Teatro sociale
Molto probabilmente non avevano la «dignità»
letteraria del teatro maggiore, e anche la fama degli autori
non varcava gli angusti ambiti delle sale dove recitavano le
filodrammatiche. Però non erano neppure testi scritti
con la mano sinistra, alla buona, per palati grossi a un tanto
al chilo, perché il piccolo, grande mondo proletario
al quale si rivolgevano dall’alto del palcoscenico aveva
un palato fine, da intenditore esigente. E soprattutto avevano
una funzione, la manifesta funzione di parlare direttamente
al cuore di un popolo affamato di buone letture, di speranze
di riscatto e di emozioni capaci di dare corpo a quella solidarietà
di classe che, sola, poteva garantire il loro «diritto
all’esistenza».
Il teatro sociale, il teatro rivoluzionario, il teatro degli
esclusi e dei sovversivi! Un genere letterario copioso e fortunato,
che fra il finire dell’ottocento e i primi decenni del
novecento divenne uno fra gli strumenti culturali più
importanti per l’educazione politica e «sentimentale»
del nostro proletariato. Un genere dai contenuti dichiarati,
esplicitati con la chiarezza del fine rivoluzionario: contenuti
didascalici, pedagogici, formativi di una coscienza e di una
consapevolezza che potessero, una volta svuotatasi la sala della
recita, trasformare le tensioni e le ingiustizie in volontà
di lotta e di attacco alle strutture dello sfruttamento. Un
teatro che portava sulle scene la vita quotidiana delle plebi,
le lotte, gli scioperi, gli eccidi, le infamie di una borghesia
infame e irrecuperabile, le disgrazie di vite sofferte e infrante
da una durezza senza speranza. Un genere che fra gli anarchici,
soprattutto, ebbe larga diffusione, sia perché la propaganda
diretta (e questa era propaganda diretta coi fiocchi) era strumento
naturale per l’azione dei libertari, sia perché
la diaspora del movimento, coi suoi membri costretti ad emigrare
per trovare condizioni di vita più dignitose o per sfuggire
alle continue attenzioni repressive del potere, creava ovunque,
nel nord dell’Europa come nelle Americhe, affollate comunità
di compagni. E in queste il fiorire di una letteratura che riusciva
a mettere in sintonia l’esistenza quotidiana con i momenti
di svago o di arricchimento umano e culturale, diventava fondamentale
strumento di coesione e di identità.
Militanti autodidatti
Molti furono i nostri compagni che si cimentarono col teatro
sociale, e alcuni famosi, come Pietro Gori o Luigi Damiani,
infaticabili autori di fortunatissimi testi più e più
volte portati sulle scene di mezzo mondo. E lo stesso Malatesta,
a lungo stimolato dagli amici e consapevole dell’importanza,
per la diffusione dell’Idea, di questa forma di comunicazione,
si cimentò diligentemente in un Lo sciopero,
dramma in tre atti edito postumo a Ginevra nel 1933 per i tipi
de «Il Risveglio» di Luigi Bertoni. Ma più
spesso gli autori sono figli del popolo, lavoratori fra i lavoratori,
militanti autodidatti quotidianamente impegnati nella lotta
e partecipi, sul posto di lavoro e nella società, delle
situazioni rappresentate sul palco e delle contingenze vissute
giorno per giorno dagli spettatori. E fra i tanti, in questo
Ritratti in piedi, propongo all’attenzione dei
lettori l’operaio tessile di Schio Ausonio Zuliani (Tempeste
Sociali. Dramma sociale in tre atti con Prologo in versi martelliani,
La Spezia, «Il Libertario», 1915), il calzolaio
vercellese Tomaso Concordia (Lo Sciopero dei risaiuoli.
Dramma rivoluzionario in quattro atti con prologo d’introduzione,
Genova, La Comune, 1920) e il minatore aquilano Umberto Postiglione
(Come i falchi. Scene drammatiche in due atti, Philadelphia,
Circolo di Emancipazione Sociale, 1939).
