Quando, l’11
settembre del 2001, due aerei di linea si abbatterono sulle
Twin Towers di New York ed un altro rovinò sul Pentagono,
politici e media insistettero sulla cesura che tale avvenimento
segnava. «Niente sarà come prima» era il
motivo dominante di una campagna martellante che mirava a consegnare
alla storia un evento talmente cruciale da assumere valenza
epocale, al punto di segnare una cesura tra prima e dopo. La
scoperta della propria vulnerabilità è indubbiamente
scioccante, simile al momento in cui ciascuno, chi prima e chi
dopo, scopre che la mortalità è un faccenda che
lo riguarda personalmente. Nondimeno eventi simili, anche più
cruenti, segnano la storia anche recente di troppe parti del
pianeta per non capire che l’epocalità dell’11
settembre non sta nell’evento in sé quanto nel
«nuovo» corso che da quel momento assumono le politiche
dell’unica superpotenza globale.
Bush e la sua combriccola neoconservatrice, di fatto una banda
di affaristi ed integralisti religiosi, hanno inaugurato una
guerra permanente su scala globale che, in nome della lotta
al terrorismo, legittima sia interventi bellici «tradizionali»
sia l’estrema limitazione e finanche la cancellazione
del sistema di garanzie tipico dei modelli liberali.
Il Patriot Act ha sancito per legge la drastica limitazione
della libertà per tutti i cittadini statunitensi ma a
farne le spese sono stati in particolare gli immigrati da paesi
mussulmani, gli oppositori politici, tutti coloro che per scelta
o per condizione entravano in rotta di collisione con il governo
USA.
Migliaia di morti
Sul fronte «esterno» il maggior tributo di sangue
e sofferenza è toccato agli afgani ed agli iracheni:
i due conflitti scatenati dall’amministrazione statunitense
contro l’Afghanistan e l’Iraq sono costate migliaia
e migliaia di morti durante la guerra guerreggiata ma anche
più oneroso è stato il prezzo che le popolazioni
hanno dovuto pagare dopo lo scoppio della «pace».
In entrambi i Paesi gli USA, pur facili «vincitori»
sul campo, faticano parecchio a mantenere l’occupazione
militare, che costa loro soldi e uomini. In Afghanistan il territorio
è di fatto controllato da «alleati» poco
affidabili, legati da antiche alleanze alla Russia ed all’Iran,
sempre in procinto di cambiare rotta in base al vento che tira;
inoltre focolai di rivolta continuano a tenere sulla corda i
vincitori, cui risulta difficile portare a termine gli affari
– oleodotti e controllo delle vie di comunicazione –
in un paese dove riescono a malapena a garantire la sicurezza
di quell’Hamid Karzai da loro posto alla guida di un governo
fantoccio.
In Iraq, una guerriglia diffusa sul territorio, una popolazione
stremata ma ostile, il quotidiano stillicidio di attacchi fanno
sì che, anche qui, gli Stati Uniti, dopo aver vinto la
guerra, stiano perdendo la pace. Il costo, in termini di vite
umane, libertà e dignità che stanno pagando gli
iracheni – così come gli afgani – è
altissimo e vede tra le principali vittime la popolazione civile,
che in ogni guerra moderna che si rispetti è ormai divenuta
alibi ed obiettivo costante dell’azione bellica.
Nella guerra contro il terrorismo, terrorista diviene chiunque
non accetti le regole del gioco imposto dal poliziotto globale
in divisa statunitense. L’integralista talebano ed il
laico baathista, l’anarchico americano ed il lavoratore
iracheno in sciopero, il migrante povero ed il manifestante
no-global vengono tutti forzati ad entrare – poco conta
come – nella categoria di terrorista, di nemico irriducibile
contro il quale non valgono le regole ed i colpi bassi sono
promossi a norma accettata.
Si arriva alla detenzione extragiudiziale in lager come Guantanamo,
uno di quei posti che ricordano quei vecchi film di propaganda
degli anni ’40, dove nazisti sempre grassi e volgari si
fanno beffe delle convenzioni internazionali sui prigionieri
di guerra. Si arriva alla legittimazione della tortura e qui
la nostra memoria è fatta della carne e del sangue di
quei partigiani che nazisti e repubblichini chiamavano banditi.
Oggi li avrebbero chiamati terroristi.
Guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte. I tamburi
di guerra negli Stati Uniti non mancano di trovare eco anche
nel nostro Paese, dove il moltiplicarsi degli allarmi reali
o presunti, la propaganda militarista, il riemergere di un nazionalismo
becero sono il brodo di coltura in cui sono cresciute e si sono
alimentate le tentazioni belliciste ed il crescente autoritarismo
che sta investendo il nostro paese.
Il clima sta divenendo ogni giorno più pesante: la criminalizzazione
del dissenso politico e sociale tocca livelli preoccupanti.
Ne fa le spese chiunque si opponga alla stretta disciplinare,
al militarismo, alle leggi razziste, alla riduzione dei salari
e delle garanzie, all’erosione dei pur ristretti margini
di libertà.
Alla stregua di delinquenti
I tranvieri in sciopero per poche lire di aumento in un contratto
aperto da due anni sono considerati alla stregua di delinquenti.
C’è chi invoca sanzioni, chi li vorrebbe licenziati,
chi arriva a chiederne l’arresto e la condanna penale.
Sono fioccate le precettazioni, la polizia è intervenuta
con la forza nei depositi per obbligare al lavoro i sovversivi.
