Per quanti si richiamano alle idee libertarie di emancipazione
e solidarietà, un momento irrinunciabile di riflessione
è rappresentato dalla figura e dall’esempio di
Errico Malatesta (Santa Maria Capua Vetere 1853 – Roma
1932), l’anarchico campano che più di ogni altro
ha contribuito alla vita dell’anarchismo organizzato e
alle idee che l’hanno sostenuto. Questo spiega l’interesse
costante destato dalla sua vita e dalle sue idee. Giampietro
«Nico» Berti, docente di Storia contemporanea all’Università
di Padova e autore di numerosi e importanti testi sull’anarchismo
e il pensiero libertario (tra questi vogliamo ricordare Francesco
Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo
liberale, Angeli 1993, Un’idea esagerata di libertà,
Elèuthera 1994 e Il Pensiero Anarchico dal Settecento
al Novecento, Lacaita 1998), ha portato recentemente a termine
quella che può essere considerata la biografia «definitiva»
di Malatesta (Errico Malatesta e il movimento anarchico
italiano e internazionale. 1872-1932, Angeli 2003),
ricostruendo compiutamente, in più di 800 pagine, la
vita e il pensiero del «più grande rivoluzionario»
italiano.
Dialogando con l’autore, abbiamo cercato di ripercorrere
la complessità e il valore di questo importantissimo
volume.
M. O.
Una biografia che mancava
Di biografie di Malatesta già ne esistevano
molte, quelle di Max Nettlau, di Luigi Fabbri, di Armando Borghi.
Inoltre, negli anni, sono stati pubblicati altri studi che affrontavano
aspetti più o meno complessivi del suo pensiero e della
sua esperienza di lotta. Perché, dunque, questo libro
su Malatesta?
Prima di tutto per la banale ragione che mancava, che ancora
non c’era. Non c’era assolutamente nulla dal punto
di vista di una storiografia scientifica che potesse essere
all’altezza delle aspettative di un lettore medio. Infatti
siamo fermi a biografie come quella di Luigi Fabbri, che risale
a circa settant’anni fa. E anche se questa è per
certi versi essenziale, perché avendo Fabbri frequentato
a lungo Malatesta, poteva parlare di una esperienza personalmente
vissuta, non ha però il carattere di un’opera storiograficamente
scientifica. E poi perché Malatesta è stato indubbiamente
il più grande rivoluzionario italiano, forse europeo,
fra l’Otto e il Novecento, e ricostruire la sua vita significa
ricostruire la vita del movimento anarchico italiano e internazionale.
Un’opera così complessa, e completa, ha
senza dubbio richiesto un notevole lavoro di documentazione.
Quali sono state le fonti che hai maggiormente utilizzato?
Seguendo lo schema consueto e storiograficamente tradizionale,
ho utilizzato tutte le fonti disponibili, sia di carattere archivistico
che bibliografico, e non è certo stato un lavoro facile.
Malatesta infatti ha avuto una vita eccezionale, fatta di sessant’anni
di storia del movimento operaio e socialista e di esperienze
politiche e sociali diverse in moltissimi paesi, quindi ho dovuto
seguirne le tracce un po’ ovunque, utilizzando le fonti
archivistiche non solo italiane, ma anche francesi e svizzere,
senza dimenticare gli importantissimi fondi dell’IISG
di Amsterdam. A questo va aggiunto lo spoglio dei giornali e
degli opuscoli, e così, incrociando tutto questo materiale,
ho potuto ricostruire la storia di Malatesta.
Perché tu hai scritto il libro su Malatesta
e perché sul movimento anarchico italiano e internazionale?
Malatesta è stato un personaggio assolutamente fuori
dal comune, non paragonabile a nessun altro. A differenza di
altri esponenti dell’anarchismo, come ad esempio Francesco
Saverio Merlino (solo una parte della sua vita, la prima, si
incrocia con quella del movimento anarchico italiano e internazionale)
non si può scriverne la biografia prescindendo dal contesto
italiano e internazionale in cui si muove, quindi il titolo
del libro diventa obbligato. Perché «io»
ho scritto questo libro? Finora mi ero occupato più del
pensiero anarchico, e infatti la biografia di Merlino era sostanzialmente
una biografia intellettuale, mentre Un’idea esagerata
di libertà e Il Pensiero Anarchico dal Settecento
al Novecento riguardano la storia delle idee. Qui invece
ho voluto affrontare Malatesta fino in fondo, come dire «la
carne e il sangue» dell’anarchismo, nel senso di
un’idea che si fa storia, movimento. E anche se altri
anarchici hanno avuto questa dimensione, nessuno è più
rappresentativo di Malatesta. Si pensi a Bakunin, che è
considerato il fondatore dell’anarchismo; ebbene, lui
è stato anarchico per soli 10-12 anni, da quando, fuggito
dalla Russia, arrivò in Italia, nel 1863-64, fino al
1876. Prima era rivoluzionario ma non anarchico. E anche Kropotkin
ha fatto attività rivoluzionaria anarchica, di pensiero
ed azione, solo dal 1872, la prima volta che venne in Europa,
e fino al 1883 e al processo di Lione. Quando va in Inghilterra,
nel 1886, ha ancora un pensiero rivoluzionario, ma passa trent’anni
a Brighton a fare il naturalista e il geografo. E lo stesso
Reclus ha fatto il rivoluzionario durante la Comune di Parigi,
ma dopo? Chi è stato rivoluzionario tutta la vita? Solo
Malatesta, e non per 10 anni ma per 60, basti pensare che conosce
Bakunin nel 1872 e muore al tempo di Alida Valli e dei telefoni
bianchi, in pieno fascismo. È uno stato di servizio eccezionale
che nessun anarchico, nessun altro rivoluzionario, nessun uomo
d’azione del movimento operaio e socialista può
esibire.
