Presentazione all’edizione italiana
Nel maggio 2003, Horacio Pietragalla Corti, di ventisette anni,
è diventato il settantacinquesimo dei neonati rubati
durante la guerra sporca in Argentina e poi recuperati dalle
loro vere famiglie. Anche se un essere umano non può
mai diventare un numero. E malgrado sia stato proprio quello
il tentativo messo in atto dai militari con i suoi genitori,
Horacio e Liliana, assassinati nel 1976.
Settantacinque bambini e adolescenti – ormai divenuti
giovani uomini e donne – dei cinquecento stimati dalle
Abuelas di Plaza de Mayo sono tornati ai loro veri nomi, alla
loro storia autentica, alle loro origini e alla loro realtà.
Questo non è successo grazie agli zelanti interventi
di qualche governo, né in seguito agli sforzi di qualche
corpo di polizia o di altri organismi statali di qualsivoglia
genere. Al contrario, l’atteggiamento costante dei governi
«democratici» del Cono Sud è consistito nel
lasciar fare e nel lasciar correre, nel lavarsene le mani tollerando
i sequestri.
Horacio, Simón, i settantacinque bambini rubati, sono
stati recuperati soltanto grazie all’instancabile impegno
delle Abuelas di Plaza de Mayo e degli organismi per
la difesa dei diritti umani.
In tutti questi casi, così come in altri legati a conflitti
fra i settori popolari e coloro che detengono il potere sociale,
i governanti – con le loro azioni o omissioni –
si sono tenuti lontani dal popolo e vicini al denaro e al potere.
Il fatto che una simile aberrazione si presenti come normale,
moderna e conforme ai tempi che corrono, si sposa perfettamente
con il cinismo della destra «moderna», così
diffuso ai nostri giorni. Che la complicità da parte
dei governi sfoci nel fornire giustificazioni vergognose e spiegazioni
che non spiegano mai niente la dice lunga sui rapporti esistenti
fra governanti e governati, fra l’eternamente trafugata
sovranità popolare e l’esistenza di influenti cerchie
di privilegiati che, per ciò stesso, diventano intoccabili.
Per quanto concerne le vittime, persone che oggi hanno ventisette
anni (gli stessi dell’ancora impunita dittatura militare),
voglio qui ricordare qualcosa che ho scritto in un romanzo pubblicato
recentemente in Italia che ha tutto a che vedere con la vicenda
dei bambini rubati.
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Strappato dalle braccia
Il collegamento era nato a proposito della «notizia»
– erronea, in quel momento – del ritrovamento di
Simón Riquelo nel 1991. Ho rivisto quel testo, che rimane
la mia maniera migliore per affrontare il tema. Eccolo, dunque:
A tredici anni dal sequestro, Sara ha ritrovato Simón.
«Il mio nome è Sara Méndez. Mio figlio
Simón mi fu strappato dalle braccia quando aveva appena
venti giorni di vita...».
Aguirre lesse. Il bambino era stato sequestrato a Buenos Aires
il 13 luglio 1976 da un commando di militari uruguayani, appoggiato
dall’esercito argentino, agli ordini del maggiore dell’esercito
uruguayano José «Nino» Gavazzo. Adesso era
stato ritrovato, e sua madre faceva onore al genere umano con
le sue affermazioni: «La coppia che ha Simón non
ha partecipato alla repressione; non sono militari». [...]
Dopo tredici anni ricompare un altro dei bambini rapiti ai suoi
familiari da agenti della repressione. A intervalli variabili
ma sempre lunghi, e in occasioni diverse ma sempre rare, il
fatto si ripete. Risolverlo non è mai semplice, perché
al bambino in questione occorrerà una forza enorme, al
momento irreperibile, per iniziare mutilato il resto della sua
vita.
Non vi sono altre soluzioni: restituire il sequestrato alla
cerchia della sua vera famiglia.
La soluzione però non è perfetta.
A volte, la maturità e la generosità degli adulti
contribuiscono a mitigare le ferite del minore.
