vero e proprio) hanno fatto solo una fugace apparizione
nel mondo libertario, possiamo senz’altro dire che il
campione considerato è più che rappresentativo
e riflette in modo abbastanza attendibile le caratteristiche
generali dell’intero movimento. La scelta è avvenuta
tenendo conto dell’incidenza e dell’importanza che
i soggetti presi in esame hanno avuto nei confronti della più
generale storia anarchica e socialista, aggiuntovi il criterio
elementare dell’autodichiarazione ideologica dei militanti
stessi e dell’effettiva attività da loro svolta.
Per la maggior parte si tratta di individui che sono rimasti
politicamente sulla breccia per molti anni, nella quasi totalità
sono uomini, le donne rappresentano solo il 3% circa dei biografati.
Questo dato è comune con il resto delle formazioni politiche
dell’epoca e conferma il fatto che la politica, nel periodo
considerato, è un fenomeno soprattutto «maschile»
nel senso che essa è figlia di una cultura dominante
legata ad un mondo dove le donne sono ancora considerate solo
un’appendice dell’umanità. Nel nostro caso
specifico la conferma viene dalle stesse fonti di polizia che
considerano l’attività politica svolta dalla donna
quasi sempre subalterna a quella del marito/compagno tant’è
che spesso i suoi dati sono inseriti nella scheda di quest’ultimo
con pochi riferimenti e notazioni. Tuttavia, le poche biografie
di donne che sono state inserite nel presente dizionario sono
l’esempio di un cambiamento culturale e di costumi. Si
tratta in alcuni casi di figure assai significative nel panorama
italiano, come Virgilia D’Andrea, Nella Giacomelli e Leda
Rafanelli, che rappresentano anche la viva testimonianza della
presa di coscienza del mondo femminile di allora.
Dalla ricerca sono stati deliberatamente esclusi tutti coloro
che sono diventati anarchici durante e dopo gli anni della contestazione
studentesca perché il loro anarchismo è molto
diverso da quello «tradizionale», anche se, ovviamente,
esistono elementi di forte continuità.
Prima di affrontare questioni specifiche, vogliamo premettere
che i dati raccolti sono stati inseriti in un data base che
verrà periodicamente aggiornato in relazione al progresso
delle ricerche storiche tramite il sito web http://www.dbai.it.
Il quadro sintetico dei dati statistici, qui di seguito riportato,
si riferisce appunto a tutte le schede biografiche giunte in
redazione, comprese quelle che per motivi tecnici o per scelte
redazionali non sono state inserite in questa edizione. Queste,
comunque, rappresentano una percentuale minima dell’intero
patrimonio della ricerca.
Classi decennali
Osserviamo innanzitutto che il 73% circa dei biografati è
nato nel periodo che va dal 1860 al 1899; scomponendo il dato
per classi decennali d’età, risulta che la percentuale
di anarchici biografati nati nel decennio 1870-1879 è
pari al 19,7%, e sale rispettivamente al 20,7% e al 22,1% nei
due decenni successivi. Nell’arco dei vent’anni
seguenti – 1900-1919 – la percentuale si riduce
al 14,5%, mentre tra il 1920 e il 1939 si scende all’1,2%
e tra il 1940-1959 allo 0,27%. Sono dati molto significativi
perché individuano il periodo storico entro cui vi è
stata la massima fortuna del movimento, vale a dire l’età
coincidente con il primo cinquantennio della vita unitaria del
Paese. Durante il regime fascista e, posteriormente, nel Secondo
dopoguerra, l’anarchismo italiano subisce un calo numerico
assai vistoso, fin quasi a segnalare, di fatto, una sua estinzione.
Si dovrà attendere l’ondata del ’68 affinché
esso ritorni in auge, tuttavia con forme, sentimenti e ideologie
molto mutati rispetto al passato.
