«Non si vede niente, solo la bandiera»
L. N. Tolstoj, I diari. Scelta dei testi, prefazione,
traduzione e note di S. Bernardini, Garzanti, Milano 1997, p.
551 (15 maggio 1908).
Lev Nikolaevic Tolstoj accennò allanarchismo
nel proprio diario per la prima volta nel gennaio 1889: «Gli
anarchici hanno ragione in tutto, solo non nella violenza»
(1). Lo scrittore aveva sessantanni
e, «deciso che scrivere capolavori narrativi è
un peccato» (2), aveva lasciato
da qualche anno alle spalle la letteratura per dedicarsi a temi
politici e religiosi, spesso legati allattualità.
Per quanto avvertisse una forte sintonia con lanarchismo,
Tolstoj sentiva una distanza incolmabile sullatteggiamento
nei confronti della violenza e nei confronti del Cristo dei
Vangeli. Qualche mese dopo il primo accenno allanarchismo,
Tolstoj scrisse nel diario che i suoi critici lo accusavano
di «insegnamento distruttivo e anarchico che essi dicono
di Tolstoj, e dovrebbero dire di Cristo» (3).
Ritornò sul tema nel 1894, quando lanarchico italiano
Sante Caserio uccise il presidente della repubblica francese
Sadi Carnot. Ciò che gli anarchici fanno era «tutto
giusto», scrisse. Le loro idee cominciavano a «conquistare
gli uomini», i quali «cominciano a credere di essere
fratelli, a capire che non si può asservire il fratello,
che bisogna aiutare il progresso, sviluppare listruzione,
lottare contro la superstizione». E allimprovviso,
ecco assassinii come quello di Carnot, «e tutto il lavoro
va a monte». È giusto, come fanno gli anarchici,
diffondere «lidea dellinutilità, del
male della violenza statale», ma lunica strada,
annotò Tolstoj, è la «non partecipazione
alle violenze e agli assassinii» (4).
Tolstoj vedeva discusse nel campo della politica due sole «vie
duscita». La prima, propria di nichilisti e anarchici,
consisteva «nello spezzare la violenza con la violenza,
con il terrore, con le bombe e la dinamite, con il pugnale»,
e in questo modo «sconfiggere, fuori di noi, questa congiura
dei governi contro i popoli». Laltra soluzione era
quella delle riforme: trovare cioè «un accordo
con il governo facendogli delle concessioni e, partecipando
a esso, pian piano sgrovigliare la rete che lega il popolo e
liberarlo». Entrambe, scrive Tolstoj nel suo diario, «sono
false». Nel primo caso, la violenza rende più forte
la reazione perché si aliena lappoggio dellopinione
pubblica, lunica forza su cui contare. Nellaltro,
i governi «concedono solo ciò che non intacca la
sostanza»: attirano «i dissidenti», li rendono
inoffensivi, e alla fine li impiegano «al servizio degli
obiettivi dei governi, cioè delloppressione e dello
sfruttamento del popolo».
La «via duscita» cui pensava Tolstoj era affidata
alla coscienza dei singoli individui, e si basava sul rifiuto
della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e
libero, e sulla non collaborazione con il governo. Si trattava
di «combattere il governo con larma del pensiero,
della parola, dellesempio di vita, senza fare concessioni
al governo, senza entrare nelle sue file, senza contribuire
allaumento della sua forza» (5).
Se cè qualche possibilità di «sbrogliare
questa situazione paurosa, lo è solo grazie agli sforzi
dei singoli individui» (6).
Non uccidere
Il 29 luglio 1900 lanarchico Gaetano Bresci sparò
tre colpi di rivoltella al re Umberto I e lo uccise. Un paio
danni prima era stata uccisa limperatrice dAustria.
Così erano morti lo zar Alessandro II, lo scià
di Persia, il presidente francese. Invece di limitarsi a qualche
riga nel diario, come aveva fatto dopo lassassinio di
Sadi Carnot, Tolstoj pensò a uno scritto per la stampa.
Tra le sue carte si contano sette stesure diverse dellarticolo,
con vari titoli, tra cui Luccisione di Umberto,
Lorribile equivoco, Di chi è la colpa?
Il 31 luglio mandò larticolo al suo segretario
Chertkòv, ma tornò ancora sul testo per alcune
correzioni prima che andasse in stampa (7).
Il 7 agosto scrive nel suo diario di aver finito (8).
Per titolo, scelse uno dei comandamenti biblici, ma anche di
Siddartha: Non uccidere (9).
Tolstoj classificava lattentato di Monza come «uccisione
di un re». Gaetano Bresci pensava la stessa cosa. Quando
venne interrogato in carcere e gli fu chiesto «se riconosceva
di aver ucciso Sua Maestà Umberto I», Bresci rispose:
«Non ammazzai Umberto, ammazzai il Re». Di qui la
risposta che diede quando gli fu chiesto «se si riconosceva
autore di un delitto». «Dica fatto e non
delitto», rispose Bresci (10).
Neanche Tolstoj avrebbe parlato di «delitto», perché
«delitto» è unazione in contrasto con
le leggi dello Stato, e Tolstoj riteneva che lo Stato non avesse
titoli per giudicare, perché tutti i governi si fondano
sulla violenza.
Era appena stato pubblicato, con molti tagli dovuti alla censura
zarista, il romanzo Resurrezione, in cui Tolstoj affronta
il tema della giustizia e del castigo, e fa vedere i tribunali
come un mezzo per assicurare «il mantenimento degli interessi
di classe»: «tutta lopera dei tribunali è
fatta soltanto di azioni insensate e crudeli», dice a
un certo punto il protagonista. In Resurrezione, i
personaggi che fanno parte degli apparati statali ed ecclesiastici
ministri, giudici, preti, poliziotti e carcerieri
sono tutti come quel vecchio generale incaricato della sorveglianza
dei detenuti della fortezza di Pietroburgo, il quale esegue
gli ordini «in nome dellimperatore», «ritenendo
che il suo dovere di soldato e di patriota fosse di non pensare
affatto». Tolstoj racconta come il generale avesse fatto
carriera: nel Caucaso, al comando di «un reparto di contadini
russi coi capelli rasati, in uniforme militare, e armati di
fucili con le baionette, aveva ucciso più di mille uomini
che difendevano la loro libertà, le loro case e le loro
famiglie»; più tardi aveva servito in Polonia,
«dove aveva obbligato altri contadini russi a compiere
le stesse imprese» (11).
Le leggi cui essere fedeli sono altre. Come scopre un po
alla volta il protagonista di Resurrezione, la vera legge «è
eterna, immutabile, urgente, scritta da Dio stesso nel cuore
degli uomini» (12). È proprio
perché si deve obbedire alla legge divina che viene negata
qualsiasi altra autorità statale, politica, religiosa
o di altra natura (13).