Altre volte, i bambini i cui genitori sono stati assassinati
vengono contesi ferocemente dai nonni e da coloro che li hanno
allevati e amati come fossero figli propri, ricoprendoli magari
di doni e complimenti per scongiurare il senso di colpa nei
loro confronti. E in quel festival della stampa scandalistica,
in quel banchetto della tivù più abominevole,
si offre al pubblico una telenovela dal vivo e in diretta, i
cui protagonisti piangono guardando la telecamera e mostrano
i denti per difendere i loro affetti.
Aguirre scrutò quegli occhi, la cui durezza era tutta
quanta al servizio della missione che ispirava i passi e le
ore di quella donna. Ricordò le stragi della furia nelle
sue notti insonni, così inefficaci, così poco
funzionali. Pensò a quei vecchi che dal loro accecamento
avevano tratto saggezza. Teneri, ma duri come la pietra levigata
e il metallo. Come facevano? Come potevano continuare per tredici
anni a indagare su tracce che un Paese si ostinava a cancellare?
Come potevano ricomparire dopo tredici anni con lo stesso sorriso
e lo stesso sguardo, inalberando una foto ripresa da un giornale,
scommettendo un uccellino ferito sul ritorno dell’estate?
Simón, a tredici anni, è lo stesso Simón
di quando aveva venti giorni? E cosa può fare Simón?
Cosa può fare una persona che alla confusione e alle
contraddizioni che i suoi tredici anni gli riversano sul corpo
e sui pensieri, pulsioni, interessi, prese di posizione e smarrimenti
di fronte alla vita, deve ancora aggiungere altro, e poi togliere,
e cambiare di nuovo tutto quanto? Come riuscirà ad affrontare
il fatto che lui non è lui, che non si chiama come si
chiama, che la sua famiglia non è la sua famiglia, e
che la storia che gli hanno raccontato non è la storia
che gli appartiene? Chi gli spiegherà che il bianco è
il nero, e il buono è il cattivo? In cosa crederà
quel ragazzino sulla soglia dell’età adulta essendo
stato ingannato – nel miglior stile di un tango di Discépolo
– «fin dal giorno in cui era nato»?... Sfiduciato,
forse irrecuperabile, decisamente sfiduciato, nel migliore dei
casi gravemente ferito per la fiducia concessa, malato cronico
della fede, messo in una condizione schizofrenica con cui dovrà
fare i conti e a cui dovrà pagare tributi per il resto
della vita... In cosa crederà quel ragazzo? In chi, senza
che la sua fede, la sua matura decisione, il suo spontaneo ottimismo,
la sua necessità di credere debbano sopportare i colpi
della realtà e i morsi della fantasia? Come evitare che
i meandri meno protetti del suo cervello distillino un antidoto
contro qualsiasi tentativo di avere fiducia? Come scacciare
da cantine e corridoi proibiti agli imperativi della coscienza
i mostri che si trovano lì per combattere qualsiasi speranza,
pronti ad attaccare, una notte, non appena lo avranno deciso?
Che ne sarà dunque di Simón, e che ne sarà
del nipote di Luisa Bellusci? E cosa può fare Aguirre,
se non sottomettersi a una linea d’azione più chiara
della sua? Cos’altro, se non prendere parte al secondo
atto del dramma o della tragedia e lottare per trovare quel
bambino di tredici anni, legato a lui come se fosse un figlio
suo? Cos’altro, se non piegarsi alla ferma volontà
della nonna e gettarsi su qualsiasi pista bislacca?
«Cosa vuole che faccia?» domandò.
«Voglio che lei indaghi su un poliziotto». [...]*
Che ne sarà degli assassini?
Queste righe, beninteso, sono letteratura. E mirano a enfatizzare
i problemi. Non impediscono che i nostri desideri e le nostre
convinzioni si orientino in senso ottimista. L’amore è
un balsamo meraviglioso. Le ferite cicatrizzano e, senza dimenticare,
per sempre con la loro tremenda verità, Horacio Pietragalla,
Simón Riquelo e ciascuno dei neonati rubati e poi recuperati
hanno avuto l’occasione più importante della loro
vita.
