Quadro
emergenziale
Negli ultimi due numeri di A è riemerso, sia pure in
modo un po’ rapsodico, il tema della prassi politica del
movimento anarchico e libertario. Prima, un costruttivo intervento
di Luigi Veronelli sulla opportunità di portare le
idee libertarie anche dentro la competizione elettorale. L’articolo
è stato relegato poco generosamente in fondo alla rubrica
delle lettere (pagina 82) e se ciò non fosse bastato,
c’era una tiratina d’orecchie a Veronelli nell’editoriale
di pagina 4 dai toni vagamente sacerdotali di chi evidentemente
considera chiusa la discussione.
Nel numero successivo ha richiamato la mia attenzione, in particolare,
la scorribanda dialettica di Andrea Papi, prima con una lunga
ma inconcludente riflessione sull’azione politica anarchica
e poi con una risposta, di altrettanta o maggiore vaghezza nei
contenuti e acerbità nei toni, alla lettera
di Dario Sanniti che poneva in modo concreto (certo, approssimativo)
una questione politica nella quale, a voler guardar bene, l’emergenza
trascende l’utopia: come favorire la percezione collettiva
delle idee libertarie e la loro capacità di contribuire
al benessere (alla riduzione del malessere) dell’individuo
e delle comunità.
Non nascondo che mi ha disturbato l’atteggiamento che
mi è parso di cogliere nelle reazioni tra il paternalista
e l’infastidito a due utili suggerimenti di tenere aperto
e alto il ragionamento sulla partecipazione politica del movimento
anarchico e libertario e (aggiungo) socialista oggi.
La sperimentazione continua nel nome della libertà e
della giustizia, direi, è altra cosa dalla conservazione
tout-court di una sorta di dogma strisciante, frutto di precedenti,
discutibili e molto datate verifiche empiriche.
Ora non voglio perdermi in definizioni e distinzioni tra chi
è dentro e chi è fuori il movimento: ritengo che
la saldatura stia per tutti noi sulla linea di fondo della organizzazione
non gerarchica, contro la sopraffazione di pochi e per il libero
dispiegarsi delle vite di ognuno e di tutti (confesso, tuttavia,
che recentemente ho avuto qualche dubbio sull’adesione
ideale di alcuni dei sommi depositari del credo anarchico italiano
dei quali ho letto tristemente smarrimenti e dubbi liberisti
che mal celavano una tragica confusione teorica prima ancora
che pratica).
Se siamo d’accordo sulla necessità prioritaria
di operare per una rottura del paradigma gerarchico, «padre»
della violenza delle organizzazioni umane (Stato e sue articolazioni,
chiesa, famiglia, scuola, lavoro...) e dei loro rapporti con
il resto degli esseri viventi, la ricerca pragmatica e in costante
evoluzione delle prassi adeguate dovrebbe essere un’ovvietà.
La ricostruzione continua di condizioni non gerarchiche e di
potere diffuso (nello spazio e nel tempo) investe ogni contesto
umano ed è tanto più urgente quanto più
immediati sono gli effetti dannosi di una data organizzazione
gerarchica/violenta. In altre parole, se ogni soggetto si adopera
nei luoghi che gli sono propri per favorire una trasformazione
tendente all’anarchia, esistono luoghi nei quali questo
processo «utopico» deve rispondere a un’emergenza
e dunque richiede strumenti ispirati a un marcato pragmatismo.
Questi luoghi dell’emergenza possono essere la fabbrica
che uccide dentro e fuori i suoi stabilimenti (condizioni di
lavoro, inquinamento, produzioni pericolose per l’ambiente
e/o per i consumatori); il campo nomadi, il centro di detenzione
per immigrati o il carcere che violenta l’umanità;
un sistema mercantile locale e globale che esalta disparità
e sfruttamento tra individui e gruppi; un contratto di lavoro
che condanna alla precarietà e alla malattia eccetera;
una mobilità che nega il diritto all’aria pulita
e alla salute; una scuola che inibisce curiosità e pensiero
critico; un esercito e i suoi apparati di morte che accresce
il vigore (simbolico e reale) anziché estinguersi e così
via.