Come epigrafi allarticolo, Tolstoj sceglie alcune citazioni
tratte dalla Bibbia e dai Vangeli, e precisamente la proibizione
di usare violenza («Non uccidere»; «Giacché
tutti quelli che prenderanno la spada, periranno di spada»),
e il comandamento dellamore («E dunque tutto quanto
desiderate che gli uomini facciano per voi, fatelo voi pure
per loro») (14). Poi comincia denunciando
la doppia morale, e quindi lipocrisia, che episodi come
quello di Monza mettevano in luce. Se viene ucciso un sovrano
in seguito a una congiura di palazzo, tutti lo trovano un fatto
normale. Al contrario, un individuo come Gaetano Bresci, «senza
processo e senza insurrezioni di palazzo», ammazza un
re, ed ecco levarsi meraviglia e indignazione, come se re e
imperatori «non avessero mai preso parte a degli assassinii
o non avessero mai fatto ricorso o ordinato degli assassinii».
Riflettendo sulluccisione di Umberto I, Tolstoj prima
di tutto nega ai difensori dei re il diritto di giudicare e
di condannare lomicidio. Re, imperatori e presidenti di
repubbliche, scrive, «da sempre si dedicano specificamente
allassassinio, tanto daverne fatto ormai la loro
professione»; non per nulla «han sempre indosso
le uniformi militari e gli strumenti dellassassinio
le spade al fianco». Tra guerre ed esecuzioni capitali,
i sovrani fanno ammazzare decine di migliaia, centinaia di migliaia,
milioni di vittime e tutto ciò viene considerato
eroico. La parola «re» richiamava in Tolstoj termini
come «menzogna» e «violenza». Nei suoi
scritti politici degli anni Novanta, aveva mostrato come re
e imperatori ingannavano i loro popoli scambiandosi visite,
promuovendo manovre o parate militari, pronunciando brindisi
patriottici e invocando il benessere e la pace e tutto
ciò mentre organizzano «preparativi di assassinio»
(15). Ma guai a uccidere uno di loro.
Invece di riconoscere di avere essi stessi per primi insegnato
a uccidere, e invece di meravigliarsi «del fatto che tali
assassinii siano tanti rari», «sono proprio costoro
a sgomentarsi e a indignarsi se uno di loro viene assassinato».
Se lo zar Alessandro II e re Umberto I non meritavano la morte,
commenta Tolstoj, «tanto meno di loro lavevano meritato
le migliaia di russi che morirono a Plewna, o le migliaia di
italiani periti in Abissinia».
Leone
Tolstoj
Uccidere i re è inutile
Nella seconda parte dellarticolo, Tolstoj si rivolge
agli anarchici. Non lo fa direttamente, ma discutendo la validità
e la legittimità degli attentati ai sovrani, nella convinzione
che il gesto di Bresci fosse opera di un complotto di anarchici
che avrebbero colpito ancora.
Uccidere i re «per migliorare la condizione della gente»
è prima di tutto inutile: come tagliare la testa dellidra,
sapendo che ne rinasce sempre una di nuova. Morto un re, se
ne fa un altro. È superficiale, osserva Tolstoj, pensare
che uccidere un re sia «una via di salvezza dalloppressione
del popolo e dalle guerre che distruggono tante vite umane».
Non è questione di caratteri o di temperamenti personali.
Loppressione e le guerre non sono dovute alle scelte di
un sovrano o di un capo di governo, ma dipendono «da un
sistema sociale nel quale tutti gli uomini son legati in tal
modo gli uni agli altri, da esser tutti quanti in balìa
di pochi o, più spesso, duno solo». Qualsiasi
persona al posto di un re, educato allo stesso modo a portare
armi e organizzare parate, farebbe lo stesso. Del resto i sovrani
non vedono alternative, dal momento che ogni volta che escono
in pubblico sono accolti con entusiasmo. Limperatore Guglielmo
potrebbe dire «che i soldati devono uccidere per sua volontà
persino i loro padri e tutti gli griderebbero urrà!»,
o dire «che il Vangelo bisogna imporlo con un pugno di
ferro e subito un altro urrà!»; e così
lo zar Nicola II «propone un infantile, stupido e bugiardo
progetto per una pace universale, e intanto dà disposizioni
per un aumento degli eserciti, e tuttintorno a lui non
vi è più limite alle celebrazioni della sua saggezza
e della sua virtù».
Tolstoj ribadisce qui le sue idee sul potere, il quale si basa
sulla passività e sullobbedienza di quanti laccettano,
si sottomettono, lo legittimano, lo celebrano. Già in
Guerra e pace si era interrogato sui motivi che avevano
spinto milioni di uomini a muoversi da occidente a oriente al
comando di Napoleone. Gli storici dicevano che le cause «furono
loffesa recata al duca di Oldemburgo, linosservanza
del blocco continentale, lambizione di Napoleone, la fermezza
di Alessandro, gli errori dei diplomatici, ecc. ecc.».
Tali spiegazioni potevano sembrare convincenti ai contemporanei,
ma a noi posteri, scrive Tolstoj, «è incomprensibile
che milioni di cristiani si siano uccisi e torturati a vicenda
perché Napoleone era ambizioso, Alessandro era fermo,
la politica dellInghilterra era astuta e il duca di Oldemburgo
era stato offeso». Anche ammettendo tra le cause della
guerra il fatto che il duca si fosse sentito offeso, bisognava
sempre spiegare perché migliaia di persone fossero venute
«dallaltra estremità dellEuropa, abbiano
ucciso o rovinato gli abitanti delle province di Smolènsk
e di Mosca e siano state uccise da loro».
Alla base dei fenomeni storici, Tolstoj trovava le scelte del
singolo individuo, in altre parole «il desiderio o il
mancato desiderio di un qualsiasi caporale francese di contrarre
una seconda ferma; perché, se egli non avesse voluto
riaprire servizio e così avessero fatto due, tre mille
caporali e soldati, tanto meno uomini ci sarebbero stati nellesercito
di Napoleone e la guerra non si sarebbe potuta fare» (16).
Le cause degli avvenimenti, riflette Tolstoj in Guerra e
pace, sono infinite, minute, legate luna allaltra,
e ciascuna «influisce sulla massa restante dellinnumerevole
totalità degli avvenimenti e delle cose» entro
«un sistema, una rete fittamente intrecciata» (17).
«Se Napoleone insiste Tolstoj non si fosse
offeso dalla richiesta chegli si ritirasse dietro la Vistola
e non avesse ordinato alle truppe di marciare innanzi, la guerra
non ci sarebbe stata; ma se tutti i sergenti non avessero voluto
contrarre una seconda ferma, anche allora la guerra non ci sarebbe
stata». Gli atti di Napoleone o di Alessandro «erano
così poco liberi quanto gli atti di un qualsiasi soldato
che andasse alla guerra designato dalla sorte o reclutato».
Perché si verificasse levento, era necessario che
milioni di singoli individui, «nelle mani dei quali era
la forza effettiva», seguissero i loro ordini (18).
Come nella favola, venuta meno lobbedienza, il re sarebbe
apparso nudo. Già negli anni Novanta, Tolstoj aveva mostrato
i sovrani come gente che faceva cose stupide, le quali diventavano
importanti e misteriose solo per lobbedienza del popolo.