E i responsabili della repressione? Che ne è dei criminali?
Che ne sarà dei ladri e degli assassini?
Nella Divina Commedia Dante Alighieri ha riservato
il settimo cerchio infernale ai violenti, a tutti coloro che
danneggiarono gli altri ricorrendo alla forza. E in quel recinto
il poeta ha immerso in un fiume di sangue bollente e nauseabondo
alcuni condannati da lui così descritti: «...Ei
son tiranni, / Che dier nel sangue e nell’aver di piglio.
/ Quivi si piangono li spietati danni».
I credenti, forse, possono rifugiarsi nell’idea di una
superiore giustizia finale. Altri, e io con loro, ritengono
che l’idea di giustizia elaborata dall’umanità
nel suo lungo cammino esige che si proteggano le società
e si castighino i colpevoli.
Per la prima volta, dopo il 1976, l’Argentina ha un presidente
che sembra deciso a non coprire i crimini dei militari. Contro
di lui si stanno già sollevando tutte le forze di destra.
Potenti, indubbiamente, così com’è forte
il sostegno popolare all’iniziativa di Kirchner. L’esito
del conflitto è un’incognita. Il suo risultato
dipenderà da tutti gli argentini.
La storia che vi accingete a leggere tratta problematiche come
queste.
Città del Messico, novembre 2003
Rolo Diez
* Brano tratto da: Il passo della tigre, trad. di
E. Mogavero, Marco Tropea editore, Milano 2003 (il passo si
trova alle pp. 62-64, ma presenta delle varianti ed è
stato tradotto ex novo). Il protagonista del romanzo, Aguirre,
ex militante di sinistra che si era infiltrato nella polizia
e ha finito per restarvi, sia pure fra mille contraddizioni,
si confronta con un’Abuela di Plaza de Mayo impegnata
nella ricerca del nipote. La donna gli mostra un foglio di giornale
che parla del ritrovamento – poi rivelatosi illusorio
(vedi cap. VII) – di Simón.
Introduzione
Buenos Aires, 1976. Esibite o nascoste, le armi mettevano in
allarme le strade. La paura e la polvere da sparo impregnavano
l’aria, i muri e le facce. La violenza, in realtà,
non era una novità in Argentina, durava almeno da quarant’anni.
Adesso però era diverso, si trattava di vero terrore.
La sinistra AAA (Alianza Anticomunista Argentina), organizzazione
che riuniva poliziotti, peronisti di destra e fondamentalisti
di estrema destra, fondata dall’allora ministro della
Previdenza sociale José López Rega – noto
anche come «el Brujo», lo stregone, per la sua devozione
alla pratica di culti esoterici – e dal nazista Aníbal
Gordon, aveva già inaugurato nel 1974 il metodo del sequestro
degli oppositori, cui seguivano l’assassinio o la scomparsa.
López Rega era stato un oscuro caporale di polizia a
riposo prima di guadagnarsi la fiducia di Juan Domingo Perón
durante l’esilio e, soprattutto, quella di sua moglie,
María Estela Martínez Perón, «Isabelita»
per il popolo. Nel maggio 1974, alla presidenza della Repubblica,
Perón lo promosse da caporale a commissario generale,
facendogli saltare quindici gradi. Nel luglio 1974, dopo la
morte del «Generale», «Isabelita» assunse
la presidenza, e insieme a lei i settori fascisti del peronismo.
AAA omicidi e sparizioni
Nel settembre di quello stesso anno si contavano già
centotrenta assassinati dalla «Triple A» e numerosi
intellettuali, docenti e artisti avevano preso la via dell’esilio
dopo aver ricevuto minacce di morte. Il governo di «Isabelita»
chiuse giornali, si intromise nelle università e coprì
il massacro degli oppositori, mentre veniva sommerso da accuse
di corruzione. Intanto i movimenti guerriglieri – fondamentalmente,
l’Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), trotzkista,
e i Montoneros (peronisti di sinistra) – intensificavano
le attività e gli attentati.