Dunque l’espansione massima del movimento si ha soprattutto
negli anni 1880-1914. Dopo la fase della Prima Internazionale,
l’anarchismo italiano scandisce tre momenti fondamentali
della sua storia: gli anni Novanta, che lo vedono particolarmente
colpito dalla repressione crispina, suggellata dalla «crisi
di fine secolo» (si aggiunga a questo, naturalmente, anche
la dolorosa scissione con i socialisti avvenuta nel 1892); l’età
giolittiana, in cui si assiste ad una sua parziale metamorfosi
sotto la forma del sindacalismo rivoluzionario; infine il moto
della Settimana rossa, dove si consuma – e si frantuma
– la sua maggiore occasione rivoluzionaria e con la quale,
si può dire, si chiude anche l’Ottocento barricadiero.
I militanti che si trovano al centro di queste fasi storiche
costituiscono la parte più ricca, sotto il profilo politico
e ideologico, del movimento. Molti, naturalmente, fanno avanzare
la propria vicenda biografica anche negli anni seguenti; tuttavia
è qui che, per gran parte, si forma e si consolida l’eredità
ideale dell’anarchismo: si tratta, in sostanza, di militanti
pervasi da una «fede» antiautoritaria, anticapitalistica
e socialista; donne e uomini, quasi tutti, formatisi nell’humus
culturale del positivismo e dell’anticlericalismo. Essi
sono altresì animati dalla profonda convinzione che sia
cosa ovvia, giusta e indispensabile lottare per l’avvento
della rivoluzione liberatrice. Sono quella parte dell’Italia
che non si è arresa alla vittoria istituzionale della
monarchia e che rifiuta radicalmente ogni sorta di compromesso
politico e sociale, crede nel progresso ma, ancora più,
nell’azione risolutrice prodotta da minoranze agenti.
Non sono giacobini, ovviamente, però hanno alle spalle
i miti rivoluzionari prodotti dall’Ottocento: il ’48,
il Risorgimento, la Comune di Parigi (molto diverso sarà
invece l’Ottobre del 1917); miti, peraltro, che sono giunti
fino ai giorni nostri.
L’entrata dell’Italia in guerra provoca un piccolo
scossone nelle file libertarie perché una parte, peraltro
molto minoritaria (anche se rumorosa), si dichiara a favore
dell’intervento. Dal punto di vista numerico, l’interventismo
anarchico italiano è irrilevante. Il fenomeno, però,
è significativo in quanto evidenzia alcuni elementi eterogenei
e contraddittori del carattere culturale dell’anarchismo
dovuti all’evidente insorgenza idealistica e irrazionalistica,
nel momento stesso in cui entrano in crisi molte credenze positivistiche
ed evoluzionistiche; non a caso un certo numero di questi interventisti
aderirà in seguito al fascismo. Nello stesso tempo, però,
mette in luce la persistenza di modelli culturali contigui a
quelli del mondo repubblicano, che affondano le proprie radici
nella tradizione risorgimentale delle guerre di liberazione
nazionale e in una ricca vena di tensioni di tipo garibaldino
alla Cipriani. A questo proposito, le biografie riportate risultano
assai emblematiche: da una parte, infatti, esse testimoniano
un percorso che, oggi, potrebbe sembrare del tutto logico e
scontato, dall’altra mettono in luce alcune ambivalenze
dell’idea libertaria, la quale può effettivamente
prestarsi a interpretazioni non completamente «canoniche»
rispetto ai suoi fini ultimi.
Maria Giaconi
Disgregazione lenta, ma irreversibile
Con il Primo dopoguerra e poi il periodo fascista, la situazione
cambia moltissimo perché, dopo un momentaneo protagonismo
culminato nei moti per il caroviveri dell’estate del 1919
e nell’occupazione delle fabbriche dell’agosto-settembre
1920, inizia il periodo della disgregazione del movimento; disgregazione
che sarà lenta, ma irreversibile.