I testi di questi autori, quanto mai sintomatici e felicemente
rappresentativi di quanto fin qui detto, mostrano una sostanziale
uniformità, sia nella struttura narrativa caratterizzata
da stilemi comuni, che nella scelta degli argomenti. Da una
parte i buoni e dall’altra i cattivi, qui gli operai,
i contadini, gli apostoli della redenzione sociale, là
il potere e la ricchezza, il padrone, il giudice, il prete,
lo sbirro. E poi la provocazione padronale, la durezza dello
sfruttamento, lo sciopero, la lotta, la sollevazione delle plebi
incitate dagli anarchici e dai socialisti a cui si contrappone
la crudeltà e l’infamia del nemico, l’ardire
e l’ardore del giovane protagonista, la purezza d’animo
della figura femminile legata all’eroe, la nobile figura
del transfuga della borghesia che ha dedicato la sua scienza
al proletariato. E il tradimento del crumiro o della spia (frequenti
per ricordare allo spettatore la necessità di tenere
sempre gli occhi aperti), la fame, il dolore, la fatica di trovare
un lavoro, la lotta per la sopravvivenza, fino alla tragedia
finale. Perché è una costante la mancanza del
lieto fine, del «vissero tutti felici e contenti»,
non solo in quanto impedita dalla crudeltà di quella
vita così fedelmente riportata sulla scena, ma anche
perché il dichiarato intento didascalico non può
assecondare sentimenti di ottimismo contrari all’impegno
e alla durezza dello scontro. E infatti è essenziale,
per la struttura del testo, lo scontro finale, redentore, catartico,
durante il quale le masse, vincenti o perdenti a questo punto
ha meno importanza, cercano di prendere in mano le proprie sorti
senza permettere a nessuno di provare a fermarle.
Nelle Tempeste Sociali di Zuliani, precedute da un
prologo nel quale l’autore declama gli intenti educativi
di questa forma di propaganda e la auspicata adesione del teatro
alla realtà, si intreccia alle traversie politiche del
protagonista, latitante per sfuggire a una condanna rimediata
per alcuni articoli di giornale, una fosca storia di calunnie
e tradimenti famigliari orditi dal proprietario della fabbrica
tessile di Schio. Calunnie e provocazioni che porteranno lo
sventurato Ermete de Fiori, vero e proprio alter ego
di Zuliani, costretto ad emigrare in Svizzera per sfuggire alle
rappresaglie padronali, a morire in carcere dopo sette anni
di ingiusta detenzione.
Particolarmente drammatica è la descrizione dell’eccidio
che segue alle provocazioni padronali, durante il quale muore
il miglior compagno di Ermete, come singolare è la figura
del carceriere, giovane non ancora segnato dalla durezza del
mestiere, che aiuta e compatisce il giovane prigioniero contribuendo,
nel momento supremo, ad allontanare il cappellano della prigione,
torvamente appollaiato sul letto del moribondo.
Minatore e hobo
In tutt’altra landa il testo di Postiglione, fra i minatori
della Pennsylvania, una comunità di emigrati italiani
dove ancora non è arrivata la parola sovversiva dell’anarchia
liberatrice ed emancipatrice. Una comunità che senz’altro
riproduce una delle tante frequentate dall’irrequieto
abruzzese, minatore, hobo e instancabile militante
sindacale. Qui è il capoccia, proletario traditore della
sua classe trasformatosi in aguzzino degli ex compagni di lavoro,
a fare una brutta fine, ucciso ed appeso alla vista di tutti,
come i falchi secondo una ancestrale tradizione contadina,
a monito per i suoi pari e ad incitamento alla rivolta per gli
sfruttati abituati a tremare dinanzi a lui. La sua colpa il
ricatto e il sordido tentativo di approfittare della compagna
di Enzo in cambio di un po’ di lavoro, il suo imperdonabile
errore ignorare che Enzo ha trovato, nella coscienza dello sfruttamento
e nella praticabilità della rivolta, la forza per farlo
pentire definitivamente delle sue torbide abitudini. Inutili
saranno gli appelli in nome di dio per sfuggire alla vendetta,
perché «in nome di dio ci derubate e ci affamate...
in nome di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa... in
nome di dio voi vorreste che ci rassegnassimo a tutte le vostre
infamie! Ah... no davvero!».
Il vercellese Concordia non poteva ambientare che nelle sue
campagne lo sciopero dei risaiuoli. Sono i contadini
stavolta che si stringono in lega, decisi a far valere i loro
diritti contro Lorenzo, sindaco e proprietario terriero, tanto
arrogante quando può ripararsi dietro la divisa del brigadiere
quanto pavido allorché la folla dei risaiuoli cerca di
stanarlo dalle sale del municipio. Particolarmente interessante
la figura di Riccardo, giovane anarchico e medico dei poveri,
che per aver tradito la propria classe spronando alla lotta
la folla esasperata sarà il primo a soccombere davanti
ai colpi della forza pubblica. Altrettanto significativa la
figura del prete, laido adescatore di giovinette e avido seguace
dei piaceri della carne, la cui volgarità si contrappone
all’idealismo del dottore, lui sì vero Cristo pronto
a sacrificarsi per la redenzione del lavoro. Sarà Tomaso,
i cui genitori sono fra le vittime dell’eccidio, a bilanciare
il corso della storia incendiando la casa e le proprietà
del sindaco, ma dopo anch’egli morirà, suicidandosi
per non finire i suoi giorni nelle patrie galere.