López Rega cadde in disgrazia nel luglio 1975, in seguito
a lotte interne al peronismo, e si ritirò negli Stati
Uniti, ma non per questo l’AAA smise di operare. I militari
continuarono a conquistarsi progressivamente spazi finché
si fecero carico della lotta contro la guerriglia in tutto il
Paese. Il governo era in bilico. Agli inizi di marzo del 1976
il quotidiano del mattino di Buenos Aires, «La Prensa»
informò che, secondo un calcolo delle «forze di
sicurezza», negli ultimi tre anni erano morte «per
motivi politici» 1.358 persone, fra cui 1.122 civili.
I militari argentini, abituati a un ruolo da protagonisti nella
vita politica del Paese, destituirono il governo peronista il
24 marzo 1976 e una giunta di comandanti militari designò
presidente della Repubblica il generale Jorge Rafael Videla.
A partire da quel momento le bande paramilitari furono integrate
in un vero e proprio piano di sterminio orchestrato dalle forze
armate stesse. I gruppi operativi congiunti ebbero a disposizione
non solo l’infrastruttura militare, ma anche le risorse
e la copertura dello Stato. I commando sequestravano gli oppositori
di giorno e di notte, nelle loro case, sui posti di lavoro o
per strada, e godevano di assoluta impunità.
I militari uruguayani, al potere già dal 1973, erano
riusciti a stabilire qualche contatto con le prime bande paramilitari
argentine. Grazie a ciò, nel 1975 riuscirono ad ammazzare
diversi oppositori loro connazionali che vivevano in esilio
a Buenos Aires. Ma questa era l’occasione per operare
su grande scala. E non la sprecarono. Il 7 maggio, quarantacinque
giorni dopo il colpo di Stato, l’allora cancelliere uruguayano
Juan Carlos Blanco si recò a Buenos Aires, dove incontrò
il suo omologo argentino e le alte gerarchie militari, forse
per concordare qualche dettaglio politico e diplomatico prima
di scatenare la muta.
L’accordo fu siglato: i commando uruguayani furono autorizzati
ad agire liberamente in territorio argentino godendo dell’appoggio
logistico delle forze locali. I risultati non si fecero attendere:
quindici giorni dopo quell’incontro furono sequestrati
nei rispettivi domicili a Buenos Aires e successivamente assassinati
il senatore Zelmar Michelini, ex ministro e figura di primo
piano del tradizionale Partido Colorado, che aveva abbandonato
nel 1971 per fondare insieme ad altri esponenti politici il
Frente Amplio, e il deputato Héctor Gutiérrez
Ruiz, giovane e brillante parlamentare del Partido Nacional.
I loro cadaveri furono ritrovati in un’auto accanto a
quelli di altri due uruguayani: Rosario Barredo e William Whitelaw.
Il candidato alla presidenza del Partido Nacional, Wilson Ferreira
Aldunate, era il quinto nella lista nera di quella notte, ma
riuscì a sfuggire miracolosamente e cercò rifugio
in Europa. Come tanti altri uruguayani, anche loro dopo il colpo
di Stato avevano optato per l’esilio, e di lì denunciavano
costantemente il regime militare. Da quel momento in poi, centinaia
di uruguayani esiliati a Buenos Aires avrebbero subìto
persecuzioni, torture, esecuzioni o sarebbero scomparsi come
risultato di un piano di sterminio degli oppositori divenuto
noto come «la guerra sucia», la guerra sporca, che
contemplava fra l’altro la cooperazione fra gli eserciti
delle dittature della regione, un coordinamento delle forze
repressive denominato «Operazione Condor».