La lotta degli anarchici italiani contro il fascismo è
stata fin dall’inizio una lotta radicale e senza esclusione
di colpi. Anche in questo caso le voci biografiche riportate
danno un supporto notevole a tale giudizio: laddove i militanti
hanno potuto mettere in atto la propria autonoma azione, senza
che questa fosse condizionata dai tatticismi e dalle titubanze
delle altre forze politiche antifasciste (specialmente in alcune
zone della Toscana, della Liguria, delle Marche e del Lazio),
si è assistito alla notevole capacità di rispondere
colpo su colpo alle azioni squadriste. Segno evidente che esisteva
in queste aree un rapporto osmotico tra anarchici e popolazione
locale. Possiamo osservare il fatto, molto significativo, che
sono un centinaio i militanti, qui biografati, «arruolatisi»
nelle formazioni degli Arditi del popolo (l’unico serio
tentativo «militare» di risposta allo squadrismo
nero); formazioni, peraltro, quasi sempre promosse e sostenute
dagli anarchici stessi.
Tra il 1922 e il 1927 vi è la diaspora drammatica degli
esponenti maggiori e dei militanti più attivi; gli altri,
quelli che non possono espatriare, sono messi a tacere o con
il carcere o con il confino (per quest’ultimo aspetto,
è possibile costatare che, a fronte del numero complessivo
delle biografie prese in esame, i confinati risultano 228, pari
al 12%). Molti militanti, anzi la stragrande maggioranza, ancor
prima dell’istituzione del Tribunale Speciale, sono sottoposti
a lunghi procedimenti penali che in gran parte si riferiscono
alle lotte del Biennio rosso e all’opposizione armata
al fascismo, subendo condanne durissime, come nel caso dei processi
collettivi avvenuti in Toscana e Emilia Romagna. Coloro che
sfuggono alle maglie della giustizia statale e fascista sono
sorvegliatissimi ed impossibilitati ad agire. Si lacera, per
i libertari, un tessuto politico-sociale stratificatosi nel
corso dei decenni precedenti, con la perdita secca dell’aggancio
organico con la realtà; una perdita che, in generale,
non sarà più recuperata. È vero che la
repressione dittatoriale colpisce anche le altre forze politiche,
tuttavia si può affermare, senza alcun dubbio, che il
movimento anarchico è quello che subisce, più
di qualsiasi altra formazione antifascista, gli effetti devastanti
dell’esilio politico. Sotto il profilo delle vicende strettamente
biografiche (personali e pubbliche), si deve, infatti, sottolineare
che molti militanti saranno bersagliati dalla repressione governativa
anche nei Paesi che avevano concesso loro l’iniziale ospitalità,
con il risultato di fiaccare in modo pesante le energie del
movimento, spese soprattutto nell’opera di difesa politica
e giudiziaria. Anche in questo caso, le voci esaminate testimoniano
le drammatiche vicende di tali excursus, quasi sempre del tutto
eccezionali rispetto a quelli offerti dalla maggior parte del
fuoriuscitismo italiano. La mancanza di punti di riferimento
internazionali – se escludiamo gli aiuti della vasta comunità
libertaria italo-americana del Nord America, la Cnt spagnola
durante la prima fase della Guerra Civile e la debole Ait berlinese,
sostenuta soprattutto dalle piccole formazioni anarcosindacaliste
svedesi e olandesi – impedisce agli anarchici di costituire
robuste reti di appoggio che non siano quelle prodotte dal consueto
volontarismo solidale.