La folla vede «innalzare archi di trionfo», «passare
della gente ornata di corone, di uniformi, di vesti sacerdotali»,
«accendere fuochi dartificio, sparare il cannone,
suonar le campane e la gente correr dietro alle musiche dei
reggimenti», e risponde «con degli evviva o con
un silenzio rispettoso». Guglielmo II aveva ordinato «un
nuovo trono ornato di ornamenti speciali»; poi, «vestito
di ununiforme bianca, di una corazza, di calzoni attillati,
di un berretto sormontato da un uccello, e portando sopra tutto
ciò un mantello rosso», sedeva nel nuovo trono
e i sudditi, invece di trovare la cosa ridicola, la ritenevano
uno «spettacolo molto imponente» (19).
Gli storici riportavano solo le azioni di uomini di Stato e
di generali: per questo avevano una grande responsabilità
nellesaltare e nel far ritenere normale la violenza dei
governi e dei sovrani. In Guerra e pace ci sono molte
osservazioni ironiche su come gli storici spiegano gli avvenimenti
(20). Attribuendo gli eventi collettivi
al potere di pochi, essi tolgono ai singoli ogni capacità
di influenzare la storia e quindi li assolvono da ogni responsabilità
morale nella partecipazione ai massacri e alle guerre. Se gli
individui non contano, non sono nemmeno responsabili (21).
Ciascuno invece avrebbe dovuto provare gli scrupoli morali e
i dubbi in cui si dibatte il principe Andrej: «Lo scopo
della guerra è la strage. [
] Ah anima mia, in questi
ultimi tempi mi è diventato penoso vivere!» (22).
Nel 1905 Tolstoj avrebbe scritto nel suo diario che la storia
insegnata nelle scuole era «la descrizione delle vite
schifose dei vari furfanteschi re, imperatori, dittatori, generali
cioè travisamento della verità» (23).
Non occorre uccidere i re, conclude Tolstoj nellarticolo
sul gesto di Bresci, «ma smettere di sostenere quel sistema
sociale che li ha prodotti». Si cominci a dire le cose
come stanno. Si dica che lesercito è lo strumento
dellomicidio in massa chiamata guerra; si dica che la
leva militare è un modo per preparare lassassinio.
Ci si rifiuti di pagare imposte destinate allesercito;
ci si rifiuti di prestare il servizio militare: «e subito
si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli imperatori,
dei presidenti e dei re che tanto ci indigna, e per il quale
adesso si continua ad assassinarli».
Come negli altri scritti politici di Tolstoj, la conclusione
è un appello: da un lato dire ai re che sono essi stessi
degli assassini (Tolstoj riteneva che spiegandoglielo si potesse
convincerli), e dallaltro lato «rifiutarsi di assassinare
su loro comando», impedendo loro di fare guerre e di uccidere.
Errico
Malatesta
Malatesta e Tolstoj
Larticolo di Tolstoj uscì nel 1900 in una rivista
russa pubblicata in Inghilterra (24).
In quello stesso periodo alcuni anarchici italiani che risiedevano
a Londra pubblicarono un numero unico sulluccisione di
re Umberto, dal titolo Cause ed effetti. 1889-1900.
Errico Malatesta vi contribuì con larticolo La
tragedia di Monza (25). Alcuni passaggi
fanno pensare che Malatesta conoscesse già larticolo
di Tolstoj, forse per il tramite di alcuni esuli russi che allepoca
frequentava. Tuttavia non è necessario pensare a una
conoscenza diretta. Da alcuni anni sulla stampa anarchica italiana
ed europea si discuteva di Tolstoj, del suo «anarchismo»
e della sua dottrina della resistenza al male. Anche Malatesta
era intervenuto in più di una occasione (26).
Inoltre La tragedia di Monza si inseriva in una discussione
molto aspra che aveva diviso gli anarchici italiani in esilio.
La mattina in cui arrivò a Londra la notizia delluccisione
di re Umberto, un anarchico piemontese invitò a casa
sua due compagni con cui si trovava spesso a giocare a carte:
il giovane pittore Carlo Carrà e Mario Tedeschi, scappato
dallItalia dopo i moti del 1898 e proprietario della pensione
presso cui erano soliti trovarsi. Lanarchico piemontese
così racconta Carrà «aveva
attaccati con un filo di spago al soffitto tanti bustini di
gesso raffiguranti i diversi capi di Stato dEuropa: e
salito sul tavolo con un temperino tagliò la corda che
sosteneva quello rappresentante il re dItalia. Il gesso
cadde a terra spezzandosi ed egli come ebbro gridò: E
uno!». Per segnalare il loro totale disaccordo,
Tedeschi e Carrà scrissero un manifesto che «affermava
linviolabilità della vita umana, di quella dei
re non meno di quella di qualsiasi mortale» e lo distribuirono
tra la comunità italiana a Londra, anche nel ristorante
dove si doveva tenere la commemorazione ufficiale del re alla
presenza dellambasciatore dItalia.
Una sera in cui gli anarchici italiani si trovarono assieme,
come spesso succedeva, in una birreria, Malatesta accusò
Carrà e Tedeschi di aver tradito «la causa della
libertà». Secondo Carrà, scoppiò
«un putiferio indescrivibile che per un vero miracolo
non degenerò in un tafferuglio». Malatesta conosceva
Carrà perché lavoravano nello stesso ristorante:
lui lavorava ad un impianto elettrico, mentre il giovane pittore
faceva dei lavori di decorazione. In seguito, incontrandolo
al lavoro, Malatesta si avvicinò e chiese scusa per il
suo comportamento. Ma la divisione si approfondì. Carrà
fece un ritratto di re Umberto e lo mise in palio come premio
di una lotteria. Lepigrafe sotto il ritratto, dettata
da Tedeschi, diceva: «ucciso per mano assassina».
Il quadro fu vinto dal Circolo monarchico italiano. La pensione
di Tedeschi fu presa a sassate (27).
Lo scritto di Malatesta inizia affermando che il gesto di Gaetano
Bresci esprimeva «lira popolare» provocata
dallignoranza e dalla miseria in cui le istituzioni tengono
le masse proletarie. Gli anarchici andavano ripetendo che solo
la rivoluzione potrebbe rendere gli uomini «fratelli nel
comune lavoro per il benessere di tutti», ma i potenti
continuavano a rispondere con persecuzioni e con ferocia. Poi,
«quando lira accumulata dai lunghi tormenti scoppia
in tempesta, quando un uomo ridotto alla disperazione, o un
generoso commosso dai dolori dei suoi fratelli ed impaziente
di attendere una giustizia tarda a venire, alza il braccio vendicatore»,
allora «i colpevoli siamo noi». Come sempre, commenta
Malatesta, la colpa viene addossata allagnello.