È con lo sguardo all’emergenza quotidiana –
al susseguirsi di morti, di malattie, di catene e di infelicità
evitabili – che trovo debole e in certa misura fuorviante
la proposta di una «società nella società»
ripresa da Andrea Papi: momenti di autorganizzazione collettiva,
centri sociali libertari, scuole libertarie e quant’altro
che dovrebbero, in sostanza, coltivare e diffondere la «società
altra» di cui sarebbero modello. Non sottovaluto il valore
di siffatte esperienze, pur notandone sia il rischio avanguardistico
sia la tentazione isolazionistica (purtroppo tipica di una diffusa
interpretazione velleitaria ed elitaria dell’anarchismo
che talora si sostanzia in una prassi autoreferenziale molto
poco incisiva tanto sulle emergenze del momento storico quanto
sul confronto dialettico della politica di tutti).
I laboratori di sperimentazione anarchica concreta sono senz’altro
di utilità sociale, è preziosa Summerhill School
come lo sono le comuni che resistono in varie forme nelle campagne
italiane; ma ridurli a momento culminante dell’azione
politica mi pare segno di grande smarrimento.
Indicare un piccolo opificio autogestito, modello della «società
altra», a un operaio d’acciaieria malato di cancro
come migliaia d’altri, mi parrebbe davvero pochino: sia
in termini di condivisione solidale, sia di contestazione del
paradigma gerarchico.
Per fortuna la realtà delle prassi anarchiche –
soprattutto di quelle spontanee e inconsapevoli – non
è solo questa. Nonostante la repressione e l’autoritarismo,
la società è percorsa da innumerevoli dinamiche
di presa di coscienza e di aggregazione non gerarchica per rispondere
a una qualche emergenza: comitati di base, gruppi di colleghi,
sindacalismo libertario, associazioni eccetera.
Se la rete del potere gerarchico e dei suoi punti di forte intensità
delle aspirazioni di dominio pervade l’intero corpo sociale,
la risposta data dalle vittime non consenzienti è un’azione
altrettanto reticolare che si concentra sui nodi dell’autorità
ma non tralascia il resto.
In questo quadro mi pare che il contributo del movimento anarchico
e libertario, oggi, in una società formalmente democratica,
potrebbe essere assai più pregnante attraverso una presenza
pressoché sistematica in tutti i luoghi in cui si esercita
la violenza del potere gerarchico. E per forza di cose, pena
la perpetuazione del sistema contestato, dovrà essere
un contributo non solo – come scrive Papi – antiviolento
ma intrinsecamente nonviolento nel contesto istituzionale dato
per trasformarlo.
È vero che la rete è vasta e che bisogna agire
in ogni suo punto e forse è altrettanto vero che –
nel medio periodo – una cattiva legge può non farcela
a imbrigliare una comunità, tuttavia sarebbe miope non
notare che alcuni luoghi del potere determinano conseguenze
pressoché immediate per gli esseri umani e l’ecosistema.
E sarebbe miope anche non notare che una legge può favorire
– nella complessa dinamica individuo/comunità/autorità
– l’eterno processo di avvicinamento all’anarchia
piuttosto che reprimerlo brutalmente (con la forza fisica o
nei cervelli dei cittadini).
Non sto a dilungarmi oltre, chiudo questa riflessione semplicemente
osservando che la potenza delle idee anarchiche e libertarie
rischia il corto circuito o l’autoreferenzialità
se non si mantiene alta la tensione attorno al ragionamento
sulla prassi e sul pragmatismo. E in questo contesto, mi pare
che nell’epoca attuale sia fondamentale l’abbandono
di ogni tentazione aristocratica, che sia necessario –
per rispondere al grido dell’emergenza e insieme rafforzare
le fondamenta dell’utopia – «sporcarsi le
mani» nei movimenti sociali (certo talvolta contraddittori,
spesso inconcludenti, talora anche gerarchici talaltra inconsapevolmente
anarchici...) e nei luoghi istituzionali della politica rappresentativa
che vogliamo sostituire con quella diretta (l’esperimento
dei bilanci partecipativi e altre esperienze più o meno
riuscite indicano, se non una vera risposta, l’esistenza
di un desiderio individuale e collettivo di camminare oltre
il presente).
Se in parlamento o in consiglio regionale si decide del destino
immediato (parliamo del presente, di qui e ora) di una, mille
o un milione di persone e io posso fare qualche cosa, fosse
anche per ridurre il danno, mi pare un dovere etico cercare
di esserci. Qui come altrove, per affrontare l’emergenza
e seminare l’utopia con prassi di rottura del paradigma
consolidato. Se parliamo di un partito, per esempio, sarà
un partito senza gerarchia, aperto e assembleare a rotazione
continua dei mandati eccetera, un’identità che
sta nel presente per superarlo. E l’idea democratica –
oggi sottoposta alle sevizie dell’autoritarismo liberale
– si può prestare tanto allo sperimentare quanto
al filosofare libertario. «Democrazia = governo di tutti.
