Con il mio articolo
sul caso Parmalat apparso sul numero precedente di questa
rivista, temo di aver dato un segnale sbagliato se l’ing.
Jimmy Moglia (vedere box a parte,
NdR), da Portland (Oregon), dopo lusinghieri apprezzamenti
sulle mie argomentazioni (di cui gli sono grato), scrive testualmente:
«Bello il tuo articolo – però la tua conclusione
mi ha lasciato perplesso (quando affermi testualmente che) è
questa società che non regge ed è fuorviante addossarne
le colpe, tutte le colpe, a chi ne accentua i difetti. Vuoi
suggerire che quei manigoldi che hanno rubato a dritta e a manca
dovrebbero essere magari perdonati perché hanno soltanto
accentuato i difetti di una società che ne incoraggia
il crimine?»
Ebbene, non è questo che volevo affermare: anche per
me i manigoldi sono manigoldi, qualunque sia la struttura economico-sociale
nella quale vivono. Pertanto debbono essere perseguiti perché
gli sia impedito di peggiorare, a danno dei cittadini onesti,
le condizioni di iniquità e di sofferenza già
insite nel sistema. Quindi nessuna formula assolutoria per i
Tanzi, i Cragnotti e via dicendo. Il problema vero, però,
è quello che lo stesso mio cortese interlocutore rileva
proseguendo nel suo scritto: «Quello che tu dici è
purtroppo vero. E te lo dice uno che vive negli Stati Uniti.
... Affari tipo Parmalat... sono così tanti qui che spesso
non vengono nemmeno riportati sui giornali (i quali)... invece
di bollare questi delinquenti..., quasi li lodano come coraggiosi
cervelli finanziari».
L’esaltazione dell’imprenditore d’assalto
che rispetta le regole che gli convengono e ignora le altre
è tipica di una società che vive in un contesto
in cui le norme che regolano i rapporti economici e sociali
non sono uguali per tutti; nel quale l’espediente
è la norma, indispensabile per farsi largo e non soccombere.
Quello che ho cercato di dimostrare – nei limiti imposti
dallo spazio che una rivista può concedere ad un singolo
articolo – è che la dinamica economica del capitalismo
reale, in Italia e altrove, provoca naturalmente le
deviazioni, le operazioni truffaldine, le collusioni delittuose
che, magari in forma esasperata, ci si trova a rilevare nel
caso Parmalat e nei tanti altri casi simili verificatisi in
Italia e in tutto il resto del mondo industrializzato.
Finanziarizzazione dell’economia
All’origine dei molti guasti del sistema – lo abbiamo
rilevato più volte – c’è la finanziarizzazione
dell’economia, che progressivamente sta distruggendo l’attività
d’impresa, cioè la produzione di beni e servizi
necessari, anzi, indispensabili al benessere e, spesso, alla
mera sopravvivenza delle comunità.
Per ripetere con altre parole un concetto che ho già
espresso quando mi sono occupato, per esempio, della vicenda
Enron , la discrasia tra l’entità (e i tempi) di
remunerazione del capitale investito nelle attività peculiarmente
finanziarie e l’entità (e i tempi) dei capitali
destinati alla produzione di beni e servizi è tanto sbilanciata
a favore delle attività finanziarie che è ormai
difficile trovare sul mercato investitori puri disposti a rischiare
nell’attività d’impresa.
Gli espedienti che si sono tentati per superare queste difficoltà
sono stati diversi. Si è ricorsi alla deterritorializzazione,
si sono cercati, cioè, contesti più vantaggiosi
che consentissero all’impresa di abbattere certi costi:
quello della mano d’opera, per esempio, o quelli derivanti
dai vantaggi fiscali e di impianto offerti da paesi in via di
sviluppo, assai ben disposti verso gli investimenti esteri.
Si sono accelerati i processi di concentrazione per tentare
di raggiungere quote di mercato sempre più consistenti
e per realizzare economie di scala con la centralizzazione
dei servizi, la razionalizzazione delle reti distributive e
via dicendo.
Ma anche questi accorgimenti hanno i loro limiti. Produrre in
un paese straniero per ottenere i vantaggi sperati significa
il più delle volte dover scegliere tra i contesti economici
meno progrediti, che non hanno infrastrutture adeguate, sono
spesso politicamente instabili e non danno sufficienti garanzie
per iniziative imprenditoriali di un certo respiro.
Difficoltà di diversa natura insorgono per le concentrazioni.
Intanto, operare in regime di multinazionalità significa
modificare strutturalmente l’organico dirigenziale e amministrativo,
con la necessità di presidiare i contesti nazionali
nei quali si vuole operare con personale specializzato e management
di alto profilo che va adeguatamente retribuito. Poi, i problemi
connessi alla diversità delle legislazioni nazionali,
che impongono la presenza a tempo pieno di uffici legali esperti
in diritto internazionale che coordinino analoghi uffici periferici.
Infine, la necessità – per esempio per le industrie
alimentari – di dover diversificare i prodotti in modo
che siano compatibili con le diverse consuetudini locali.
Un discorso a parte va fatto per l’impatto con la politica.