Trame abbastanza semplici, essenziali come si può capire,
direttamente finalizzate alla propaganda, ma non per questo
prive di una qualità letteraria che traspare nella attenzione
dedicata alle didascalie e che vuole essere non solo il legittimo
momento di gratificazione per l’autore, ma, soprattutto,
una dimostrazione di rispetto per il pubblico, «povero»
certamente, ma proprio per questo con maggiore diritto di assistere
ad uno spettacolo dignitoso e ben costruito. E dimostrazione
di rispetto anche per i luoghi e le circostanze delle rappresentazioni,
quando nelle sale delle filodrammatiche, dei circoli operai,
delle case del popolo, delle povere sale da ballo affittate
per pochi soldi o nei parchi delle periferie il popolo si ritrovava
come comunità, organizzando le serate di sostegno a uno
sciopero o a una vertenza, le feste campestri, le riffe per
la propaganda, le pubbliche letture o i comizi, preceduti dalla
farsa di prammatica e conclusi dal lavoro degli attori. Quei
giovani proletari che trasmettevano un fiotto di emozioni, portando
in scena la vita quotidiana, la loro e quella di chi li applaudiva.
Operai, contadini pellagrosi, famiglie costrette a emigrare,
minatori abbruttiti dalla fatica, sterratori, marinai, tutta
gente sconosciuta condannata a una situazione di duro sfruttamento
ma mai vinta e sempre in piedi, che nella sua capacità
di interloquire, anche durante una recita, con chi gli indicava
la strada della emancipazione trovava, ogni giorno che dio mandava
in terra, la dignità di lottare e di non curvare la schiena.
Massimo Ortalli
Odissea perpetua
di Ausonio Zuliani
La nostra vita errante di militi ed attori,
È un’odissea perpetua di lotte e di dolori;
È una battaglia audace tra l’infuriar degli odi,
Nel mare tempestoso di mille inganni e frodi.
Noi siamo i cavalieri d’un ideal d’amore
Di cui, tra sogni audaci, trabocca il nostro cuore;
Noi siam gli araldi impavidi d’un’utopia radiosa
Che all’igneo orizzonte s’annunzia minacciosa...
E come il navigante, sui flutti procellosi,
Lottando tra l’insidie dei gorghi vorticosi,
Fissa gli sguardi, ansioso, nel bieco fortunale
Verso il chiarore incerto del provvido fanale,
Così noi pur nell’ansia, del battagliar febbrile
Contro lo sfruttamento e la violenza vile,
La tremula pupilla lontan figgiamo ognora
Ove dell’avvenire già spunta in ciel l’aurora.
(breve pausa) Noi non cerchiam l’applauso del pubblico
elegante,
Che vive del sudore del popol dolorante,
Né ci conturba punto la stupida insolenza,
Del critico che vende... la penna e la coscienza...
Noi combattiam con l’arte, di verità sovrana,
La tragica epopea della giustizia umana,
Stillando nelle vene dei fiacchi e degli imbelli,
Le generose audacie dei forti e dei ribelli.
E in questa latta immane di redenzion sociale
Ci è sol conforto e guida la scienza e l’ideale,
Ci è sol compenso e premio l’apostrofe brutale
E la violenza cinica del codice penale...
E mentre gli assassini del popolo affamato
E gli svaligiatori delle banche di stato,
Son fatti cavalieri con decreto speciale
Per volontà suprema del vampiro regale,
Noi, che vogliamo assurgere al sogno redentore
Di libertà e giustizia, di fratellanza e amore,
Siamo bersaglio all’odio dei birri e dei potenti
E spesso imprigionati siccome malviventi.
Così la legge impone, la legge dei signori,
Contro il diritto sacro di noi lavoratori,
Contro la voce libera della giustizia umana
Che trionfar dovrebbe tra gli uomini sovrana.