Contributo alla lotta antifascista
A questo punto corre l’obbligo di ricordare l’enorme
contributo degli anarchici italiani alla lotta antifascista
combattuta in terra iberica. Sono quasi 250 – il 13% circa
sul totale dei biografati – i militanti che sono accorsi
nel 1936 a difendere la repubblica dall’assalto nazifascista
e, ancor più, ad aiutare i compagni spagnoli nello sforzo
titanico di costruzione di una nuova società: ci riferiamo,
naturalmente, a quella Spagna rivoluzionaria descritta da Orwell
nel suo Omaggio alla Catalogna. Gli anarchici nel complesso
delle forze di volontari italiani che combatterono durante la
Guerra civile sono secondi e di poco solo ai comunisti. Le ricerche
storiografiche hanno individuato in poco più di 4.000
gli italiani accorsi in Spagna, di questi circa un migliaio
sono comunisti mentre le cifre riguardanti gli anarchici parlano
di 700/800 volontari. In rapporto alla propria consistenza numerica,
lo sforzo esercitato in Spagna dagli anarchici italiani con
la perdita di molte vite si è rivelato, per alcuni aspetti,
esiziale. Ciò spiega perché gli anarchici non
abbiano avuto una parte determinante nella Resistenza: il movimento,
per molti aspetti, era esangue. Tuttavia non sono nemmeno pochi
– poco più di 200, pari al 10,6% delle biografie
– coloro che hanno combattuto, anche con formazioni proprie,
contro i nazifascisti.
Venendo ora alla dislocazione geografica del movimento anarchico,
che ratifica in un certo senso gli snodi principali della sua
storia collettiva, anche qui abbiamo una conferma di alcune
precedenti acquisizioni storiografiche perché si nota,
senza ombra di dubbio, che la stragrande maggioranza del «popolo»
anarchico si colloca nell’Italia centrosettentrionale.
Spicca, in primo luogo, la Toscana con il 31% dei biografati,
seguita dall’Emilia Romagna con il 15,5%, la Lombardia
con il 10%, le Marche con il 7,3%, il Lazio con il 5,8%, il
Veneto con il 4,7%, il Piemonte con il 4,6% e finalmente la
Sicilia con il 4,2%; le altre regioni presentano un numero di
militanti inferiore (considerando il medesimo periodo temporale,
si tratta di una distribuzione che non è molto lontana
da quella registrata dal partito socialista). Questi dati fotografano
una situazione stabilitasi fin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento
(e protrattasi fino al Secondo dopoguerra), quando il movimento,
dopo un’iniziale espansione nelle regioni meridionali,
si era concentrato nella fascia centrale e centrosettentrionale
della penisola.
Il parziale spostamento del movimento dal Sud al Centro-Nord,
avvenuto dopo gli anni Settanta dell’Ottocento, riflette
indubbiamente il suo tasso di radicamento nel tessuto sociale
ed economico del Paese, nel senso che il mutamento va letto
considerando il contesto italiano della lotta antagonista fra
capitale e lavoro. Certamente gli anarchici non rappresentano
la punta più avanzata del movimento operaio in termini
di stretto sviluppo industriale (se si considera, cioè,
il classico triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria). Però,
sotto questo riguardo, non sono neppure legati a una situazione
di arretratezza, come è documentato dalla loro parziale
metamorfosi nel sindacalismo rivoluzionario. Sono molte le voci
biografiche dedicate a personaggi che hanno avuto anche posti
di notevole responsabilità nel movimento sindacale (Camere
del Lavoro, Leghe di Resistenza, Federazioni di categoria).
Va ribadita perciò un’acquisizione che deve essere
definitivamente fatta propria dalla storiografia: fino all’avvento
del fascismo, il movimento anarchico è parte organica
e attiva del movimento operaio e, più in generale, di
tutto il movimento dei lavoratori. Lo è non soltanto
sotto il profilo dell’azione politica, ma anche sotto
quello della composizione sociale.