“Bottino di guerra”
La guerra sporca regionale – il cui scenario principale
fu Buenos Aires – aveva vari obiettivi. Forse il più
sinistro era quello concernente i bambini: anche contro di loro
venne applicata una politica sistematica di sequestri e sparizioni,
con la variante che spesso erano tenuti in vita e consegnati
a famiglie di responsabili della repressione. I bambini erano
considerati alla stregua di «bottino di guerra»,
e il loro sequestro acquisiva il significato di aggiungere all’eliminazione
fisica una sorta di «scomparsa morale» del «nemico»,
poiché i suoi discendenti sarebbero stati educati in
un sistema di idee e valori che non solo giustificava l’assassinio
dei loro veri genitori, ma proclamava altresì la volontà
di rifarlo nel caso lo si fosse ritenuto necessario. L’effetto
più perverso di quella politica è che sicuramente
molti dei bambini che non sono ancora stati ritrovati interpretano
quella fase della storia recente secondo il punto di vista dei
loro carnefici: inconsapevolmente, forse giudicheranno i veri
genitori alla stregua di «terroristi», «assassini»,
«traditori della patria», utilizzando gli stessi
concetti di discriminazione politica con i quali si è
preteso giustificare un genocidio di cui essi sono, in realtà,
vittime.
A quell’epoca scomparvero in Argentina (secondo un elenco
parziale elaborato dalle Abuelas di Plaza de Mayo)
settantadue bambini: quaranta sono stati ritrovati, sei sono
risultati morti, ventisei non sono ancora stati individuati.
Furono inoltre sequestrate centotrentuno donne incinte e vi
sono prove che la maggioranza partorì. Di quei bambini
nati in cattività finora ne sono stati identificati solo
quattro.
La guerra sporca fu condotta anche contro i bambini.
Sara e Simón sono due delle sue vittime.
Carlos
Amorín
Una
muta di cani rabbiosi
Fu
come l’esplosione di una bomba. Il campanello suonava
senza sosta mentre i vetri della porta sulla strada andavano
in mille pezzi. Non ebbero neanche il tempo per pensare.
Intanto che Sara e Asilú giungevano davanti alla
porta, una dozzina di uomini in borghese con armi da guerra
entrarono in casa come una muta di cani rabbiosi. La porta
a vetri con sbarre in ferro battuto dava accesso al garage,
dov’era parcheggiata la jeep che Mauricio usava
abitualmente per i suoi spostamenti. Era bastato rompere
i vetri e girare la chiave infilata nella serratura interna.
Le due donne furono immobilizzate contro la jeep mentre
gli altri militari circondavano la casa. Urlavano ordini,
buttavano giù le porte a calci. «Voi: controllate
di sopra! Voi: qui, sulla scala! Forza! Passate tutto
al setaccio!».
Tutto succedeva in maniera vertiginosa. Puntando contro
di loro le armi, chiesero urlando i loro nomi. Sara non
riusciva a ricordare il suo nuovo nome falso e continuava
soltanto a esclamare: «Mamma! Mamma! Chi sono questi
uomini?». Asilú le rispose che erano poliziotti
e Sara, entrando nella parte pur senza riuscire a ricordare
il nome che figurava sui propri documenti, tentava di
fare la commedia: «No, mamma, non possono essere
poliziotti!».
«Di sopra non c’è nessuno!» gridò
qualcuno.
Per un attimo i militari rimasero un po’ sconcertati.
Si aspettavano di trovare anche un uomo in casa, e invece
c’erano solo due donne. La loro esitazione tuttavia
durò assai poco. Un membro del commando aveva trovato
nel doppio fondo di un cassetto la foto di Gerardo Gatti
disteso su una branda del centro di detenzione di Orletti.
Cominciarono subito a torturarle: Asilú veniva
picchiata in una stanza del pianterreno, mentre Sara veniva
massacrata di pugni e calci sul letto nella sua stanza.
A ogni colpo vedeva ballonzolare la culla di suo figlio
e cercava di afferrarla perché non cadesse sul
pavimento. Volevano sapere dov’erano nascoste le
armi, dove si trovava Mauricio e quando sarebbe tornato.
Una ventina di minuti dopo le botte e gli insulti cessarono.