Sia nel caso della deterritorializzazione che in quello
della concentrazione il costo da pagare per tutelare
i propri investimenti è di norma altissimo. Tutti i governi
che hanno reso instabili gli equilibri politici del pianeta
sono stati sovvenzionati con contratti commerciali che con le
leggi del mercato avevano assai poco a che vedere. L’esempio
casalingo che possiamo citare per la comprensione del problema
è l’affare Telekom/Milosevic oggi tanto strumentalmente
contestato da chi fa finta di non conoscere la realtà.
Contratti di tal natura, dove gli opportunismi politici sono
gli unici a condizionarne i contenuti, se ne stipulano a decine
ogni giorno e in ogni angolo del mondo.
Guardate poi a quella che è la realtà americana
del tutto esplicita. Pensate alle cifre astronomiche che le
grandi concentrazioni economiche debbono sborsare per essere
tutelate da una rappresentanza politica affidabile, che, in
barba a qualunque legge di mercato, si ricordi, al momento opportuno,
di assegnare gli appalti più lucrosi a chi si è
mostrato più generoso nel sovvenzionare le campagne elettorali.
In proporzione questo avviene sotto ogni latitudine e altera
strutturalmente il sistema, bruciando risorse immense e rendendo
sempre più inique le condizioni di vita della gente comune.
Sottrazione di risorse
Se gli stati fossero aziende, i tribunali dovrebbero costruire
hangar enormi per allocarvi i libri contabili che ne certificano
il fallimento. Se non falliscono è perché, quando
sono alle strette, ricorrono al consueto espediente di sottrarre
risorse ai propri amministrati, di norma alle fasce più
deboli della popolazione, sia in termini di tasse che di contrazione
dei servizi sociali. Così, da noi, si moltiplicano i
tributi, si innalzano le tariffe amministrate, si penalizzano
sanità ed istruzione, si riducono le risorse per gli
altri servizi necessari alla comunità (trasporti, asili
nido, presidi sanitari e via dicendo). In compenso si tutelano
i redditi più alti con tassazioni non progressive, si
incentivano consumi non necessari e qualche volta addirittura
paralizzanti (la famosa rottamazione, per esempio, che induce
a buttare alle ortiche veicoli ancora efficienti, congestionare
ulteriormente un traffico urbano già paralizzato e tutto
per salvare dal fallimento industrie automobilistiche decotte,
che certamente non contribuiscono a migliorare la condizione
complessiva del paese). Ci sono poi le missioni di guerra da
finanziare e gli aiuti economici alle nazioni povere che condividono
con noi il campo dello schieramento dei buoni da opporre all’omologo
dei nemici (pro tempore), e così via.
Per tornare all’obiezione dell’ing. Moglia: come
è evidente, con buona o cattiva coscienza peschiamo tutti
in acque inquinate e la quantità di fango che imbarchiamo
è direttamente proporzionale alla quantità del
pescato.
Ci saranno pure i delinquenti (e certamente ci sono), ma essi
infieriscono su piaghe già aperte. Sono quelle che dobbiamo
soprattutto badare a curare.
Antonio Cardella
Ps – Ringrazio Monica Giorgi: anche da lei
parole di apprezzamento che ho molto gradito. (Vedi CP
17120 del numero scorso, NdR)
Disprezzo
per i parassiti
Caro
Antonio,
Pensa che sono arrivato alla rivista e al tuo articolo
sulla Parmalat per caso. Stavo ricercando notizie storiche
sui Dolciniani e «un link tira l’altro».
Bello il tuo articolo – però la tua conclusione
mi ha lasciato un po’ perplesso, «... Ma
è questa società che non regge, ed è
fuorviante addossarne le colpe, tutte le colpe a chi ne
accentua i difetti.»
Vuoi suggerire che quei manigoldi che hanno rubato a dritta
e a manca dovrebbero essere magari «perdonati»
perché hanno ‘soltanto’ accentuato
i difetti di una società che ne incoraggia il crimine?
Quello che dici è purtroppo vero. E te lo dice
uno che vive negli Stati Uniti da molto tempo. Ci sono
anche qui molti che si oppongono a un sistema che favorisce
sempre di più i vari figli di puttana a cui il
prossimo frega meno di niente, (vedi per esempio Ralph
Nader che è il più articolato accusatore
del sistema che giustamente deploriamo).
Affari tipo Parmalat, anche se (quantitativamente) in
misura ridotta, sono così tanti qui che spesso
non vengono nemmeno riportati sui giornali. E quando vengono
riportati, i mezzi di comunicazione, invece di bollare
questi delinquenti come delinquenti, quasi il lodano come
coraggiosi cervelli finanziari. Che è come dire
che un bandito che assalta la banca è un esempio
di intelligenza coraggiosa (che ci riesca o no).
Io non ho soluzioni specifiche per cambiare il sistema.
Un primo passo – direi – sarebbe incoraggiare
il disprezzo, non l’ammirazione o (come nel caso
specifico, quasi un perdono), per questi eminenti parassiti
che producono niente altro che se stessi.
Il disprezzo non è in sé costruttivo ma
in questo caso per costruire bisogna cominciare a distruggere
– il disprezzo del delinquente può essere
un primo passo per cambiare la forma mentis della società.
Sottolineo «disprezzo» e non «odio».
Cordiali saluti,
Ing.
Jimmy Moglia
(Portland – Oregon – USA)
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