Osservava Edoarda Masi
sul «Manifesto» dello scorso 27 dicembre come, dal
punto di vista dell’ideologia globale dominante e delle
sue convenzioni, oggi più che mai «impegnate a
disegnare falsi nemici per negare l’evidenza di quelli
reali», l’impegno della lotta al terrorismo abbia
ormai sostituito, non senza profitto, quello anticomunista in
nome del quale «i governanti degli Stati Uniti e i loro
alleati» hanno motivato, nei cinquanta anni successivi
alla fine della seconda guerra mondiale, «ogni nefandezza
esercitata sui popoli, repressione di movimenti popolari con
milioni di morti e fino alla ricolonizzazione di gran parte
del mondo». Una volta crollata l’Unione Sovietica
e sconfitti o scomparsi quasi ovunque i partiti comunisti –
in effetti – quella crociata avrebbe dovuto concludersi,
ma ciò non è stato: assistiamo, anzi, a «una
progressiva escalation nella aggressività e
nella relativa propaganda, negli interventi armati fuori dai
confini nazionali, nella repressione violenta di qualsiasi movimento
popolare.» L’unica differenza è che «l’etichetta
‘lotta al comunismo’ è stata sostituita con
quella di ‘lotta al terrorismo’ per procedere sulla
vecchia strada e per gli stessi inconfessati vecchi motivi».
In questa costruzione pro domo propria di un nuovo impero del
male, «al ‘terrorismo’ viene arbitrariamente
associata ogni forma di violenza (armata, fisica, morale), e
infine di lotta (armata e disarmata): si tratti di rivolta individuale
o di gruppo, insurrezione popolare, guerra di liberazione o
di indipendenza, guerriglia, conflitto sociale, lotta di classe
e persino rivendicazione sindacale.»
L’osservazione, come quasi sempre quelle della Masi, era
acuta e pertinente, e del resto ha trovato immediata convalida,
nello stesso preciso giorno, in una delle tante interviste di
Berlusconi, quella, poi smentita, come di consueto, in cui il
presidente del consiglio passava con disinvoltura dai temi,
appunto, della lotta al terrorismo (incentrati, per l’occasione,
su un fantomatico attacco aereo al Vaticano, da cui lui solo,
in pratica, avrebbe salvato il pontefice) a quelli dello sciopero
dei servizi pubblici. Ma di una conferma così puntuale
non c’era, in fondo, bisogno. Del terrorismo, ormai, si
potrebbe dire quello che è stato detto, senza offesa,
del Padre Eterno: che se non esistesse bisognerebbe inventarlo.
Bisognerebbe, s’intende, nell’interesse esclusivo
del dibattito politico, che, orbo dell’argomento, incontrerebbe
non poche difficoltà a focalizzarsi su qualcosa d’altro.
In Italia, tanto per fare un esempio, con tutti i problemi che
ci sono non si parla di altro da almeno trent’anni.
Paradossale nostalgia
Il pericolo terrorista, nella variante italiana dell’ideologia
globale, ha la strana caratteristica di enfatizzarsi nel momento
stesso in cui lo si direbbe sconfitto. La classe politica nazionale
non si è mai rassegnata, in un certo senso, alla scomparsa
della lotta armata degli anni ’70 (che pure con il terrorismo
aveva a che fare solo in via marginale e in un senso piuttosto
lato): ne ha sempre provato una specie di paradossale nostalgia.
Ai primi di novembre, lo ricorderete, è bastato l’arresto
di un certo numero di (sedicenti?) eredi della principale organizzazione
eversiva di quegli anni, un gruppo di personaggi inquietanti
– certo – e responsabili di azioni nefande, forse
(si vedrà al processo), ma certamente incapaci, per livello
organizzativo e articolazione del discorso politico, di rappresentare
un vero pericolo per le istituzioni, per scatenare una straordinaria
canea, con l’obiettivo, ormai tradizionale, di accollare
all’opposizione l’unica colpa, quella della radicalità
politica, di cui il suo patrimonio genetico è vistosamente
privo. Evidentemente l’occasione era sembrata troppo ghiotta
per lasciarla cadere, nel senso che di una politica «normale»,
fondata sulla pacifica rappresentanza di interessi legittimamente
contrapposti, senza alcun accento da patria in pericolo, sono
in troppi, a destra come a sinistra, ad avere paura.
Il caso italiano, peraltro, non è l’unico. Negli
ultimi mesi di terrorismo abbiamo sentito abbondantemente parlare
anche in tutt’altri contesti. Uno degli argomenti più
comunemente usati per deprecare (chissà perché)
gli esiti del noto sondaggio dell’Eurobarometro, quello
che rivelava una certa tendenza nei cittadini europei di considerare
un pericolo per la pace lo stato d’Israele, che è,
tutto sommato, un punto di vista assai ragionevole, perché
è difficile essere pacifisti, o semplicemente pacifici,
quando si occupano militarmente dei territori altrui, è
stato quello per cui chi ha risposto in quel senso non aveva
compreso la necessità principe cui deve far fronte Sharon,
che è quella, ovviamente, di combattere il terrorismo.