In effetti dal libro emerge chiaramente che il percorso
di vita e di lotta di Malatesta è al tempo stesso il
percorso di vita e di lotta del movimento anarchico. C’è
una identificazione completa, e Malatesta dà un’impronta
di sé a un movimento che non sarebbe stato e non sarebbe
quello che è senza di lui.
Senza dubbio. Malatesta esprime una grande modernità
perché pur mantenendo una salda radice materialistica,
spezza e abbandona il determinismo positivistico ed evoluzionistico,
immettendovi una idea forte di volontà, e quindi di eticità.
Facendo così del movimento anarchico italiano qualcosa
di molto diverso da quello francese, che oscilla fra una concezione
partitica e una spontaneistica. Al contrario, la sintesi equilibrata
fra volontarismo, spontaneismo e concezione scientifica della
realtà, tipica del movimento italiano, è dovuta
a Malatesta. In questo senso il movimento anarchico italiano,
anche se Malatesta è stato per lunghi periodi fuori dall’Italia,
è modellato sul suo pensiero e sulla sua azione.
Un altro elemento che esce con forza dalle tue pagine
è la qualità di vita di Malatesta. La sua, infatti,
è una vita straordinaria, non solo per l’attività
svolta, ma anche per la grande dignità che l’ha
sempre caratterizzata. Tu lo definisci il vero grande rivoluzionario.
Spiegami come puoi arrivare a questa definizione, dato che nella
storia italiana ed europea di grandi rivoluzionari ce ne sono
stati molti. Forse perché in loro vita pubblica e privata
non hanno coinciso, a differenza che in Malatesta?
Malatesta è l’anarchico integrale, che vive in
coerenza assoluta fino alla fine. E la profonda radice etica
di questa coerenza è quella mazziniana, unire cioè
pensiero e azione e modellare la propria vita al servizio di
questa idea. In tal senso Malatesta è un rivoluzionario
di professione, ma anomalo, perché a differenza di altri
rivoluzionari di professione che vivevano, quasi tutti, facendo
i pubblicisti, i giornalisti o gli intellettuali (basti pensare
a Lenin, a Costa e, in campo anarchico, a Galleani, Fabbri,
Gori), Malatesta è l’unico che vive facendo un
lavoro manuale, guadagnandosi così, presso i compagni,
una grande forza e autorevolezza morale. Il punto fondamentale
è che, pur essendo un grande pensatore, non concepiva
minimamente il pensiero staccato dall’azione, e questo
spiega la sua capacità di affrontare costantemente la
realtà.
Grandezza morale
Nonostante che nel corso della sua lunghissima esperienza
rivoluzionaria l’elaborazione teorica di Malatesta sia
in continua evoluzione, l’aspetto etico e morale non cambiano
mai. È forse questa la sua qualità maggiore?
Indubbiamente. La grandezza dell’uomo è dovuta
alla statura morale. Questo spiega anche perché non esista
una documentazione sufficientemente chiara che faccia luce sulla
sua vita privata. Io ho tentato di dire qualcosa parlando dell’esilio
londinese, ma espongo i risultati in modo problematico, perché
non possiamo avere la certezza che quanto si diceva della sua
vita privata fosse effettivamente ciò che era. Personalmente
propendo a crederlo, ma non completamente, solo in parte, e
quindi lascio un margine di dubbio: lui non ha lasciato scritto
niente al proposito e nemmeno i suoi biografi e i compagni che
l’hanno conosciuto hanno detto qualcosa, quindi come possiamo
fidarci delle fonti di polizia, che potrebbero dire solo una
parte di verità? Quanto invece emerge chiaramente è
che l’aver avuto una vita così privata testimonia
che a questa ha lasciato uno spazio talmente poco rilevante
da non condizionare quella di militante. È veramente
un uomo votato a una missione totale.