Dopo aver stabilito «cause ed effetti» delluccisione
di re Umberto, Malatesta usa lo stesso argomento di Tolstoj,
paragonando lindignazione per la morte di un re allindifferenza
per le innumerevoli uccisioni che accadono quotidianamente a
causa di guerre o di incidenti sul lavoro, o nel corso di rivolte
represse a fucilate. È giusto deplorare la morte di un
uomo, e anche Umberto, oltre che re, era un uomo; la regina
è rimasta vedova, «e poiché una regina è
anchessa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore».
Ma perché «tanto sfoggio di sentimentalismo»
per un re ucciso, «quando migliaia e milioni di esseri
umani muoiono di fame e di malaria» nellindifferenza
di chi potrebbe aiutarli? Tutte le sofferenze umane vanno deplorate,
anche quelle di un re, ma «il nostro dolore», afferma
Malatesta, è più sentito «quando si tratta
di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di
una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti».
Malatesta dissente da Tolstoj sullatteggiamento nei confronti
della violenza. Entrambi ritengono che il sistema sociale si
fonda sulla violenza messa a servizio di una piccola minoranza.
Il militare, omicida di professione, è onorato, e più
di tutti continua Malatesta è onorato il
re, capo dei soldati. Il governo britannico brucia le fattorie
dei Boeri; il sultano fa assassinare gli Armeni; il governo
degli Stati Uniti massacra i Filippini; i lavoratori muoiono
nelle miniere e nelle ferrovie; i governi mandano i soldati
a fucilare i lavoratori. «Lunga è la lista dei
massacri», commenta Malatesta nominando i luoghi degli
eccidi compiuti dalla forza pubblica in Italia.
Detto questo però, Malatesta sembra rispondere a Tolstoj,
e si chiede: «Chi fa apparire la violenza come la sola
via duscita dallo stato di cose attuale, come il solo
mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?».
La violenza risponde è la rivolta «che
di tanto in tanto scoppia». Ma colpevole non è
chi si ribella. Finché gli oppressori e gli sfruttatori
«si ostinano a godere dellattuale ordine di cose
ed a difenderlo colla forza», non cè alternativa:
«noi siamo nella necessità, siamo nel dovere di
opporre la forza alla forza».
Nemmeno Malatesta avrebbe usato il termine «delitto»
per qualificare il gesto di Bresci, ma non per i motivi indicati
da Tolstoj. Mentre Tolstoj rifiuta le leggi dello Stato in ossequio
allunica legge cui sottomettersi, quella divina, Malatesta
le rifiuta perché lo scriverà un anno dopo
per commentare luccisione del presidente americano McKinley
«il codice è fatto contro di noi, contro
gli oppressi» (28). Malatesta non
riconosceva leggi eterne, e forse si sarebbe trovato daccordo
con lo scrittore russo Maksím Gorki che, dopo aver letto
Non uccidere e altri opuscoli politici di Tolstoj, scrisse a
Cechov che Tolstoj diceva di essere anarchico, e in parte lo
era: «Ma distruggendo alcune regole egli ne erige altre,
altrettanto dure per gli uomini, altrettanto gravose; questo
non è anarchismo ma qualcosa che sa di governatore»
(29).
Nellultima parte de La tragedia di Monza, Malatesta,
continuando la sua polemica contro quanti esaltavano gli attentati
e il terrorismo, ribadiva che la violenza era una necessità
e non un mezzo. Gli anarchici erano dei liberatori e non dei
giustizieri. Sarebbero ricorsi «allultimo espediente
della forza fisica» cui «lostinata resistenza
della borghesia» costringeva gli oppressi, ma non avrebbero
mai fatto «vittime inutili, nemmeno tra i nemici»,
rimanendo «buoni e umani anche nel furore della battaglia».
Nessuna rivoluzione liberatrice, ripeteva, poteva nascere dai
massacri e dal terrore, da cui escono i tiranni.
Questo non significava accettare il tolstojsmo. Interpretando
la dottrina della resistenza passiva come rifiuto della lotta
e come accettazione dello stato di cose (ma altri anarchici
la interpretavano come una forma di «resistenza a mezzo
della disobbedienza») (30), Malatesta
andava dicendo da anni che un uomo sarebbe «un terribile
egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli».
Terroristi e tolstojani gli sembravano avere un punto in comune:
«Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità
pur di far trionfare lidea; questi lascerebbero che tutta
la umanità restasse sotto il peso delle più grandi
sofferenze piuttosto che violare un principio». Quanto
a lui, «io violerei tutti i principi del mondo pur di
salvare un uomo»; e questo sarebbe stato lunico
modo per salvare i principi morali, che si riducono a questo:
«il bene degli uomini, di tutti gli uomini» (31).
Questi temi, che percorrono lattività di propaganda
di Malatesta negli anni di fine secolo, tornano nella conclusione
de La tragedia di Monza.
Come Tolstoj, Malatesta ritiene che invece di uccidere un re,
è essenziale uccidere tutti i re «nel cuore e nella
mente della gente», sradicando «la fede nel principio
di autorità a cui presta culto tanta parte del popolo»;
così si acquista «quella forza morale e materiale
che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad
abbattere il regime di violenza a cui oggi lumanità
soggiace». E ancora come Tolstoj, sa che la violenza provoca
«reazioni a cui si è incapaci di resistere»
ed è «sorgente di autorità». «Noi
dichiara aborriamo dalla violenza per sentimento
e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla».
Tuttavia, Malatesta rivendicava il diritto di praticarla sulla
base della «necessità di resistere al male con
mezzi idonei ed efficaci».
Infine, mentre Tolstoj si appella al rifiuto individuale della
menzogna e della sottomissione, compreso il rifiuto di prestare
servizio militare, Malatesta auspica «libertà di
propaganda e di organizzazione». Solo così le classi
popolari avrebbero potuto «conquistare, sia pur gradualmente,
la propria emancipazione per vie incruenti». Il governo
italiano continuerà tuttavia a reprimere, commentava
con amarezza: «e continuerà a raccogliere quello
che semina».
Le traduzioni in italiano
La prima traduzione in italiano dellarticolo di Tolstoj
uscì nella rivista «La vita internazionale»,
organo della Società per la pace e la giustizia internazionale,
diretto da Ernesto Teodoro Moneta, fondatore dellUnione
lombarda per la pace e larbitrato internazionale. Larticolo
uscì nel numero del 20 ottobre 1900 con il titolo Non
uccidere! A proposito dellassassinio di Umberto I,
«in versione molto ridotta» (32).
La rivista aveva pubblicato due anni prima larticolo di
Tolstoj Carthago delenda, ed era stata sequestrata dalla Procura
di Milano per «eccitamento alla disobbedienza della legge»,
malgrado una nota redazionale avesse preso le distanze dallinvito
di Tolstoj, «paradossale e anarchico», di rifiutare
il servizio militare (33). La paura di
un nuovo sequestro e la distanza della rivista dalle posizioni
di Tolstoj, consigliarono la redazione a pubblicare Non
uccidere! con molti tagli. La traduzione era condotta su
due differenti versioni uscite in due riviste francesi: «qui
e là avvertiva una nota fummo costretti
ad attenuare» (per esempio Guglielmo II non veniva mai
nominato), di disobbedienza non si parlava, e lappello
finale si riduceva a questo auspicio: «Non bisogna in
nessun caso uccidere né Alessandro né Carnot,
né Umberto, né altri: ma unirsi per far condividere
loro questopinione che nessuno ha diritto di uccidere
facendo la guerra» (34).