Ma contro questa legge iniqua, infame, odiosa,
La tempesta sociale già rugge minacciosa
E squassa, quale raffica del turbo aquilonare,
La duplice tirannide del trono e dell’altare...
È la fatal crociata di tutti i derelitti
Per la final conquista di più giusti diritti,
La gran tragedia umana degli odi invan repressi
A furia di manette, a furia di processi...
Ma noi combatteremo la gran battaglia ardita
In nome della plebe oppressa ed asservita,
Sinché, redenti i popoli a nuova civiltà,
Unica legge al mondo sarà la Libertà!
Vigilia d'importanti avvenimenti
di Ausonio Zuliani
ARTURO (entrando) – Buona sera, compagni.
(evitando Gino, stringe la mano ad Armida e fa una carezza
ad Anita).
ARMlDA (lo prende per mano) – Buon Arturo ascoltami.
Noi siamo forse alla vigilia d’importanti avvenimenti
che richiedono fermezza e solidarietà. Di fronte alla
brutalità dei nostri aguzzini noi dobbiamo unirci in
un fascio concorde e deciso onde servire d’esempio alla
folla irrequieta, che attende da noi la scintilla annunziatrice
della prossima bufera. (comprendendo col gesto il pubblico)
Per la causa di tutti e d’ognuno, per il bene dei nostri
fratelli derelitti e schiavi, noi dobbiamo dare una prova della
nostra serietà, della nostra volontà, della nostra
forza. Che i piccoli rancori tacciano di fronte all’ira
nemica. Tregua ai ripicchi, alle beghe personali. Nell’ora
tragica e solenne sappiamo essere compagni e fratelli; un solo
corpo ed una sola coscienza. (l’attira presso Gino,
indi unendo le loro mani) Per la schiera innumere dei senza
pane, per le vittime oscure della reazione che nelle carceri
soffrono per la colpa sublime d’aver amati i deboli...
dimenticate il passato e ritornate amici.
Arturo e Gino si abbracciano
(rombo prolungato di tuono)
ANITA – Dunque, Arturo, che novità ci rechi?
ARTURO – Vengo dalla sede del Gruppo Socialista e non
ho potuto informarmi di ciò che avvenne nelle ultime
ore.
ANITA – Ma, insomma, i compagni non sapevano nulla?
ARTURO – Alle quattro la situazione era, su per giù
quella di stamane. Le vie e le piazze erano animatissime. S’è
fatta una dimostrazione di simpatia davanti alla caserma degli
alpini che si rifiutarono di obbedire ai comandi al canto dell’Internazionale.
GINO – Bravi, perdio; se si comincia così siamo
a buon punto.
ANITA – Lo dicevo io che gli alpini non impugnerebbero
i fucili contro i loro fratelli!
ARTURO – La propaganda d’Ermete comincia a dare
i suoi frutti. (come scoraggiato, con breve pausa)
Però non bisogna illudersi troppo... In paese corron
le voci che stia per giungere un reggimento di fanteria...
GINO (scattando) – Non dovevano scioperare i
ferrovieri?
ARTURO (con gesto significativo) – Avevano promesso,
ma non se ne fece nulla. Certe abitudini non si perdono così
presto!
ARMIDA (dopo breve riflessione, a Gino) – Temo
che la faccenda si faccia seria; se giungono i soldati siamo
bell’e spacciati! I lavoratori non sono preparati ad una
simile eventualità. Non possiedono né fucili né
altri mezzi persuasivi da opporre al nemico!
ARTURO (incoraggiandola) – Non bisogna però,
disperare. Se lo sciopero generale perdurerà dovranno
pur cedere lor signori! Siamo noi i produttori e se le nostre
braccia riposano non sapranno che cosa mangiare.
ARMIDA – Sono illusioni, caro mio! Con l’educazione
che hanno ricevuta i lavoratori in questi ultimi trent’anni
di propaganda legalitaria, sarebbero essi i primi a subire i
tristi effetti d’uno sciopero generale. I ricchi troverebbero
sempre il mezzo di procurarsi il necessario alla vita. Bisognerebbe
che gli operai fossero risoluti a saccheggiare i magazzini,
ma col rispetto che hanno per la proprietà difficile
spingerveli.
ARTURO – Apriranno bene gli occhi, una volta o l’altra!
ANITA (dopo breve pausa) – Arturo, non ci hai
ancora detto che cosa avete deciso nella vostra riunione.
ARMIDA – A proposito, che pensano di fare i tuoi compagni?