Clamorosa smentita
E veniamo, così, ad un altro elemento importante emerso
dalla ricerca. I dati che essa offre smentiscono clamorosamente
alcuni precedenti stereotipi storiografici relativi all’ambito
sociologico. Se rammentiamo, infatti, ciò che è
stato asserito quasi sempre sull’argomento – secondo
cui il movimento anarchico era composto, per la maggior parte,
dai ceti artigianali e piccolo borghesi (di qui la connessa
– e sconnessa – idea della sua arretratezza politica,
sociale e culturale) – si deve invece costatare che la
stragrande maggioranza dei suoi aderenti proveniva dalle fasce
sociali più basse. Si tratta, cioè, di un movimento
autenticamente popolare, qualora si consideri che esso conta
il 64,75% di lavoratori salariati, il 25% di lavoratori autonomi
e poco più dell’8% di liberi professionisti. In
realtà queste macro aggregazioni ci dicono ancora poco.
Molto più significativo il fatto che circa il 32% del
campione preso in esame è composto da operai del comparto
industriale ed estrattivo, con una considerevole presenza di
metallurgici e di minatori; più del 9% da edili, mentre
nell’ambito artigianale abbondano calzolai (6%) e falegnami
(3,6%). Altrettanto significativa è la scarsa presenza
di lavoratori della terra, con solo il 3,5% di braccianti, segno
di una quasi totale egemonia socialista nell’area del
bracciantato classico, della preponderanza cattolica nell’ambito
degli obbligati e di quella repubblicana tra i mezzadri. Nonostante
la diffusione del sindacalismo rivoluzionario in alcune aree
agricole padane (piacentino, ferrarese, mantovano, parmense,
basso modenese ecc.) si può affermare che gli organizzati
abbiano più recepito il messaggio dell’azione diretta
tout court che non accolto quello di una società
libertaria. Il debole radicamento nelle campagne evidenzia il
volto urbano dell’anarchismo, la sua geografia dei mestieri
cittadini o che comunque gravitano sulla città oppure
la sua dislocazione in zone periferiche ma ad alta concentrazione
operaia e del tutto interne allo sviluppo capitalistico (come
i centri minerari). Sarebbe tuttavia limitativo cercare di individuare
un gruppo sociale o specifiche categorie di lavoratori alla
base del movimento anarchico italiano. Per fare un esempio relativo
alla Toscana, la regione più ricca di umori libertari,
l’anarchismo si attesta solidamente tra i cavatori di
Carrara, i minatori del Valdarno, i siderurgici di Piombino,
i portuali e i lavoratori dei cantieri di Livorno, i ceramisti,
i vetrai, i ferrovieri, i muratori e i «pigionali»
di Pisa, i muratori di Firenze. In città come Milano,
dove era concentrata gran parte dell’attività editoriale
nazionale, consistente ad esempio è il gruppo dei tipografi,
mentre ad Ancona assume rilievo la presenza di scaricatori di
porto. Questi elementi, puntualmente ricavabili dalle biografie,
fanno definitivamente giustizia di tutte le affermazioni categoriche
volte a trasformare, in un senso o nell’altro, l’universo
libertario in una sorta di «idealtipo» ad uso di
letture tutte politiche.
Armando
Borghi
Pochi i borghesi e i benestanti
Rispetto all’intera massa che viene qui biografata, sono
pochi gli individui provenienti dai ceti borghesi e benestanti,
come pochi, del resto, sono coloro che hanno raggiunto la laurea
(3,4%) o hanno frequentato le scuole liceali o altre scuole
superiori equivalenti (5,3%). La ricerca ha messo bene in evidenza
altresì come gli anarchici pongano un’attenzione
particolare alla formazione culturale propria e dei lavoratori
cercando di colmare autodidatticamente le lacune derivate da
un’istruzione che per la gran parte dei biografati si
ferma al ciclo scolastico delle scuole elementari. Il militante
autodidatta è protagonista di molte iniziative editoriali,
che, benché spesso di breve durata a causa della scarsità
dei mezzi o della repressione poliziesca, hanno ricoperto un
ruolo rilevante sia nel campo propriamente giornalistico sia
in quello più ampio della formazione culturale delle
avanguardie politiche e sindacali delle classi subalterne italiane
tra Otto e Novecento.