Nel 1905 Non uccidere! venne compreso nella raccolta
di scritti Ai governanti. Ai preti, pubblicata da Sonzogno
nella traduzione di Maria Salvi (35).
Sonzogno era la casa editrice del quotidiano «Il secolo»,
del quale Teodoro Moneta era stato direttore per quasi trentanni
(36). Anche in questo caso non si tratta
di una versione integrale: viene attenuato il giudizio di Tolstoj
secondo cui un regicidio non è unazione particolarmente
crudele se paragonato a quelle «incomparabilmente più
crudeli» commesse dai re, e soprattutto vengono omessi
gli appelli finali al rifiuto di pagare le tasse e di prestarsi
al servizio militare (37).
Larticolo fu pubblicato in versione integrale per la prima
volta nel 1908 dal quindicinale anarchico «Il pensiero»,
diretto da Pietro Gori e Luigi Fabbri (38),
con il titolo A proposito delluccisione di re Umberto,
sulla base del testo francese pubblicato nella raccolta Les
Rayons de lAube nel 1901 (39),
ben conosciuta negli ambienti anarchici (40).
In una nota redazionale, inserita nel punto in cui Tolstoj presenta
Bresci come un uomo armato da un gruppo di anarchici, i responsabili
del periodico dichiarano di essere «antitolstoiani recisi»
e di dissentire dallarticolo «in numerosi punti»,
ma di pubblicarlo comunque per la prima volta in italiano per
le affermazioni coraggiose che vi si trovavano (41).
Lunico taglio operato dalla rivista riguarda le citazioni
bibliche ed evangeliche premesse allarticolo. In un punto
poi è inserita unaggiunta: nelloriginale
russo e nel testo francese si legge che i re e gli imperatori
dovrebbero stupirsi della rarità di questi crimini, mentre
in quello italiano si legge: «I re e gli imperatori, se
fossero logici, quando lira popolare si abbatte su qualcuno
di loro, dovrebbero meravigliarsi della rarità di questi
delitti». Laggiunta dellespressione «ira
popolare» sembra riprendere quello che aveva scritto Malatesta.
Con la prefazione di Arturo Labriola
La collana «Biblioteca rossa» della Casa Editrice
Abruzzese inizia le pubblicazioni nel 1913 con lo scritto di
Tolstoj, Non posso tacere. Nello stesso anno pubblica
Per luccisione di re Umberto, riprendendo la
traduzione de «Il pensiero», con una prefazione
di Arturo Labriola, notoriamente lontano dal pensiero di Tolstoj.
Arturo Labriola aveva quarantanni. Si era formato sulle
opere di Marx alluniversità di Napoli, la sua città.
Tra i principali esponenti delle teorie di Sorel in Italia,
aveva propugnato la necessità di una rivoluzione violenta
come mezzo di mutamento sociale. In polemica con Turati, aveva
sostenuto lazione diretta e rivoluzionaria delle masse
contrapposta allazione parlamentare, ed era uscito dal
partito socialista assieme ai sindacalisti rivoluzionari. Due
anni prima si era schierato a favore della guerra di Libia,
dichiarandola «una esigenza storica ed etnica, connessa
alla vita quasi esclusivamente mediterranea del paese»,
avvicinandosi in tal modo ai nazionalisti (42).
La sua prefazione, intitolata La contraddizione di Tolstoj,
inizia con lomaggio di rito cui pochi si sottraevano,
dichiarando che la dottrina della non resistenza al male aveva
i caratteri di «una grandezza morale senza confronti».
Detto questo, Labriola mette in contraddizione lo scritto sulluccisione
di re Umberto con i principi proclamati dallo scrittore russo.
Tolstoj fa notare pone sopra ogni altra cosa la
coscienza morale; in nome della propria coscienza Bresci spara
al re, perché il suo senso della giustizia «è
diventato così squisito che non può più
tollerare una infamia trionfante o una sopraffazione infelice»;
ma invece di giudicare il gesto di Bresci con il criterio della
coscienza morale, Tolstoj lo giudica in base alla convenienza
rispetto al fine.
Ma lobiettivo polemico di Labriola è la dottrina
tolstojana. La non resistenza al male scrive è
una illusione che scambia per «atto di libertà»
quello che è «un atto di necessità».
Chi è più debole soccombe necessariamente al più
forte, e ha solo due possibilità: subire o ribellarsi
con la forza. Dichiarare, come Tolstoj, che «la vita umana
è sacra», sembrava a Labriola tipico di chi non
sapeva accettare che guerra e violenza fanno parte della storia.
«La vita umana commenta non è affatto
più sacra di quella di uno scarafaggio o di un leone,
perché la natura sperpera allegramente e con la stessa
indifferenza la vita di tutte le sue creature».
Labriola assimila Tolstoj al buddismo e alle teorie dei quaccheri,
dottrine che a suo parere impediscono «lazione»
e per questo aggiunge sono molto apprezzate dal
socialismo parlamentare. Riconosce che la non resistenza al
male «è il più formidabile atto di accusa
che si possa pronunziare contro liniquità in auge»,
ma ribadisce che è un modo per ritrarsi da una «reazione
risoluta e consapevole», una «rinuncia alla resistenza».
Nella rivoluzione russa del 1905 i seguaci di Tolstoj si erano
trovati «accanto agli uomini della rivoluzione»,
ma, facendo questo, avevano rinnegato linsegnamento del
maestro. Lideale poteva andare bene fin che duravano «lincapacità
o il desiderio di agire», ma quando «il processo
naturale delle forze rivoluzionarie» riprendeva il suo
corso, allora diventava inutile, superato dai fatti.
Si trattava di una tesi piuttosto diffusa negli ambienti rivoluzionari
del socialismo europeo. Qualche anno prima, in uno scritto dedicato
a spiegare perché Tolstoj si era tenuto lontano dalla
rivoluzione del 1905, Lenin aveva parlato di «contraddizioni
[
] stridenti». Da un lato le sue opere esprimevano
«una critica implacabile dello sfruttamento capitalistico,
la denuncia delle violenze governative, della farsa della giustizia
e dellamministrazione statale»; dallaltro
riflettevano «limmaturità del sognatore,
linesperienza politica, la fiacchezza rivoluzionaria».
Al realismo e alla «capacità di strappare tutte
le maschere», si accompagnavano per contrasto «la
predicazione di una delle cose più ignobili che possano
esistere al mondo, la religione, e la volontà di sostituire
ai preti funzionari statali i preti mossi da convincimenti morali,
il culto cioè del pretismo più raffinato, e, quindi,
anche più abietto». La dottrina della non resistenza
al male, aveva concluso Lenin, era stata «una delle cause
più profonde della disfatta della prima campagna rivoluzionaria»
(43).