E un altro bel figuro, il presidente Putin, in visita a Roma
in novembre per il vertice russo europeo, si è affrettato
a scrollarsi da dosso con l’abituale cinismo le responsabilità
del genocidio in Cecenia spiegando che, in quell’infelice
paese, il suo governo è impegnato, guarda un po’,
in una dura lotta al terrorismo internazionale. La tesi, com’è
noto, è stata entusiasticamente fatta propria dal solito
Berlusconi, e non sarà stata una combinazione fortuita.
Quello dei ceceni e dei palestinesi, d’altronde, non è
l’unico caso di lotta a sfondo etnico e nazionale etichettata
dai suoi nemici in quei termini. E non mi riferisco soltanto
al fatto che a essere bollate di terrorismo siano state, immediatamente,
le prime manifestazioni di resistenza in Iraq contro l’occupazione
americana. Sappiamo tutti che qualcosa del genere è già
successo, nel breve arco del secolo scorso, agli irlandesi,
ai baschi, ai curdi, agli algerini, agli yemeniti, agli armeni
e a chissà quante altre rispettabilissime comunità
nazionali un po’ riluttanti a sottostare a una logica
internazionale che ne negava i legittimi diritti. È successo
persino, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale,
al movimento sionista, ma chi se ne ricorda, adesso?
Una non categoria
Dovrebbe sembrare strano, in linea di principio, che la stessa
definizione derogatoria venga applicata indifferentemente a
realtà tanto diverse, quali le forme estreme di lotta
politica minoritaria o le attività di una serie di movimenti
nazionali, che, quale che sia il giudizio che se ne può
dare, sono ben radicati e largamente diffusi nel proprio paese.
Ma questo è precisamente il punto. Quella di terrorismo,
in fondo, non è una categoria politica, nel
senso che non è una definizione che qualcuno possa pensare
di applicare a se stesso, un termine discutibile, forse, ma
dotato di una possibile valenza positiva. Gli ultimi a usare
l’espressione in quel senso devono essere stati, salvo
errore, il visconte Louis-Antoine-Leon de Saint Just sul fronte
dello stato e i populisti russi su quello dei suoi nemici, e
non è andata bene né agli uni né all’altro.
Di terrorismo, oggi, si accusano esclusivamente gli altri, guardandosi
con molta cura dall’analizzare l’eventuale presenza
di cause oggettive che giustifichino, o aiutino a comprendere,
quella che è, in ogni caso, un’evidente manifestazione
di crisi. Si tratta, insomma, di un’imputazione puramente
negativa, di una specie di sanatore universale a uso dei detentori
del potere, la cui utilizzazione, più che a descrivere
o giudicare il comportamento di qualcun altro, mira a giustificare
a contrario il proprio, motivandolo come necessitato
dalla altrui nefandezza e riottosità. In questo senso,
finisce immancabilmente con l’essere definito terrorista
chiunque, a prescindere dalle sue motivazioni e dai suoi argomenti,
si azzardi a mettere in discussione il monopolio statale della
violenza. Finché, naturalmente, non gli capita di vincere
(ogni tanto succede) e di essere promosso ipso facto
nella categoria degli eroi.
Visto che di eroi del genere non abbiamo comunque bisogno, varrebbe
la pena – forse – di rivedere da capo tutto il problema.
Carlo Oliva
Bombe,
pacchi bomba e ordigni
La
Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica
Italiana, in riferimento alla comparsa di una fantomatica
«FAI (Federazione Anarchica Italiana)» che
avrebbe rivendicato le esplosioni di via Gerusalemme a
Bologna:
– denuncia la natura grave e infamante dell’attribuire
questo tipo di fatto a una sigla che allude comunque a
quella della FAI-Federazione Anarchica Italiana: chi addita
un gruppo di compagni/e alla repressione è un poliziotto
o un suo collaboratore;
– rivendica il portato storico dell’organizzazione
anarchica come si è configurata dal Congresso di
Saint Imier del 1872 fino ai deliberati costitutivi della
UAI del 1920 e della FAI del 1945: organizzazione
che non è affatto informale, perché
fa della chiarezza e della collegialità dei mandati
il suo atto di garanzia di un metodo libertario ed egualitario
di prendere le decisioni;
– ribadisce la propria condanna di bombe, pacchi-bomba
e ordigni, che possono colpire indiscriminatamente, e
comunque paiono più che altro funzionali alle logiche
della provocazione e della criminalizzazione mediatica
del dissenso. In una fase in cui gli anarchici sono fra
i protagonisti delle lotte sociali, dagli scioperi alle
iniziative contro la guerra;
– ribadisce che gli strumenti di lotta delle anarchiche
e degli anarchici federati sono dispiegati nelle piazze,
nel sociale, nel sindacalismo autogestionario e di base,
nei movimenti, nelle decine di città in cui gestiamo
circoli pubblici, nella aperta opposizione alle logiche
del dominio e dei terrorismi di Stato, per la costruzione
di una società di liberi ed eguali.
Commissione
di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana
Reggio Emilia, 28.12.2003
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