Tutto questo effettivamente trova un grande risalto
nel tuo libro, non solo la sua integrità, ma anche la
capacità di dare un significato profondo all’esistenza.
E al tempo stesso di trascinare le masse, di esercitare su di
loro un grandissimo ascendente. E non solo sugli anarchici,
ma anche sui militanti di altri partiti.
Negli anni novanta, per fare esempio, Malatesta ha grande influenza
fra i portuali londinesi, e un italiano che avesse ascendente
su lavoratori inglesi era davvero un fatto eccezionale. Purtroppo
non abbiamo molta documentazione al riguardo ma le descrizioni
fatte dall’ambasciatore a Londra sono significative. Questo
era possibile perché viveva fra questa gente, non giungeva
da fuori, ne era parte organica.
Lo stesso si può dire a proposito della Settimana
rossa, quando esplose – come tu evidenzi – laddove
Malatesta aveva predicato nei mesi precedenti. Se infatti si
segnano su una cartina geografica le località dove aveva
parlato (e tu le citi per intero in un elenco puntiglioso e
completo) balza agli occhi che sono le stesse dove la Settimana
rossa prese fuoco. Questa efficacia nell’influenzare tutti
i sovversivi, e non solo gli anarchici, mi sembra uno dei motivi
per cui, se si eccettuano forse gli ultimi anni, Malatesta parlerà
sempre di fronte unico, o meglio della necessità di allearsi
con i repubblicani, i socialisti rivoluzionari e le altre forze
politiche.
È un’idea che ha sempre avuto. Risale già
agli anni novanta, poi l’ha modellata, articolata, perfezionata.
Capiva che gli anarchici non avrebbero potuto fare la rivoluzione
da soli e quindi ci si doveva alleare con altre forze. Fatta
la rivoluzione, vi fosse poi campo libero, perché tutti
potessero propalare le proprie idee.
Dal 1900, per molti anni, se si escludono alcuni rari
interventi come quello al Congresso anarchico internazionale
di Amsterdam del 1907, Malatesta rimane sostanzialmente assente
e silenzioso, tanto che questo suo comportamento preoccupa,
e non poco, Fabbri e gli altri anarchici italiani. Che interpretazione
dai di questo comportamento così anomalo per un uomo
d’azione come Malatesta?
Premetto che la mia è solo una supposizione, una deduzione
che non si basa su alcun documento, anche se tutto conduce a
questo. Parto dall’ipotesi che, in una certa misura, Malatesta
avesse a che fare con l’attentato di Bresci, che quasi
sicuramente sapesse che Bresci avrebbe cercato di uccidere Umberto.
Bresci ha avuto sicuramente dei complici e questo è assodato,
è già stato dimostrato da altri che hanno ricostruito
le sue mosse. Comunque non intendo «complici» in
senso stretto, vale a dire compagni che sapevano, contribuivano
e concorrevano all’azione, ma altri anarchici che si sono
trovati a dare una mano nell’impresa. Non parlo quindi
di impresa collettiva, perché questa rimane, a tutti
gli effetti, un’impresa individuale, sia in termini ideologici
che fattuali. Sono convinto che anche Malatesta sapesse e lo
si capisce quando parla di Bresci come di un amico intimo, di
quello che a Paterson gli salva la vita perché fa deviare
il proiettile sparatogli contro. Veniamo allora al silenzio
di Malatesta. Malatesta sbaglia (anche lui ha fatto errori ma
questo forse è il più grave, comunque non è
che, diversamente, avrebbe potuto modificare il corso della
storia) perché si illude che l’attentato scateni
una forte reazione in grado di innescare una insurrezione popolare,
e per due o tre anni resta fermo su questa convinzione. Solo
attorno al 1903-1904 capisce, si rende conto del suo errore
di valutazione. In effetti mentre nel 1898, dopo i moti milanesi,
poteva pensare che la polveriera stesse per scoppiare, ed era
quindi legittimo nutrire questa convinzione, ora, allorché
vede che nulla si muove, cade in una sorta di depressione. Malatesta
infatti, pur abitando a Londra, andava spesso a Parigi, anche
tre o quattro volte l’anno, e lì si incontrava
con gli esuli anarchici italiani che erano in contatto con l’Italia
più di quelli che risiedevano in Inghilterra. E sentendo
il polso della situazione per nulla promettente, si costringe
all’inazione, e questa inazione forzata lo spinge a una
forte depressione (qui troviamo ancora il mazziniano, l’uomo
d’azione, portato a intendere, in un certo senso, l’insurrezione
come «colpo di mano») per cui nemmeno scrive, perché
a differenza di Fabbri, non riteneva che in quella situazione
avesse una qualche importanza. Se guardiamo quanto ha pubblicato
Malatesta in questo periodo, vediamo che sono tutte cose uscite
precedentemente, che di nuovo c’è ben poco, l’intervento
ad Amsterdam e poco altro. In questi anni quel poco che scrive
o fa lo aveva già scritto in precedenza. Quando invece
sente che l’aria comincia a cambiare, dopo il settembre
del 1911 e la guerra di Libia, allora scalpita e si dà
da fare per tornare, anche se poi riesce a rientrare solo nel
1913.