A differenza di Lenin, Labriola dichiarava ammirazione per la
dottrina morale di Tolstoj. Ma la storia e la politica
ribadiva si svolgevano su un altro piano, quello della
realtà, e chi si appellava ai valori della morale dimostrava
di non saper accettare la realtà. Allepoca della
guerra di Libia, Labriola aveva parlato di «svolgimento
normale dellevoluzione storica contemporanea» (44);
un anno dopo, in un discorso alla Camera per sostenere lintervento
dellItalia nella prima guerra mondiale, avrebbe dichiarato
di porsi «sul terreno dei fatti» (45).
Benché stesse per presentarsi candidato al parlamento
sarebbe stato eletto deputato alle elezioni del 1913
, Labriola continuava a sentirsi un rivoluzionario, tanto
da esibire disprezzo per chi «fa professione e mestiere
di socialismo parlamentare». Pensava che compito di un
rivoluzionario fosse quello di capire il senso storico degli
avvenimenti, di controllarli e di saperli dirigere tutto
quello cioè che Tolstoj trovava ridicolo e spregevole
in uomini come Napoleone. Pochi anni prima, discutendo di pacifismo
e di antimilitarismo, Labriola aveva dichiarato che la guerra
era un mezzo al pari degli altri: dipendeva da come la si usava.
Laveva paragonata a una macchina a vapore «che può
condurci rapidamente a un porto, oppure precipitarci in un burrone»,
o a una lama affilata che «nelle mani del chirurgo dà
la salute, nelle mani dellassassino spezza lesistenza»
(46).
La metafora medica riferita alla guerra ricorda lesaltazione
futurista della guerra «sola igiene del mondo».
Di lì a qualche anno la rivoluzione bolscevica, sprofondata
in una guerra civile, sarebbe apparsa sotto la stessa luce.
Quando lanarchico Armando Borghi incontrò a Mosca
nel 1920 i capi bolscevichi, Lenin gli disse che la rivoluzione
era «un atto chirurgico»: dopo un po, lammalato
si sarebbe alzato dal letto, guarito. «Lammalato
sì, ma il dottore?», ribatté Borghi (47).
Piero Brunello
Questo testo costituisce lintroduzione al volume di Leone
Tolstoj Per luccisione di re Umberto, appena
pubblicato (in prima edizione italiana) dalle Edizioni del Centro
Studi Libertari Camillo Di Sciullo.
Note:
*
Ringrazio Filippo Benfante, Pietro Di Paola e Giannarosa
Vivian per aver letto e discusso questo scritto.
1. L. N. Tolstoj, I diari. Scelta dei testi,
prefazione, traduzione e note di S. Bernardini, Garzanti,
Milano 1997, p. 279 (12 gennaio 1889).
2. W. Nabokov, Lev Tolstoj (18281910),
in Id., Lezioni di letteratura russa, Garzanti,
Milano 1994, p. 272.
3. Tolstoj, I diari cit., p. 294 (27 ottobre
1889).
4. Ibid., p. 365 (18 agosto 1894).
5. Ibid., pp. 373-374 (7 febbraio 1895).
6. Ibid., p. 445 (13 marzo 1900).
7. L. Tolstoj, Perché la gente si droga? E
altri saggi su società, politica, religione,
a cura di I. Sibaldi, Oscar Mondadori, Milano 1988, p.
247.
8. Tolstoj, I diari cit., p. 448 (7 agosto 1900).
9. Ne Le confessioni, scritte tra il 1879 e il
1882, Tolstoj ricordò limportanza del Buddha
nella propria esperienza interiore (L. Tolstoj, Le
confessioni, a cura di M. B. Luporini, Rizzoli, Milano
1979, pp. 8890); nel 1886 iniziò a scrivere
un breve testo sulla vita del Buddha; negli ultimi anni
di vita inserì nel Ciclo di lettura i
dieci comandamenti delle osservanze etiche buddiste, il
cui primo è «Non uccidere, rispetta la vita
di ogni vivente». Cfr. P. C. Bori, Tolstoj oltre
la letteratura (1875-1910). Antologia a cura di A.
Cavazza, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di
Fiesole (Firenze), 1991, pp. 19, 80.
10. Le citazioni, dal «Corriere della sera»,
sono riportate, senza data, in A. Petacco, Lanarchico
che venne dallAmerica. Storia di Gaetano Bresci
e del complotto per uccidere Umberto I, Mondadori,
Milano 2000, p. 196. Si veda anche G. Galzerano, Gaetano
Bresci. La vita, lattentato, il processo e la
morte del regicida anarchico, Galzerano, Casalvelino
Scalo (Salerno) 1988.
11. L. N. Tolstoj, Resurrezione. Introduzione
di E. Bazzarelli. Traduzione di C. Terzi Pizzorno, Rizzoli,
Milano 1992, pp. 362, 299.
12. Ibid., p. 391.
13. Cfr. T. Hopton, Tolstoy, God and Anarchism,
«Anarchist Studies», vol. 8, 1 (marzo 2000),
p. 48. Vladimir Nabokov fa la medesima osservazione a
proposito del romanzo Anna Karenina, composto
tra il 1873 e il 1877, prima degli scritti politici di
Tolstoj: «Le leggi della società sono temporanee;
quelle che interessano a Tolstoj sono le eterne esigenze
della moralità» (Nabokov, Lev Tolstoj
cit., in Id., Lezioni cit., p. 180). Sul percorso
filosofico-religioso di Tolstoj, vedi Bori, Tolstoj
cit.
14. Le citazioni da Non uccidere sono secondo
la traduzione di Sibaldi in Tolstoj, Perché
la gente si droga cit., pp. 248-256.
15. L. Tolstoi, Cristianesimo e patriottismo,
Max Kantorowicz editore, Milano 1895 [la cit. a p. 61].
In questo, come in altri casi, mantengo «Tolstoi»
in luogo di «Tolstoj», come nelloriginale.
16. L. Tolstoj, Guerra e pace. Traduzione di
E. Carrafa dAndria. Con un saggio di T. Mann. Prefazione
di L. Ginzburg, III, Einaudi, Torino 1962, p. 708.
17. I. Berlin, Il riccio e la volpe, in Id.,
Il riccio e la volpe, Adelphi, Milano 1998, pp.
148-149.
18. Tolstoj, Guerra e pace cit., III, pp. 708709.
19. Tolstoi, Cristianesimo cit., pp. 59-62.
20. «In quel tempo cera in Francia un uomo
di genio: Napoleone. Egli vinse tutti dovunque, cioè
uccise molta gente, poiché era molto geniale. E
per una qualche sua ragione egli andò a uccidere
gli africani, e li uccise così bene e fu così
astuto e intelligente che, ritornato in Francia, ordinò
che tutti gli obbedissero. E tutti gli obbedirono. Fattosi
imperatore, di nuovo andò a uccidere gente in Italia,
in Austria e in Prussia. E là pure ne uccise molti.