GINO (ironico) – Diavolo, non è difficile
indovinarlo… Avranno certo votato… un ordine del
giorno di protesta!
ARTURO – No, caro Gino, i giovani socialisti han fatto
tesoro della propaganda d’Ermete, dei sacrifici generosi
di tanti martiri, della dolorosa esperienza di questi ultimi
anni di battaglie; e si sono schierati, senza reticenze e senza
ipocrisie al vostro fianco, pronti a qualunque evento per la
difesa della libertà.
Tratto da: Ausonio Zuliani, Tempeste Sociali, La Spezia
1915.
Un mondo nuovo
di Umberto Postiglione
ENZO – Che vuoi che ti dica… Avrei tante cose da
dirti che non so da dove cominciare. Ho visto un mondo nuovo…
ecco tutto!
LINA (ridendo) – Hi… hi… hi!…
Come le dici grosse! Un mondo nuovo a poche miglia di qui…
e in una settimana?…
ENZO (con convinzione) – Si capisce… un
mondo nuovo. Quegli amici che ho incontrati laggiù sai…
mi hanno aperto gli occhi.
LINA – E che forse, prima, li avevi chiusi?
ENZO (vivamente) – Proprio così…
Li avevo chiusi, come li hai tu e tanti altri lavoratori che
seguitano a crepar di fatica e di fame biascicando avemarie
e paternostri.
LINA – Ma cosa ti gira per la testa, Enzo?… Che…
t’hanno stregato, forse?
ENZO – Già, già… stregato! Altro che
stregato!… Ho visto in un’ora, quello che in tutta
la mia vita non ho mai visto.
LINA (incuriosita) – Ma si può sapere
cosa hai visto?…
ENZO – Ecco, cosa ho visto… L’altra sera a
Black Dimond capitai a caso in una sala attrattovi dalla voce
di una persona che parlava ad un gruppo di minatori. Mi par
di udirla ancora adesso quella voce… E quelle parole mi
sono scese giù nel fondo dell’animo… Ma vedi…
non so ridirle, ché altrimenti le andrei ripetendo per
tutto il mondo!
LINA (c. s.) – E che diceva, dunque, colui che
parlava?
ENZO – Che diceva?… Parole d’oro, Lina mia,
parole d’oro! Quando entrai, parlava della vita dei minatori,
della nostra fatica bestiale, dei pericoli a cui ci esponiamo…
Sai come chiamava i minatori?… Talpe umane, li chiamava…
Proprio così, perdio! Come le talpe siamo noi…
Viviamo sottoterra ed una frana di roccia può da un momento
all’altro seppellirci, senza l’ultimo bacio della
mamma… della sposa… Talpe umane!… (breve
pausa. Resta pensieroso, poi avvicinandosi a Lina e mettendole
le mani al collo) E di voi parlò, Lina… delle
nostre donne!… Ah, quando disse che molte donne affrante
dai patimenti, minacciate dalla fame… son costrette a
darsi al boss perché mantenga al lavoro il marito…
(Lina singhiozza). – Lina, tu piangi?…
Oh… piangevo anch’io a sentir quel giovane…
Aveva le lagrime agli occhi anche lui. (Breve pausa).
Sai Lina, fu tanta l’impressione che quelle parole mi
lasciarono, che rimasi lì come incantato. Pensavo a te,
Lina,… Ti vedevo, qui, sola… senza un soldo…
spaurita. Immaginavo che qualcuno, approfittando della mia assenza,
avesse potuto assalirti… ingannarti. Le tempie mi martellavano…
Il sangue mi bruciava… Avrei voluto tornare subito qui…
volare… e prendere per il collo il boss... quell’infame
che m’ha costretto a separarmi da te, e... sgozzarlo come
si sgozza un pollo…
“Mi hai tolto il pane”
di Umberto Postiglione
ENZO (sprezzevole) – Enzo, sì…
Non te l’aspettavi, eh? Lo avevi tirato bene il tranello.
Ma ora nella rete ci sei tu, miserabile. E non ne uscirai liscio,
credi a me. (Breve pausa). Tu mi hai tolto il pane...
e poi volevi togliermi anche l’amore. Ho pur io ragione
di toglierti la tua vitaccia incarognita?
TONIO (spaventato e tutto umile) – Enzo... in
nome di dio, perdonami!
ENZO – In nome di dio?… In nome di dio ci derubate
e ci affamate... in nome di dio ci uccidete come cani per le
strade... in nome di dio ci massacrate nelle guerre... in nome
di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa… Ed è
infine in nome di dio che voi vorreste che ci rassegnassimo
a tutte le vostre infamie! Ah… no davvero!