Anarchia = governo di nessuno. Democrazia = Anarchia»,
scriveva Merlino.
Raccordarsi con la realtà e soprattutto con i suoi aspetti
più inquietanti è estremamente complicato. La
realtà è complicata e scivolosa. Ma provarci in
tutti i modi possibili – dunque nella sperimentazione
continua – corrisponde pienamente, nella prassi, allo
straordinario bagaglio di idee dell’universo anarchico.
Oggi, in giro ci sono, per esempio, alcuni preti e frati che
mi sembrano più anarchici di molti eremiti anarchici.
Paradossalmente, io, che sono agnostico e profondamente anticlericale,
mi sporco volentieri le mani con loro per ridurre la sofferenza
umana, contrastare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo
e favorire la trasformazione/liberazione sociale (anche verso
una chiesa libera che non sarebbe più la Chiesa). Più
dei preti che ammiccano all’anarchismo, mi spaventano
i teorici dell’anarchismo che ammiccano al capitalismo.
Finisco con un breve cenno alla questione nonviolenza. La lettura
dell’articolo di Andrea Papi
mi lascia intendere che per l’autore la nonviolenza è
la rinuncia all’uso della forza nell’azione politica
(o in altri contesti). La piccola casa editrice che con non
poca fatica cerco di mandare avanti, Nonluoghi, ha come slogan
«libri per una cultura critica, libertaria, nonviolenta».
Questo, per significare il legame intimo attribuito ai tre elementi.
La sequenza non è casuale: critica (presa di coscienza
della complessità e malignità del reale), libertaria
(assunzione del paradigma non gerarchico quale momento ispiratore
di una trasformazione), nonviolenta (insieme condizione e prassi
del percorso e dei punti di approdo di ogni sua tappa). Nonviolenza,
dunque, come teoria intrinsecamente libertaria (il dominio gerarchico
è violenza) e come strumento di lotta: non la semplice
assenza dell’uso della forza (delle armi), bensì
lo sviluppo e l’adozione di altri metodi per interagire
con il reale e tentare di trasformarlo (disobbedienza civile,
dialogo con l’avversario, informazione diffusa, mobilitazioni
individuali o di gruppo, obiezione di coscienza eccetera).
La conquista nonviolenta e libertaria di una trasformazione
umanizzante in un quadro emergenziale rappresenta, per le sue
stesse modalità, un approdo sul quale proseguire con
minori rischi di involuzione il percorso verso l’utopia.
Zenone Sovilla
(Civezzano)
Risposta
a Zenone Sovilla
Dal momento che secondo Zenone Sovilla sembra
esservi una specie di gerarchia, di cui per altro ci sfugge
la logica, pubblichiamo (o si dice releghiamo?) la sua lettera
in prima battuta. Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Andrea
Papi una replica che ci trova del tutto concordi.
Caro signor Sovilla, io non la conosco e leggo qualcosa
di suo per la prima volta. Innanzitutto la ringrazio per aver
occupato il suo tempo su riflessioni che le sono state suscitate
da cose da me scritte, che spaziano e si dilatano mettendo in
campo svariati punti e qualche argomentazione. Non le risponderò
su ogni cosa da lei sollevata, perché altrimenti mi richiederebbe
troppo spazio, mentre mi soffermerò in breve solo su
alcuni dei punti che lei ha posto, senza per questo aver la
pretesa di essere esaustivo. Ma la polemica, quando è
autentica e sentita, è sempre interessante.
Per prima cosa una chiarificazione sulla risposta a Sanniti.
Forse lei non ha vissuto le sue parole come le ho vissute io.
Ma mi sembrava chiaro, leggendo la sua polemica, che vi fosse
un tono tra il saccente, anche se non erudito, e l’arrogante.
Del tipo «…ma non avete capito niente…»,
«…ma non sapete che gli operai, le casalinghe, ecc.»,
«…adesso vi spiego io cosa fare…» ed
altre simili gradevoli facezie, arricchite a un certo punto
con l’offesa liquidatoria, tipica dei metodi polemici
di staliniana memoria, che in fondo siamo tutti piccolo-borghesi,
quindi… Davanti a tale aggressione, che tale è
anche se non accompagnata da turpiloquio, mi son divertito ad
essere ironico con qualche piacevole punta di sarcasmo. Ora
le chiedo: «Perché il Sanniti può usare
quell’atteggiamento di linguaggio, mentre Papi, secondo
lei, dev’essere sempre e solo carino? Dovrei essere sistematicamente
un santo nonviolento che porge d’istinto l’altra
guancia?».