Cambiamento di rapporti
Sono gli anni in cui il giolittismo getta la maschera,
dunque, visto che nel primo decennio, dopo la morte di Umberto
«si aprono i cordoni» al movimento. Se non ricordo
male affermi che Malatesta non comprende che con Giolitti cambiano
i rapporti tra governo e governati, ma forse questa incomprensione
è dovuta anche al fatto che si succedono scontri di piazza
con decine, se non centinaia, di morti.
Indubbiamente il riformismo giolittiano è un riformismo
machiavellico come tutti i riformismi, ma i cosiddetti eccidi
proletari non sono il frutto della repressione, ma piuttosto
il contraccolpo di una liberalizzazione. Mi spiego. Con la liberalizzazione,
e il maggior spazio concesso alla attività sindacale
(la politica di Giolitti era di non intromettersi nel rapporto
tra lavoratori e capitale), le prime organizzazioni di resistenza
hanno un margine d’azione più ampio e questo significa
che possono scendere in piazza, che la polizia reprime più
di prima e ci sono i morti, ma i morti non sono dovuti a una
precostituita volontà di reprimere, ma al contraccolpo
dovuto a questa liberalizzazione. Sotto Crispi e le leggi speciali,
le masse non avrebbero nemmeno potuto manifestare e quindi,
paradossalmente, non ci sarebbero stati neppure i morti.
Torniamo a Malatesta. Finalmente nel 1913 riesce a
rientrare e poco dopo scoppia la Settimana rossa.
Certo, e la fa scoppiare lui. Il più grande tentativo
rivoluzionario verificatosi in Italia è dovuto all’azione
di Malatesta. In sei mesi è riuscito a costruire un movimento
e, se ha compiuto un errore, questo è dovuto alla sua
troppa bravura, al non aver fatto le cose con più calma.
Senza considerare, poi, che lo scoppio della guerra, poco dopo,
avrebbe fortemente spiazzato tutto il movimento anarchico. Senza
la guerra, invece, la Settimana rossa sarebbe stata seguita
da altri movimenti insurrezionali, perché Malatesta aveva
davvero messo in moto qualcosa di rivoluzionario, difficile
da fermare.
Dopo la guerra comunque c’è il biennio
rosso e l’occupazione delle fabbriche e il ruolo e l’attività
di Malatesta sono nuovamente determinanti.
Sì, però è la situazione che cambia. Durante
la Settimana rossa il principale protagonista, la punta di diamante,
chi trascina l’elemento sovversivo è il movimento
anarchico, seguito dai repubblicani, mentre i socialisti fanno
ben poco, a parte alcuni sindacalisti e i massimalisti (si ricordi,
comunque, che è il massimalista Serrati a proclamare
la cessazione dello sciopero da Venezia). Dopo la guerra non
è più così, la punta di diamante non è
il movimento anarchico e nemmeno quello socialista: chi trascina
il movimento è qualcosa all’esterno, che si chiama
rivoluzione bolscevica. Dopo il ’17 tutto il movimento
sovversivo ha il problema di confrontarsi con la rivoluzione
russa e anche se gli anarchici non sono mai stati così
importanti, incisivi e numerosi come nel biennio rosso, raggiungendo
il punto più alto del proprio sviluppo (si pensi alla
fondazione dell’Unione anarchica italiana e alla pubblicazione
del quotidiano «Umanità Nova»), però
non sono più i maggiori protagonisti, perché ora
ci sono i comunisti e tutto è cambiato. Inoltre si parla
del biennio rosso come di una grande situazione rivoluzionaria,
ma in realtà la vera situazione rivoluzionaria si era
verificata nel 1919 perché successivamente si va da una
situazione di empasse all’altra e l’apice
è l’occupazione delle fabbriche che in realtà
rappresenta il fallimento del biennio rosso. Se vuoi fare la
rivoluzione devi distruggere il potere, cosa che non si ottiene
occupando le fabbriche. E difatti, una volta occupate le fabbriche,
ci sono rimasti chiusi dentro un mese, ma poi sono dovuti uscire.