TONIO (c. s.) – Pietà di me, Enzo, perdonami!
ENZO – Pietà?… Ed avesti tu pietà
di questa donna che ti supplicava di lasciarla in pace?... Dovrei
dunque aver pietà di te, io? Oh... no! Sarei un vile!
Non ti bastava togliermi il pane, sei venuto a rubarmi anche
l’amore e vorresti che io ti lasciassi impunito?... Tu,
che ti sei appostato come un falco per afferrare la preda quando
fosse sola!... (risovvenendosi) Ah, i falchi... laggiù
nei vecchi paesi!... Ricordi, Lina?… Quando un contadino
ammazzava un falco, lo inchiodava sulla porta di casa per dare
esempio agli altri. (Cieco dall’ira) L’accetta,
l’accetta!... (va in giro per la camera cercando l’accetta).
Dov’è l’accetta ?... (la trova nell’angolo
della porta, la impugna e dirigendosi minaccioso verso Tonio,
atterrito, in atto di colpirlo) Voglio spiccargli la testa
dal busto al miserabile ed inchiodarla sulla bocca della mina
come s’inchiodano i falchi!
Tratto da: Umberto Postiglione, Come i falchi, Philadelphia,
1939.
Fannulloni accaparratori
di Tomaso Concordia
DOTTORE – Povere vittime di un sistema barbaro, d’una
società ingiusta e sragionevole! Voi siete dei veri martiri,
i martiri del lavoro! (verso il pubblico) E si osa
dire che viviamo in piena civiltà, nel secolo del progresso
e delle più miracolose scoperte… Povera civiltà!
Inutili o vane scoperte! (avanzandosi verso il pubblico,
con forza) Possiamo chiamarci civili, noi che permettiamo
che la grande maggioranza degli uomini soffra ogni sorta di
miseria e muoia di fame, dopo essersi logorata la salute lavorando
come bestie mentre un pugno di fannulloni, perché accaparratori
del prodotto dei primi, gozzovigliano senza tregua nei banchetti
e nei festini, e muoiono sovente... d’indigestione? (dopo
un istante di pausa) A che valgono tutte le miracolose
scoperte dei nostri signori scienziati? A profitto di chi si
realizza il progresso dell’industria, dell’agricoltura,
del commercio, delle scienze, ecc. ecc.? Il frutto di tutte
le ricerche scientifiche non è forse a totale vantaggio
di chi tutto possiede; ed i miserabili, i diseredati, i dannati
al lavoro irredento non sono ancora oppressi dal giogo religioso
capitalista ed autoritario? Fra gli splendori di tutte le grandi
scoperte, fra il lusso, l’abbondanza, l’arte raffinata,
la letteratura utile e educativa e tutto ciò che costituisce
la ricchezza sociale, ma proprietà di un’infima
minoranza di uomini rinchiusi in un gretto conservatorismo,
non vediamo dibattersi milioni, diecine di milioni, centinaia
di milioni, la quasi totalità degli uomini in una terribile
cerchia della moderna schiavitù, uguale a quella dei
popoli barbari, ma forse ben più crudele di quella? (con
forza) Sì! è una vergognosa farsa quella
rappresentata dai signori scienziati, finché una società
ingiusta come la nostra, non permetterà che tutti gli
uomini godano i frutti del lavoro, dell’arte e del sapere
umano!… (con largo gesto, indicando se ed il pubblico)
Ma se vogliamo essere sinceri, perdio! bisognerà, ben
gridar forte: noi siamo tutti dei malati di mente o delle perfette
canaglie; perché, se fossimo ragionevoli, non dovremmo
permettere che tanti milioni e miliardi e tante energie materiali
ed intellettuali siano sprecate per l’opera incivile dell’oppressione,
dello sfruttamento e della distruzione umana, costringendo i
produttori della ricchezza sociale a vegetare nell’ignoranza,
nella superstizione, nell’… – e perché
non dirlo? – nello stato bestiale! L’intelligenza,
il sapere, il coraggio, il valore e… e tutto quanto costituisce
la parte migliore dell’umanità, oggi, nella società
irragionevole, vengono adoperate per creare, inventare, scoprire
cose se non inutili, certamente non urgentissime, quali: le
scoperte chimiche, i dirigibili, l’aviazione, le scoperte
dei poli, ecc. ecc., mentre quasi nessuno studia e lavora per
scoprire il mezzo di affratellare gli uomini, mediante la messa
a disposizione di tutti i viventi di: pane, casa, libri, ecc.