Pochi mesi prima chiunque osasse criticare la legge 30, meglio
conosciuta come legge Biagi, era equiparato agli autori dell’agguato
mortale al professore bolognese consulente di vari ministri
del lavoro. È stato affibbiato persino ad un mite diessino
come Cofferati lo scomodo ruolo di «fiancheggiatore»:
se non fosse la punta di un iceberg insidioso verrebbe da sorridere
di fronte ad un’accusa rivolta ad un esponente di un partito
che raccoglie l’eredità di quel PCI che negli anni
’70 promuoveva a Torino un questionario per la denuncia
anonima dei comportamenti «strani».
I migranti, già schiacciati da una legge razzista come
la Bossi-Fini che li riduce allo status di manodopera servile,
la cui «dedizione» al padrone di turno è
garantita dall’interdipendenza tra permesso di soggiorno
e contratto di lavoro, sono oggetto di una campagna di odio
e sospetto, che ne riduce i già esili margini di agibilità
politica. Se a ciò si aggiungono gli ossessivi controlli
di polizia, i rastrellamenti nei quartieri, la deportazione
in base a semplici sospetti si vede come la distanza tra le
due sponde dell’Atlantico vi vada assottigliando ogni
giorno di più.
La ripresa e la promozione di sentimenti nazionalisti ha fatto
da puntuale contrappunto alla crescita dell’impegno bellico
dello stato italiano in Iraq e Afghanistan, toccando i propri
punti più disgustosi dopo la strage di Nassiriya. La
retorica più becera si è sprecata e, per tentare
di conferire un’aura di nobiltà alle imprese neocoloniali
in Asia, si rispolverano patria ed onore, bandiera e marce militari.
Vecchia paccottiglia per seppellire i morti e far dimenticare
una semplice verità: gli eserciti uccidono. È
la loro funzione, il motivo per cui esistono, vengono addestrati
e lautamente finanziati. Uccidere nella sensibilità di
noi tutti è un crimine orrendo, la più terribile
delle violenze. Ma l’omicidio di massa compiuto da uomini
in divisa al servizio dello Stato si trasforma da crimine mostruoso
in «missione umanitaria», «spedizione di pace»,
necessaria per portare libertà e democrazia. Le migliaia
e migliaia di persone che muoiono sotto le bombe, per mancanza
di medicine e cibo sono considerate «danni collaterali».
Ogni volta che ciò accade, ogni volta che lo Stato, qualsiasi
Stato, si prepara ad uccidere, si fa chiamare Patria. Sventolano
le bandiere che dividono gli uomini alle frontiere, sventolano
le bandiere alle parate militari, sventolano le bandiere durante
le cerimonie per chi muore.
Le bandiere nazionali, tutte le bandiere di ogni nazione, sono
simbolo di separazione, vessillo di guerra, fossato tra chi
ha il diritto di vivere e chi è condannato a morire.
La sentenza che condanna a morte uomini, donne e bambini «colpevoli»
di essere nati nella parte «sbagliata» del mondo
viene eseguita da uomini in divisa che marciano dietro ad una
bandiera.
Le leggi dello Stato sanciscono che eserciti e bandiere siano
investiti dell’aura della sacralità e chi li critica
vada punito con la galera.
In questi mesi stanno fioccando le denunce contro chi osa chiamare
criminali i criminali, contro chi preferisce la bandiera dell’internazionalismo
anarchico e quella della pace a quella del nazionalismo e degli
eserciti.
Offesa all’“onore”
Ad ottobre è toccato a Marco, un compagno della Federazione
Anarchica Torinese, «reo» di aver scritto, nella
lettera nella quale rifiutava sia il servizio militare che quello
civile, che non intendeva entrare a far parte di una siffatta
«organizzazione criminale».
La Procura di Torino gli ha notificato un avviso di garanzia
per aver «offeso l’onore ed il prestigio delle forze
armate» per la lettera inviata in risposta alla cartolina
precetto.
Marco rischia da sei mesi a tre anni per aver dichiarato pubblicamente
le proprie convinzioni antimilitariste, le convinzioni che stanno
alla base della sua scelta di obiezione e della sua identità
di anarchico.
A dicembre è stata la volta di altri cinque antimilitaristi
anarchici di Torino. Per loro l’accusa è di «vilipendio
alla bandiera». Rischiano da uno a tre anni di detenzione.
Lo scorso 22 marzo al termine del corteo spontaneo contro la
guerra che aveva attraversato il centro cittadino sulla balconata
che sovrasta lo scalone monumentale di Palazzo Madama la bandiera
tricolore dell’Italia guerrafondaia lasciò spazio
alle bandiere rossonere degli anarchici e a quella arcobaleno.
Questi compagni vengono perseguiti per le loro idee. Gli Stati
democratici hanno inventato i reati di opinione per negare nei
fatti quella libertà di espressione che affermano in
linea di principio.
La loro libertà è una scatola vuota. Buona per
coprire la vergogna delle parate militari in cui assassini prezzolati
vengono esaltati come eroi e difensori della pace e della libertà.
Ed altre nubi già si profilano all’orizzonte. Il
2003 si è concluso con un paio di cassonetti incendiati
e di un tappeto annerito tra Natale e Capodanno: poco importa
se gli autori di simili prodezze ricevano regolare stipendio
o facciano opera di volontariato non retribuito. Il ministro
dell’Interno, Pisanu, punta l’indice sugli anarchici
e invoca leggi speciali.
Un copione già visto, oggi riaggiornato in salsa globale.
Bisogna far saltare una rappresentazione i cui esiti non possono
che essere letali per la libertà di noi tutti. I mezzi?
Quelli di sempre: solidarietà e mutuo appoggio per unire
le lotte dei tranvieri a quelle dei migranti, chi si oppone
al militarismo e chi lotta per un reddito dignitoso, perché
la libertà e la giustizia sociale si ottengono praticandole
ogni giorno contro chi, in nome della legge, quotidianamente
le vilipende.
Maria Matteo
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