Altri quattro uomini entrarono nella camera da letto.
Quello che sembrava il capo dell’operazione diede
un’occhiata alla stanza soffermandosi un attimo
sulla culla. Prese la federa di un cuscino, ci fece un
nodo a un’estremità, andò fino all’armadio
a muro e cominciò a riempirla con tutte le cose
di valore che gli cadevano sotto gli occhi. Guardò
Sara e le domandò: «Sai chi sono, vero?».
Lei negò scuotendo la testa. «Non mi conosci?
Sono il maggiore José Gavazzo, dell’esercito
uruguayano, mentre lui» disse indicando un uomo
al suo fianco «è un ufficiale dell’esercito
argentino».
Molti anni dopo Sara avrebbe riconosciuto nell’«ufficiale
dell’esercito argentino» il nazista Aníbal
Gordon, capo dell’Alianza Anticomunista Argentina
(AAA).
«Ha detto qualcosa?» domandò Gavazzo.
«Dice che non ci sono armi» rispose un tipo
che si distingueva dagli altri per la particolare crudeltà
nel picchiare. Era alto, magro, con i capelli neri imbrillantinati.
Tutto nel suo aspetto era ripugnante. D’improvviso
tirò fuori la catena di una bicicletta e cominciò
a farla roteare per aria.
«La lasci a me, maggiore, la faccio cantare in due
minuti» pregava.
I membri del commando abbandonarono per il momento le
due donne e con la stessa violenza che avevano esercitato
contro di loro si misero a perquisire minuziosamente tutt’intorno.
Spaccarono i mobili, sventrarono i materassi con i coltelli,
fecero saltare gli infissi delle porte, sfondarono gli
armadi a muro. Nulla sfuggì alla perquisizione.
«Signora, prenda il bambino» disse Gordon,
che fino a pochi minuti prima l’aveva picchiata
brutalmente. Voleva perquisire la culla. Sul letto c’era
un bambolotto che Mauricio aveva comprato per Simón.
Uno degli uomini lo prese per i capelli e con una mossa
rapida e brusca gli tagliò la testa con un coltello
per controllare l’interno. Non ci trovò niente.
Sara era seduta sul pavimento, rannicchiata in un angolo
della camera da letto. Le sanguinavano la bocca e il naso,
ma non se ne rese conto finché non vide le macchie
sugli indumenti di Simón. Non sentiva dolore. Sapeva
che poteva sperare di vivere ancora solo pochi giorni
e che l’avrebbero torturata selvaggiamente. Il suo
nome sarebbe stato uno in più nella lista dei desaparecidos.
Pensò alla sua famiglia, a Mauricio, e si aggrappò
al corpicino del figlio. Lui doveva sopravvivere. Simón
doveva vivere. Se lo stringeva al petto. Ormai non sarebbe
più stata il suo cappotto. Ormai non avrebbe più
potuto proteggerlo, allattarlo, crescerlo. Ma voleva credere
che quella non sarebbe stata la sua fine.
Sentì qualcuno dire qualcosa a proposito del «trasferimento».
Strinse Simón più forte e chiuse gli occhi.
Gavazzo entrò nella stanza.
«Meglio se lo lasci, dove vai non puoi portarlo
con te. Lui starà bene, non preoccuparti. Questa
guerra non è contro i bambini».
Carlos Amorín
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Rolo
Diez giornalista e scrittore argentino, esule dal 1977,
ha vissuto in Francia, Italia, Spagna e infine a Città
del Messico, dove risiede tuttora.
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Carlos Amorín (Montevideo, 1954) è giornalista
e scrittore. Esule dal 1971 al 1985 (dapprima in Cile,
poi in Svezia, infine in Francia), è ora caporedattore
del settimanale uruguayano «Brecha» e ha scritto
altri tre libri su tematiche ambientali e sui diritti
umani.
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Carlos
Amorín
LA GUERRA SPORCA CONTRO I BAMBINI
storia di Sara e Simón
176 pp.
euro 14,00
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