Il vero atto rivoluzionario è occupare la questura, le
poste, le caserme, la prefettura, in modo che non ci sia più
il prefetto a diramare gli ordini.
Questo, però, può essere interpretato
come un «colpo di mano», ben differente dalla lotta
di massa. In Russia hanno occupato il Parlamento, ma hanno occupato
anche le fabbriche. Forse vanno fatte entrambe le cose.
Sì, però devi prendere i centri del potere, altrimenti
non fai la rivoluzione. Questo potrebbe sembrare un retaggio
giacobino, ma gli anarchici la volevano fare o no, la rivoluzione?
Comunque Malatesta non era certamente un giacobino, lui, a differenza
dei giacobini, non vuole occupare, ma distruggere i centri del
potere.
Malatesta a volte fa errori di valutazione, ma più
spesso è preveggente. A proposito della rivoluzione russa,
tu ricordi una sua «profezia», quando prefigura
la fine che faranno non solo la rivoluzione russa ma i suoi
dirigenti. Non c’è ancora Stalin, ma lui già
prevede che ci sarà uno Stalin, e che questo Stalin ucciderà
Trotsky.
È davvero una profezia straordinaria, che dimostra la
sua capacità di comprendere dove avrebbe inevitabilmente
condotto la via autoritaria al socialismo.
Tu individui tre fasi fondamentali nella evoluzione
del suo pensiero, al cui interno però permangono sempre
alcuni principi fondamentali, quali la coerenza tra mezzi e
fini, la concezione volontaristica della rivoluzione, il laicismo
visto come antitesi rispetto al fideismo. E dimostri che la
sua lucidità si esprimeva nell’apprezzamento delle
differenze e nella comprensione della loro necessità.
Questo si riscontra anche nell’elaborazione teorica dell’anarchismo.
Tanto che mi sembra davvero la parabola del movimento.
Il primo periodo è quello che si chiude nel 1884, quando
Malatesta è ancora immerso in una sorta di positivismo
fortemente influenzato dal marxismo. Il secondo è il
periodo che nasce con «L’Agitazione», e nel
quale maturano i concetti del volontarismo, del socialismo anarchico,
dell’etica come coerenza tra mezzi e fini, della libertà
intesa come entità laica. Il terzo periodo parte dal
1922-1924 e può essere definito come quello del gradualismo.
È importante osservare che, mentre nel periodo centrale,
che va dal 1897 al 1914, pur essendosi emancipato dal positivismo,
non ha ancora formulato chiaramente questi concetti, è
solo nell’ultimo periodo che si verifica il distacco completo
dal positivismo e dal determinismo. Tutto diventa più
chiaro soprattutto quando ha queste intuizioni formidabili sul
ruolo della scienza. È eccezionale se si pensa che nessuno
diceva quello che diceva Malatesta sulla scienza, ad esempio
che questa non può rispondere alle domande ultime della
vita. E lo dice in un famoso articolo apparso su «Volontà»
nel 1913, una critica radicale alla scienza e alla valutabilità
della scienza. Se la scienza non può produrre né
bene né male e la conoscenza scientifica è solo
un mezzo, a sua volta anche la concezione anarchica non è
«scientifica»: l’anarchia è qualcosa
che verrà se si vorrà farla, è una eterna
possibilità ma non insita nello sviluppo della storia,
è una possibilità latente della civiltà
umana, ma non un suo esito ineluttabile.
“O facite, o vi futtite”
Mi sembra che lui lo sintetizzi splendidamente quando,
rivolto ai contadini del Matese, li apostrofa così: «I
fucili e le scuri ve li avimo dato, i curtelli li avite. Se
volete facite, e se no vi futtite». A tuo parere questo
è uno dei momenti fondamentali della consapevolezza di
Malatesta su come affrontare il problema rivoluzionario.
Certo, quando comprende che le minoranze possono rompere una
situazione, ma non costruirla, perché questo possono
farlo solo le masse. È come una minoranza che entra in
una prigione e apre le porte, ma non può poi costringere
i detenuti ad uscire.
Tornando alle tre fasi evolutive di cui stavamo parlando,
ci sono cesure fra queste oppure c’è un unico filo
che le lega?
C’è la cesura alla fine degli anni novanta, quando
si rende conto che la rivoluzione non può essere fatta
da quattro gatti, ma deve essere un’impresa collettiva.
E che come tale va contestualizzata in un determinato spazio
e in un determinato tempo, e tu non puoi determinarli astrattamente,
ma devi calartici e fartene pervadere. In questo senso è
tra i primi a concretizzare l’incontro con il sindacalismo,
e lo stesso Pelloutier riconoscerà che gli spunti fondamentali
gli erano stati dati nel 1893 da Malatesta assieme a Merlino.
E quando questa elaborazione arriva a completa evoluzione,
il problema della organizzazione diventa centrale.