E la medicina, a che cosa serve? Ad arricchire coloro che di
questa ne han fatto un commercio! Altro che medicine dobbiamo
somministrare agli uomini! Bisogna metterli in condizioni economiche
tali da poter combattere il male.
Si diano agli uomini cibi sani ed abbondanti, abitazioni comode,
gaie, inondate di luce e accarezzate dai benefici raggi del
sole, un’istruzione razionale ed un’educazione sociale;
e allora i nove decimi dei mali travaglianti quasi interamente
l’umanità, scompariranno, essendone scomparse le
cause che li produssero... Ma così non si fa... perciò
posso gridare forte: che una società che non studia i
mezzi necessari per rendere felice tutti i suoi membri, la si
può paragonare ad un’associazione di delinquenti,
una cloaca di malviventi, od un circo di pazzi! Mentre la loro
società permette che la tubercolosi, la pellagra, la
malaria, l’anemia, il rachitismo e tantissimi altri mali
mietano milioni e milioni di uomini, privi dei mezzi più
elementari di difesa: cibi ed igiene; mentre i dirigenti trovano
normale, giusto e logico che milioni di diseredati siano falciati
dalla morte imperante nelle miniere, nelle zolfatare, nelle
tetre officine, nelle malsane risaie ed in ogni luogo dove si
lavora come bestie, la gente cosiddetta per bene, i signori
del cosiddetto ordine, gl’imbecilli chiamano malfattori
i generosi pionieri di un’Era nuova, i combattenti disinteressati
pel bene sociale, gli apostoli della rigenerazione umana, i
martiri che sanno lottare e morire per l’avvento di una
società di liberi, di uguali e di amore vero! (osservando
melanconicamente la camera) Ecco l’abitazione del
povero ed avvilito risaiuolo! Confrontatela alle regge, al Vaticano,
ai sontuosi palazzi dei ricchi: e poi negate, negate sfacciatamente
che la questione sociale è una invenzione di menti esaltate,
di gente squilibrata... (Facendo alcuni passi colle braccia
incrociate, cupo) Quanta squallidezza !... Qui è
necessario soccorrere questi infelici… (ponendo qualche
moneta sul tavolino) Queste, buona Giovanna, serviranno
per comperare ciò che sarà più urgente...
Non rifiutate, ve ne prego... Mi addolora di non poter far di
più pel momento...
“Colle gambe nude”
di Tomaso Concordia
LORENZO – Dunque, parroco, ora andiamo a visitare i miei
campi, le risaie e il lavoro della trebbiatura sull’aia…
Vedrai a che bello spettacolo ti farò assistere!…
E le belle mondine?... Le vedrai, Le vedrai! Son circa duecento,
quasi tutte giovanette... ve ne sono di quelle che sembrano
ancora bambine, che madonnine!... Oh! le vedrai colle gambe
nude, curve, nella risaia... che po’ po’ di gambe!...
Andiamo, vieni!
DON CRISTOFORO, ridendo beatamente – Non c’è
male! non c’è male! Dopo aver ben mangiato e ben
bevuto, una buona passeggiatina all’aria libera dei campi,
sotto i folti alberi, ad osservare le belle risaiuole intente
a mondare il riso, non farà mica poi male!… (ridendo
sempre più). Ma bravo! ma bravo, caro Lorenzo! si
vede che sei un uomo giudizioso, tu! Ma si! andiamo a vedere
i tuoi uomini… pardon!… le tue belle e graziose
donne. (Con largo gesto). Oh! il lavoro!... solo esso
rende felice chi lo compie! (Con una certa serietà).
V’è al mondo uomo più contento del lavoratore…
onesto, s’intende? Per lui la vita trascorre lieta e tranquilla.
LORENZO, un po’ grave – Eh! Caro mio…
una volta era così! ma oggi!… oggi con tutti i
partiti avanzati e con tutte le mene pazzesche dei rivoluzionari,
i contadini del Vercellese – che un tempo erano così
docili, così pazienti, così presto contenti di
quel poco che lor si offriva in cambio del lavoro – ora
non son più quelli... sono in continue agitazioni, odiano
il padrone e dicono apertamente che non saranno mai contenti
fin che non li avranno espropriati!… Dacché è
venuto quell’anarchico Zavattero a parlare sulla pubblica
piazza contro i detentori della ricchezza ed in favore della
messa in comune delle terre, a profitto dei produttori, i nostri
contadini si son montato il capo!… parlano sul serio di
fare l’uguaglianza...