Altri elementi, di più difficile identificazione e con
minore possibilità di comparazione, si possono comunque
desumere da una lettura complessiva dell’opera. Tra questi,
il livello di integrazione degli anarchici nell’ambiente
sociale che li circonda traspare dall’analisi della struttura
stessa delle famiglie, nonché dai tramiti e dall’età
di approccio alle idee libertarie. Prendono così forma
le «comunità» proletarie urbane e dei borghi,
la cui ossatura è formata dal variegato associazionismo
operaio e laico, di cui gli anarchici sono parte integrante;
«comunità» con una forte carica «antagonista»
e una prassi solidale e ribelle che negli anni ha costituito
uno dei tratti più caratteristici di questa «contro
società» in divenire contrapposta, con i suoi riti
laici e modelli comportamentali etico morali, a quella borghese.
E in questo contesto la scelta anarchica è per i più
non una fase di ribellione giovanile ma un’opzione politica
ed esistenziale durevole. Nella presente opera, tuttavia, vengono
prese in considerazione anche figure che hanno legato all’anarchismo
solo una fase della propria vita, o la cui presenza può
essere stata costante ma sempre sottotono, e questo spiega perché
molte biografie siano brevi, per non dire scarne. Abbiamo però
voluto inserirle ugualmente perché, considerate complessivamente,
forniscono il senso di una rivisitazione storiografica che si
è mossa deliberatamente anche verso lo scavo archivistico
e bibliografico dell’elemento locale e particolare al
fine di fornire una rappresentazione a «tutto tondo».
Irriducibile federalismo
Proprio quest’ultima considerazione ci introduce all’ultimo
aspetto preso in esame, nel senso che l’analisi della
dislocazione geografica ci rivela pure un carattere «forte»
dell’anarchismo: il suo fondamentale e irriducibile federalismo.
Il movimento anarchico italiano, ancor più di quello
francese e di quello spagnolo, è, infatti, costituito
da una base al plurale, nel senso che ogni gruppo e
ogni federazione, e persino singoli militanti, tendono a fare
politicamente in proprio, dando vita ad una serie svariatissima
di iniziative, specialmente di carattere editoriale e culturale
(stampa di periodici e numeri unici e pubblicazione, in proprio,
di testi anarchici classici; la diffusione regionale della produzione
cartacea, ripropone la distribuzione geografica del movimento:
è maggiormente presente, ancora una volta, in Toscana,
Emilia Romagna, Marche e Lombardia). Sono queste diversificate
realtà che costellano e formano la sua azione complessiva.
La molteplicità dell’azione anarchica è
del tutto consona alla sua diversificazione ideologica, nel
senso che nel movimento esistono e convivono, fin dall’inizio
– anche se a volte in modo rissoso – differenti
tendenze ideali e politiche: comunista, socialista, mutualista,
individualista, sindacalista, antimilitarista, educazionista,
pacifista; oltre alla costante divisione fra organizzatori e
antiorganizzatori. Si delinea, insomma, una struttura decentrata,
costituita da innumerevoli punti attivi nei quali è possibile
rintracciare l’esistenza di questo irriducibile pluralismo
fondato sulla pratica dell’«azione diretta»
e sulla preminenza assegnata all’opera di «apostolato»
espressa con la propaganda orale e scritta.
Emerge, in tal modo, l’antropologia dell’anarchico:
ribelle e orgoglioso del proprio sapere e della propria scelta
politica. Un elemento quest’ultimo che, senza nulla togliere
ai militanti di base di altri partiti e organizzazioni, rende
sempre più significativo un approccio volto a cogliere
la specificità dei singoli anarchici attraverso le loro
biografie nel tentativo di intessere le storie individuali nella
più vasta trama della vicenda collettiva di ampi settori
della società italiana.
Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele
e Pasquale Iuso
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