Se analizziamo il Patto associativo della Unione anarchica
italiana, scritto da Fabbri nel 1920, ma in effetti ispirato
da Malatesta, vediamo che è di grandissima modernità,
perché vi troviamo il massimo concetto di organizzazione
compatibile con il massimo concetto di libertà individuale
e collettiva. Questo è il punto più alto dello
sforzo, perché prefigura un equilibrio che definirei
addirittura artistico. È davvero eccezionale e vi è
condensato tutto il pensiero di Malatesta: l’organizzazione
è indispensabile, ma solo se piegata al fine e non il
fine piegato all’organizzazione. Questa è la chiave
di volta per capirne la modernità.
Quindi cesure da un punto di vista tattico e strategico,
ma non da un punto di vista etico.
Lui rimane sempre contro la storia. Fino alla fine. Tutte le
forme storiche mutano e bisogna avere la consapevolezza di questo
mutamento, ma questo non deve condizionare i nostri fini. Noi
dobbiamo prendere questi fini e relazionarli alle diverse circostanze,
ma senza mutarli.
Il momento centrale è sempre la volontà
che determina l’etica. In questo si differenzia da tutti
gli altri.
Certo. Per questo è il più grande rivoluzionario,
ma anche come statura intellettuale, perché lui riusciva
a vedere oltre anche grazie alla sua esperienza di vita. Uno
che è stato in tutto il mondo, in America latina e in
America del nord, in Inghilterra e in Francia, in Spagna e in
Olanda, ma chi altri? Turati, oltre Milano, cosa aveva visto?
E Costa, a parte un pezzo di Francia? Tieni poi presente che,
purtroppo, il mio lavoro riporta alla luce solo un 20% di quello
che ha fatto Malatesta, mentre il resto è sommerso in
una coltre coperta dal tempo e che nessuno potrà più
ricostruire. Ad esempio, non sappiamo nulla dei tentativi che
non sono andati a buon fine, ma questo non significa che, per
il fatto che non siano andati a buon fine, siano da considerare
degli aborti. Non possiamo sapere se e cosa hanno effettivamente
provocato, conosciamo solo gli effetti, e può essere
che non sappiamo quale sia stata la vera causa che li ha generati.
Quali sono gli aspetti più importanti del pensiero
malatestiano, della sua elaborazione teorica, come della sua
riflessione intellettuale?
La cosa più importante consiste nell’aver scisso
l’etica dalla conoscenza scientifica, affermando così
che l’etica non ha un fondamento oggettivo. Poi c’è
la critica del positivismo e dello scientismo, e la grande lucidità
nel capire che nella storia umana non contano i rapporti di
forza, ma quelli esistenziali. E che le costruzioni razionali
del mondo non hanno fondamento, perché il mondo si muove
non per cause razionali, ma esistenziali. Qui Malatesta ha una
lucidità davvero spaventosa, perché comprende
che, cambiando i rapporti di forza, cambiano anche le visioni
razionali della vita e della storia. Questo nella pratica, lo
porta a pensare che gran parte delle diatribe di carattere ideologico
in fondo sono fasulle, perché sui problemi veri ci si
trova uniti e, se si guarda alla sostanza, la realtà
impone un approccio esistenziale che immediatamente risolve
le fumisterie di carattere ideologico.
Questo si riflette anche nel fatto che Malatesta, pur
essendo un grande realista, non è mai per la Realpolitik.
Eh, no, perché altrimenti sarebbe per il compromesso.
Lui è invece realista, e questo realismo è al
tempo stesso la sua forza e la sua debolezza, perché
determina anche continue sconfitte: sarebbe infatti facile vincere
inseguendo la Realpolitik, ma così piegheresti il fine
che ti sei proposto, scardinando in tal modo la necessarietà
della coerenza. A lui interessava creare una situazione rivoluzionaria,
pensava che fosse necessario che tutte le forze sovversive potessero
manifestare i propri progetti, ed era sicuro che, poiché
il movimento anarchico è il più razionale e universale,
in una libera concorrenza di idee avrebbe vinto lui. In questo
senso possiamo dire che in lui c’era una forte matrice
illuminista.
Si parla del gradualismo rivoluzionario, riformatore,
del senso della sperimentazione.
Il gradualismo non è riformismo, perché questo
è un accomodamento con la realtà, mentre lui vuole
fare la rivoluzione. Solo che la rivoluzione e la costruzione
della società futura non possono essere fatte dalla sera
alla mattina, ma devono passare attraverso la libera sperimentazione.
Il suo è un atteggiamento laico, perché non prevede
nessuna formula, né il comunismo, né il socialismo,
né il mutualismo. Sarà la realtà a dire
come andranno le cose. In questo senso, il suo è un pluralismo
sperimentatore.