DON CRISTOFORO, con fine malizia – Dimentichi,
però, che il prete esiste non per nulla… Difatti,
non puoi negare che, col nostro confessionale dal pulpito, noi
lavoriamo abbastanza bene per impedire che i lavoratori ascoltino
questi arrabbiati rivoluzionari, e si accordino e si associno...
Capirai, caro Lorenzo, noi conosciamo molto i loro difetti e,
soprattutto, la debolezza delle donne... È nostro dovere,
di buoni ministri di Dio, di coltivare questi gentili esseri
deboli! Così facendo riusciamo ad ottenere questo: la
donna reagisce con tutti i mezzi, non esclusa l’astuzia,
contro le idee abominevoli del marito, contro lo spirito ribelle
del fratello, contro il malcontento ognor crescente dell’amante...
Lascia fare ai preti, Lorenzo mio! e non dimenticare il giusto
proverbio popolare: «Il prete, colla paura dell’inferno,
ed il carabiniere, colle manette, mantengono i poveri nella
quiete». (ridendo a crepapancia) Ah! Ah!... Si
vede che non sei ancor abbastanza furbo, tu!... Se ti spaventi
del chiasso che fanno i socialisti e gli anarchici – poiché
per ora, altro non è che fuoco di paglia – ti dimostri
poco intelligente e meno chiaroveggente...
“Son perduto”
di Tomaso Concordia
BRIGADIERE, bussando alla porta – Non mi son
sbagliato, è qui… Aprite!
TOMASO, di soprassalto – Eccoli!… Son perduto!
BRIGADIERE – Tomaso, aprite!
TOMASO, energico – Aprire? No! La pecora non
va da sola nella bocca del lupo.
BRIGADIERE, arrogante – In nome della legge,
aprite!
TOMASO, sarcastico e energico – Sempre in nome
della legge!... La legge... Ma voi lo sapete che la vostra legge
e iniqua e barbara!… È la vostra legge che condanna
alla miseria milioni di lavoratori!... È la vostra legge,
che voi sciagurati difendete, che spinge alla disperazione milioni
e milioni di affamati, in mezzo all’abbondanza ed il lusso
(con forza). In nome della legge! Ah, iene in sembianze
umane!… La legge che voi difendete col fucile e le manette,
è criminale, perché è fatta apposta per
proteggere i potenti; mentre calpesta ed uccide i deboli! (Esclama).
Mio padre e mia madre furono assassinate perché esistono
le leggi infami in difesa dei ricchi e dei potenti… Ed
è in nome di queste inique leggi che ora si vorrebbe
arrestare, per far morir lentamente in una galera qualunque,
l’uomo che ragiona, che ha palpiti generosi, che sogna
un avvenire di pace e di giustizia, e combatte per la redenzione
dei proletari... La vostra legge, dopo avere assassinati i genitori,
vuol sopprimere l’orfano, il ribelle, il giustiziere.
Vili!
BRIGADIERE, furioso – In nome della legge, aprite,
o abbatteremo la porta!
TOMASO, commosso – Genitori miei, perdonatemi
(Rivolto al Brigadiere, con forza). La vostra legge
non vi farà raccogliere che un cadavere! (Estrae
la rivoltella e si spara un colpo nella testa. Cade al suolo
gridando:) Viva la rivoluzione socia...
La porta viene abbattuta, Brigadiere e carabinieri entrano
colla rivoltella in pugno.
CARABINIERI, vedendo il cadavere – È morto!
BRIGADIERE, indifferente – Meglio così!
PIETRO, di fuori – Cos’è successo!
Cos’è successo!
Entra e vedendo il cadavere si getta in ginocchio, lo abbraccia
e lo bacia ripetutamente sulla fronte. Poscia, rialzandosi lentamente,
si copre il viso colle mani e fra i singhiozzi, esclama:
Hanno ucciso anche il figlio!
BRIGADIERE – No. Il miserabile s’è fatta
giustizia lui stesso. (Sogghignando). Tanto di guadagnato
pel comune e pel governo!
PIETRO, grave, commosso, ma con energia – Ma
la sua dolorosa storia registrerà un’altra vittima
di questa barbara società!
Tratto da: Tomaso Concordia, Lo sciopero dei risaiuoli,
Genova, 1920.
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