In Russia però cera limperatore Alessandro,
che decise di ristabilire lordine in Europa e perciò
mosse guerra a Napoleone. Ma nel 1807 a un tratto egli
si fece amico con lui, e nel 1811 leticò di nuovo,
e di nuovo essi fecero morire molta gente. E Napoleone
condusse seicentomila uomini in Russia e simpadronì
di Mosca; ma poi improvvisamente fuggì via da Mosca,
e allora limperatore Alessandro, aiutato dai consigli
di Stein e di altri, coalizzò lEuropa per
costituire una milizia comune contro il perturbatore della
sua tranquillità» (Tolstoj, Guerra e
pace cit., IV, pp. 1383-1384).
21. Hopton, Tolstoy cit., p. 29.
22. Il brano è citato da P. C. Bori, Introduzione,
in L. Tolstoj, Guerra e pace. Prefazione di L.
Ginzburg, I, Einaudi, Torino 1990, p. XLIX, per mostrare
che la condanna della guerra e «la radicalità
degli imperativi morali», che si trovano nellultimo
Tolstoj, erano già presenti nel primo Tolstoj (ibid.,
pp. XLVIIIL).
23. Tolstoj, I diari cit., p. 497 (6 marzo 1905).
24. «La prima edizione fu quella dei Listkì
svobodnago slova, n. 17, 1900. In Russia, Non
uccidere venne pubblicato in brossura dalla casa
editrice Obnovlenie, a Pietroburgo, nel 1906, con conseguente
arresto del direttore editoriale N. E. Felten –
scarcerato dopo pochi giorni, ma con la condanna a pagar
la considerevole ammenda di 1.000 rublie. La pubblicazione
dellarticolo nelle Opere complete del 1911 (12 ed.)
venne vietata dalla Suprema Camera di giustizia di Mosca»
(Tolstoj, Perché la gente si droga cit.,
p. 247).
25. E. Malatesta, La tragedia di Monza, in «Cause
ed effetti. 18981900», numero unico, Londra
settembre 1900; lo scritto è anche in Id., Scritti
scelti, a cura di G. Berneri e C. Zaccaria, Napoli
1954, pp. 121125
26. Tra gli scritti più recenti, rinvio a A. Salomoni,
Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia
(18861910), Olschki, Firenze 1996, in particolare
pp. 175-223, e G. Berti, Il pensiero anarchico. Dal
Settecento al Novecento, Lacaita, Manduria - Bari
Roma 1998, pp. 667-691.
27. C. Carrà, La mia vita. Presentazione
di V. Fagone, Feltrinelli, Milano 1981 [1 ed. 1945], pp.
26-30.
28. E. Malatesta, Arrestiamoci sulla china, «Lagitazione»,
22 settembre 1901, cit. in P. C. Masini, Storia degli
anarchici italiani nellepoca degli attentati,
Rizzoli, Milano 1981, p. 181.
29. Lettera di Maksím Gorki a Ànton Cechov,
Novgorod, ottobre 1900, in M. Gorki - A. Cechov, Carteggio.
Articoli e giudizi. Introduzione di V. Gerratana,
Edizioni Rinascita 1951, Roma 1954, p. 71. Gli scritti
La schiavitù del nostro tempo, Dovè
la radice del male e Non uccidere produssero
in Gorki «limpressione di compitini ingenui
da studente di ginnasio» (ibid.)
30. Così per esempio Max Nettlau, che nel 1897
considera Tolstoj «parte integrante del movimento
anarchico». Cfr. Salomoni, Il pensiero
cit., pp. 177-178.
31. E. Malatesta, Errori e rimedi. Schiarimenti,
in «Lanarchia», numero unico, agosto
1896, ripubblicato in Id., Scritti scelti, a
cura di G. Berneri e C. Zaccaria, Edizioni RL, Napoli
1954, pp. 21-25.
32. Salomoni, Il pensiero cit., p. 72 (sullarticolo
di Tolstoj, pp. 72-75).
33. Sulla vicenda, ibid., pp. 62-67. Nella nota pubblicata
da «La vita internazionale» si leggeva tra
laltro: «La ribellione che consiglia Tolstoj
condurrebbe a una reazione peggiore dogni male,
perché appunto la coscienza universale, non essendo
ancora abbastanza matura, finirebbe col perseguitare implacabilmente
chi volesse farle compiere dei progressi troppo rapidi».
Cfr. Claudio Ragaini, Un quasi-inedito di Tolstoi,
«Nuova Antologia», CXV (1980), fasc. 2136
(ottobre-dicembre), p. 206. LA. pubblica la traduzione
dellarticolo originale di Tolstoj Carthago delenda,
scrivendo che lo scritto non fu mai pubblicato in italiano
«nella forma integrale», e che uno stralcio
«ampiamente purgato e ridotto», venne compreso
nella raccolta di scritti di L. Tolstoi, Ai soldati,
agli operai, Sonzogno, Milano 1905, tradotti da Maria
Salvi. In realtà nellopuscolo Sonzogno lo
scritto Cartagine deve essere distrutta (ibid.,
pp. 49-58) parrebbe lo stesso riportato da Ragaini con
diversa traduzione. Lo scritto è pubblicato anche
in L. Tolstoj, Patriottismo e governo e altri scritti
antimilitaristi, Edizioni senzapatria, Sondrio 1987,
pp. 37-46, ripreso a sua volta da «Azione nonviolenta»,
Verona, gennaio 1985, pp. 6-8 con il titolo Lev Tolstoj
e lobiezione di coscienza.
34. L. Tolstoj, Non uccidere! A proposito dellassassinio
di Umberto I, «La vita internazionale»,
III, 20 (20 ottobre 1900), pp. 609-610. Le riviste francesi
da cui «La vita internazionale» dichiarava
di tradurre erano la «Revue Blanche» e la
«Revue et Revue des Revues».
35. L. Tolstoj, Agli imperatori, ai re, ai presidenti,
ecc. in Id., Ai governanti. Ai preti, tr.
di M. Salvi, Sonzogno, Milano 1905, pp. 39-45.
36. Ragaini, Un quasi-inedito cit., p. 206.
37. Scrive Tolstoj: «Lassassinio dei re, come
il recente assassinio di Umberto, è terribile,
sì, ma non perché sia di per sé una
cosa crudele. Quel che vien fatto per ordine re e degli
imperatori [
], e i massacri che si compiono in guerra
sono incomparabilmente più crudeli degli
assassinii commessi dagli anarchici» (Tolstoj, Non
uccidere, in Tolstoj, Perché la gente
si droga cit., 250). Nellopuscolo Sonzogno
viene omessa la precisazione «ma non perché
sia di per sé una cosa crudele» riferita
al regicidio, e si legge: «Lomicidio di un
re quello di Umberto, per esempio è
un atto di una crudeltà particolarmente nauseante,
è vero. Ma delle misure ordinate dai re e dagli
imperatori [
] sono incomparabilmente più
crudeli degli assassini commessi dagli anarchici»
(Tolstoi, Ai governanti cit., pp. 40-41). Inoltre
nellopuscolo Sonzogno viene omesso il seguente brano:
«Basterebbe [
] che ogni privato cittadino
comprendesse che il pagamento delle tasse, con le quali
si arruolano si armano e si armano i soldati, e a maggior
ragione il servizio militare, non sono affatto azioni
senza importanza, bensì azioni malvagie e vergognose.