Non dogmatico
Questo concetto della sperimentazione, che è
alla base del suo laicismo, questa capacità di prefigurare
varie possibilità di realizzazione dell’anarchia,
tutto questo forse spiega come si sia potuto far comprendere
ovunque. E lo dimostra la sua fortuna editoriale, con le innumerevoli
traduzioni delle sue opere. Secondo alcuni calcoli, solo in
Italia sarebbero state tirate circa 300.000 copie del Fra
Contadini e, contando le traduzioni estere, ci si avvicina
al milione. Questo ci parla della sua universalità, fatta
di laicismo ideologico e di aderenza del suo pensiero alle situazioni
reali. In sessanta anni di attività rivoluzionaria, Malatesta
viene a confrontarsi con tutti i problemi inerenti all’essenza
dei movimenti rivoluzionari, sia etici che politici, sia strategici
che tattici. Tra questi, tra i più importanti, il rapporto
tra democrazia e dittatura, il problema dell’insurrezionalismo,
quello della violenza. Nel confrontarsi con questi, a volte,
offre risposte differenti.
Non essendo un dogmatico, le circostanze hanno molta importanza,
quindi anche le risposte possono non essere sempre uguali. La
violenza è una dolorosa necessità e un rivoluzionario
non può rifiutarla per principio, però bisogna
che ce ne sia sempre il meno possibile. Ecco perché dice
che bisogna usare tutta la violenza necessaria subito, così
da non doverla usare dopo, e che deve essere intesa solo come
la risposta all’offesa altrui, e non come violenza pura.
Anche rispetto al problema delle concezioni ideologiche, comunismo,
collettivismo, individualismo, ecc., Malatesta non li considera
problemi essenziali perché sono solo formulazioni ideologiche.
A un certo punto però passa definitivamente
dal collettivismo al comunismo.
Certo, ritiene che il comunismo sia la soluzione migliore,
però non dice mai che è l’ultima parola,
perché alla fine quello che veramente interessa agli
anarchici è la libertà.
Se, in quella prima fase di cui parlavamo, le sue posizioni
potevano apparire, non dico settarie, ma molto interne al movimento
e rigide rispetto al dialogo con una realtà più
ampia, progressivamente, e soprattutto nella terza fase, diventa
più possibilista, più disposto ad accettare e
accentuare il gradualismo. Questa sua parabola mi sembra la
stessa del movimento anarchico.
E qui si inserisce il problema del fascismo e la comprensione
di quel fenomeno. Nel mio libro affermo che, soprattutto agli
inizi, Malatesta non si rende conto della «originalità»
del fascismo (e in questo si trova in buona compagnia, con Gramsci,
Togliatti, Nenni, Salvemini...), del suo carattere totalitario.
Ma quando, tra il 1924 e il 1926, subisce direttamente la dittatura
e gli viene impedito qualsiasi movimento, quando avverte lo
smantellamento dello stato liberale, allora comprende l’importanza
del suo retaggio storico. Questo è il maggiore contraccolpo
del fascismo sul pensiero di Malatesta, che si riflette anche
in quelle considerazioni su democrazia e dittatura che, una
ventina di anni prima, erano state al centro della sua polemica
con Merlino. Ora non dice più che la democrazia è
uguale alla dittatura, ma piuttosto che gli anarchici non sono
democratici, e questo è ben differente.
Quindi, probabilmente, se la polemica con Merlino fosse
stata fatta in altri momenti, per certi versi avrebbe detto
molte delle cose dette da Merlino?
Indubbiamente, ma questo non toglie nulla alla sua eticità
rivoluzionaria, perché avrebbe riaffermato anche le sue
convinzioni. Ciò su cui si deve intervenire, che bisogna
rimettere a posto, è l’apparato dei mezzi, non
quello dei fini. Non bisogna mai, infatti, intaccare i fini,
perché questi non dipendono dalla circostanza. Qui sta
la grandezza, ma anche la drammaticità, del pensiero
di Malatesta. Un lettore superficiale potrebbe pensare che fosse
un idealista, mentre lui è un materialista, ma drammatico,
e proprio perché é un materialista, non può
fondare gli ideali nella circostanza materiale. È questo
il punto più alto della riflessione di Malatesta.
Un altro aspetto fondamentale del lavoro e dell’attività
di Malatesta è la comprensione della dimensione sociale
dell’anarchismo rivoluzionario. Sappiamo che in più
momenti, nella storia dell’anarchismo, si incontrano una
dimensione filosofica avulsa dalla realtà o una individualista
di carattere asociale, e con queste tendenze Malatesta ha dovuto
polemizzare per anni e anni.