E costituiscono non soltanto una connivenza ma una vera
e propria complicità ad un omicidio e subito
si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli
imperatori, dei presidenti e dei re che tanto ci indigna,
e per il quale adesso si continua ad assassinarli»
(Tolstoj, Non uccidere, in Id., Perché
la gente si droga cit., pp. 255-256). Un brano, sempre
alla fine dello scritto, viene mutilato nellopuscolo
Sonzogno. Tolstoj scrive: «Per cui non occorre assassinare
gli Alessandri, i Carnot, gli Umberti e gli altri, ma
occorre spiegar loro che sono essi stessi degli assassini,
e occorre soprattutto non permettere loro di assassinare
altra gente, rifiutarsi di assassinare su loro comando»
(Tolstoj, Non uccidere, in Tolstoj, Perché
la gente si droga cit., 256). Nellopuscolo
Sonzogno si legge: «Non bisogna, in alcun caso,
uccidere né Alessandro, né Carnot, né
Umberto, né gli altri, ma unirsi a loro per fare
ad essi dividere questa opinione che hanno diritto di
uccidere facendo la guerra» (p. 45). La traduttrice
di Tolstoj, Maria Salvi, non precisa la fonte da cui traduce;
molto probabilmente si tratta della raccolta di scritti
di L. Tolstoj, Les rayons de LAube, pubblicata
a Parigi nel 1901, su cui vedi la nota 39.
38. L. Tolstoi, A proposito delluccisione di
re Umberto, «Il pensiero. Rivista quindicinale
di sociologia, arte e letteratura». Redattori Pietro
Gori e Luigi Fabbri, Roma, VI, n. 15, 1 agosto 1908, pp.
226-228.
39. L. Tolstoi, A propos de lassassinat du roi
Humbert, in Id., Les Rayons de lAube. Dernières
études philosophiques. Traduit du russe par
J. W. Bienstock, P. V. Stock, Paris 1901, pp. 241-252.
La versione è la stessa, e così il titolo.
La fonte viene inoltre dichiarata da «Lagitatore.
Periodico settimanale di azione rivoluzionaria»,
Bologna, I, n. 14, 29 luglio 1910, che pubblica la prima
parte dellarticolo, intitolandolo La parola
di Leone Tolstoi, e rinviando a Les Rayons de
LAube cit., pp. 241-245. Rispetto alla traduzione
fedele de «Il pensiero», «LAgitatore»
operava un taglio. Nel giornale di Pietro Gori e Luigi
Fabbri si legge: «Se gli uccisori dei re hanno commesso
il loro delitto sotto linfluenza sia di un sentimento
personale di indignazione, provocato dalla miseria di
un popolo oppresso miseria di cui sembravano loro
responsabili Alessandro, Carnot o Umberto sia di
un sentimento personale di vendetta, il loro atto per
quanto sia immorale, è almeno spiegabile».
«Lagitatore» invece omette linciso
«per quanto sia immorale» riferito al regicidio:
«Se gli uccisori dei re hanno commesso il loro delitto
sotto linfluenza sia di un sentimento personale
di indignazione, provocato dalla miseria di un popolo
oppresso miseria di cui sembravano loro responsabili
Alessandro, Carnot e Umberto sia di un sentimento
personale di vendetta il loro atto è almeno spiegabile».
Nel testo francese si legge: «leur acte, quelque
immoral quil demeure, est au moins expicable».
40. Quando morirà Tolstoj, il libro viene citato
sia da L. Fabbri, Il pensiero anarchico in Leone Tolstoi,
«Il pensiero», VIII, n. 24, 16 dicembre 1910,
pp. 356-361, sia da L. Galleani, Leone Tolstoi 1828-1910,
«Cronaca sovversiva», 2 dicembre 1910, in
Id., Medaglioni. Figure e Figuri, Biblioteca
de LAdunata dei Refrattari, Newark New Jersey
1930, pp. 90-94. Il sommario dellarticolo di Galleani
diceva: «Tolstoi predicava la rassegnazione e il
ritorno al cristianesimo primitivo. Era troppo cristiano
per non essere un nemico della Chiesa. Non ha alzato la
sua voce quando tutta la Russia era in fiamme e le strade
di Pietroburgo e di Mosca si riempivano di barricate.
Non labbiamo mai amato».
41. «Tolstoi, vivendo in Russia, paese di sette
in cui la cospirazione è la cosa più naturale,
crede sul serio ai «complotti» che ad ogni
attentato individuale le polizie di tutti i paesi, insieme
ai giornali borghesi, inventano. Del resto non cè
bisogno di notare (per coloro che ci conoscono) i numerosi
punti in cui noi, antitolstoiani recisi, dissentiamo da
questo articolo che pure abbiamo creduto opportuno
offrire per la prima volta ai lettori italiani, per le
cose interessanti ed ardite che vi son dette, dopo 8 anni
precisi dal fatto che lo motivò».
42. A. Labriola, La guerra di Tripoli e lopinione
socialista, Morano, Napoli 1912, p. 104, cit. in
D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario
in Italia, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1970,
p. 204.
43. V. I. Lenin, Lev Tolstoi come specchio della rivoluzione
russa, in Id., Opere complete, XV (marzo
1908-agosto 1909), Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 199-203.
Lo scritto era stato pubblicato in «Proletari»,
n. 35 (24 settembre 1908).
44. Cit. in Marucco, Arturo Labriola cit., p.
205.
45. Cit. ibid., p. 222. È lintervento alla
Camera dei Deputati del 4 dicembre 1914.
46. A. Labriola, Intorno allherveismo,
«Pagine libere», 1907, n. 20, p. 389, cit.
ibid., p. 193.
47. Lincontro è raccontato da A. Borghi,
Mezzo secolo di anarchia (1898-1945). Prefazione
di G. Salvemini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1954 (ristampa Edizioni Anarchismo, Catania 1989), pp.
239-240. Borghi scrive di essere partito con altri compagni
guardando «con gli occhi notturni dellamore»
alla rivoluzione che «inabissava la guerra, dinamitava
i troni, sorrideva alla pace», e di aver trovato,
in una Russia distrutta dalla guerra e dalla fame, la
«ferrea logica della dittatura», «la
logica terribile del totalitarismo» (il resoconto
del viaggio nel capitolo Alla scoperta della Russia,
pp. 223-244).
Per
richieste: CSL Di Sciullo, c.p. 86, 66100 Chieti, e-mail:
fab.pal@libero.it.
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