Basti pensare a tutto il tempo che Malatesta ha perso con gli
individualisti. Parlare della mancanza di una dimensione sociale
sarebbe come chiedersi se possiamo fare a meno dell’aria.
Questa è un’ipotesi che, ovviamente, non può
neppure essere messa in discussione, eppure Malatesta doveva
dibattere anche con chi voleva togliere l’aria. La sua
dimensione della socialità, comunque, è intesa
nella sua complessità, nel fatto che l’uomo è
un essere complesso e quindi, essendo complesso, è anche
un essere sociale. Anche con una dimensione individualistica,
se vogliamo, comunque sempre sociale, perché non puoi
toglierlo dal suo contesto.
Descrivendo i testi propagandistici e divulgativi di
Malatesta, Al caffè, Fra contadini
e L’Anarchia, che definisci il grande trittico
di questo rivoluzionario, tu parli di metodo socratico, di un
metodo dialogico e pedagogico.
Questo è molto evidente sia in Fra contadini
sia in Al caffè. Cosa si intende per metodo
socratico? Dare la possibilità all’interlocutore
di giungere in modo autonomo alla «verità»
senza imporgli dogmaticamente dei principi, ma aprendogli tutte
le possibilità. Vediamo come si svolge. Malatesta fa
dire a un interlocutore: tu fai questa affermazione; bene, questa
a sua volta implica tot possibilità e allora
le vai a esaminare, e ognuna di queste ne implica altre ancora;
e vai a vedere anche queste e si va avanti così finché,
di deduzione in deduzione, si arriva a una conclusione. Questo
è veramente un metodo socratico!
Dalla Bulgaria all’Argentina
E in questa complessità, riesce sempre a conservare
una straordinaria semplicità espositiva.
E come spiegheresti, altrimenti, che Fra contadini
venga letto dalla Bulgaria all’Argentina? È talmente
universale e geniale quel dialogo! E guarda anche Al caffè,
dove i personaggi sono il repubblicano, il conservatore, il
rivoluzionario, il socialista, l’anarchico e così
via. Attraverso gli attori rappresenta tutti i movimenti.
Veniamo ora a quella che forse è la sua opera
«definitiva», il Programma anarchico, scritto a
cavallo del secolo e poi riveduto, fino alla stesura conclusiva,
discussa e accettata al Congresso dell’UAI del 1920. La
sua accettazione, tra l’altro, è ancora il presupposto
per l’adesione alla FAI. È ancora valido, e credi
anche che Malatesta lo riscriverebbe uguale?
A mio parere è ancora più che valido. Al massimo
potrebbe essere ritoccato qua e là, ma i punti restano
quelli, i fini restano quelli, cosa potresti dire di più?
Quando ad esempio parla di «Organizzazione della vita
sociale per opera di libere associazioni e federazioni, fatte
e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati
dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione
che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno,
vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile,
volontariamente si sottomette». Questo cosa vuol dire?
Che è inutile che discutiamo perché la circostanza
impone la consapevolezza del principio di realtà. Ad
esempio, se noi cerchiamo di realizzare un progetto, possiamo
ovviamente discutere su come farlo andare avanti, ma se ci scontriamo
con un fatto oggettivo, allora dobbiamo sottometterci a un qualcosa
che non si può determinare. Quindi la libertà
è in rapporto con questa necessità naturale, ma
quel «fatte e modificate» sta a significare che
nulla è definitivo. È tutto in tre parole. E anche
quando parla della famiglia! «Ricostruzione della famiglia
in quel modo che risulterà dalla pratica del libero amore
da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica,
da ogni pregiudizio religioso». Lui non è per l’abolizione
della famiglia, del nucleo famigliare, perché dice che
è un’entità insuperabile.
Per concludere. Finora abbiamo parlato del Malatesta
politico, dell’agitatore, del Malatesta pensatore e divulgatore
dei principi anarchici. Un tuo giudizio umano su Malatesta.
Malatesta è il più grande rivoluzionario dei
suoi tempi, questo è scontato. Ma, secondo me, per la
sua levatura etica e morale, è anche uno dei più
grandi uomini di questa epoca, alla pari con un Gandhi, un Tolstoj,
con questi giganti dell’Otto e Novecento. E questa ormai
sta diventando opinione comune anche fra storici di estrazione
marxista. Proprio recentemente D’Orsi, recensendo il mio
libro su «La Stampa», definisce Malatesta come uno
dei più grandi protagonisti della scena antagonista del
Novecento. Come si fa a negarne la grandezza? Certo, Bakunin
ha inventato l’anarchismo, ma Malatesta è l’anarchico
integrale e anche il più moderno, e il movimento anarchico
e l’anarchismo sono impensabili senza di lui.
Massimo Ortalli
Errico
Malatesta visto da Fabio Santin
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