Per quanto riguarda il rimprovero alla redazione di A di aver
relegato poco generosamente in fondo alla rubrica delle lettere
Veronelli, faccio fatica a capire di che cosa rimprovera i compagni
della redazione. Qualsiasi redazione, giustamente, da sempre
decide la filosofia d’impaginazione in base alle sue scelte.
Non l’hanno mica censurato. Se l’avessero ritenuto
rilevante l’avrebbero messo in maggior rilievo, come invece
da quello che scrive avrebbe fatto lei, che al contrario della
redazione di A ritiene fondamentale ciò che Veronelli
ha scritto. Legittime entrambe le posizioni. Oppure, caro signor
Sovilla, ritiene in realtà che siano legittime solo le
sue di posizioni e che debbano diventare un’unità
di misura critica capace di stabilire il meglio e il peggio
di qualsiasi altra cosa?
Inoltre vorrei farle notare che quando si dà dell’inconcludente
a qualcuno, la buona creanza del dibattere richiede che si motivi
perché lo è stato, altrimenti risulta soltanto
un giudizio liquidatorio che lascia il tempo che trova. Ora
mi sembra di aver esposto delle conclusioni, ovviamente non
con la pretesa che siano le uniche, anche motivandole. Quindi
non capisco dove sia la da lei accusata non concludenza. Oppure,
e ci risiamo, siccome ritiene che le sue conclusioni siano le
uniche che abbiano senso, allora di conseguenza qualsiasi altra
diventa non conclusione, argomentata o no, ed è perciò
inconcludente? Ma se è così, perlomeno avrebbe
dovuto dichiararlo.
Ed ora veniamo al punto centrale ed incandescente del quale
m’interessa veramente discutere. Ripeto, con la consapevolezza
che qualche battuta non esaurisce una questione tanto importante.
Respingo e respingiamo la scelta elettoralistica, da lei tanto
sostenuta, perché non ci piace. E non per un fatto estetico.
Ma perché è del tutto incoerente e contrastante
con le proposizioni che distinguono l’essere anarchici.
Innanzitutto vorrei chiarire che ritengo sostanzialmente differente
l’andare a votare per qualcuno, cosa che fra l’altro
personalmente non condivido affatto, e presentarsi invece come
lista a parte con un programma elettorale sedicente anarchico,
come mi sembra che lei proponga.
In passato è già successo che, per questioni di
tattica politica, degli anarchici abbiano concesso il loro voto.
Lo hanno fatto individualmente dei singoli compagni per sostenere
persone che ritenevano degne. Ma, per esempio, anche in Spagna
nelle elezioni del 1936 la partecipazione al voto fu incentivata
sottobanco dalla CNT, la quale ufficialmente fece però
una campagna astensionista, per far trionfare le sinistre contro
il montante fascismo. Lo riporta Vernon Richards in Insegnamenti
della rivoluzione spagnola.
Considerazioni di tattica politica, che si possono condividere
o meno, che però smentiscono in pieno, caro signor Sovilla,
la sua accusa di essere dogmatici da parte degli anarchici.
Se è per questo, e qui vado a memoria quindi mi scuso
per eventuali errori, nell’ottocento Fanelli e Friscia,
pur essendo anarchici attivi, erano parlamentari. È interessante
la motivazione per cui lo erano. Non perché volevano
agire per portare la voce anarchica e proletaria in parlamento,
del quale continuavano ad avere una considerazione del tutto
negativa e contraria, ma perché così potevano
viaggiare gratis, a spese del governo, e tenere i contatti tra
gruppi e compagni. Un’altra considerazione di tattica
politica, che si può condividere o meno, ma che anch’essa
smentisce in pieno l’accusa di dogmatismo. Mi fermo con
gli esempi perché penso che siano sufficienti.
Ciò che lei propone è tutt’altra cosa. Lei
vorrebbe che gli anarchici, in quanto forza politica, al pari
di Rifondazione, dei DS e di quant’altri, si presentassero
alle elezioni per far sedere degli anarchici, come regolari
parlamentari, negli scranni del parlamento. Quindi vorrebbe
che nel suo programma politico l’anarchismo comprendesse
la lotta parlamentare all’interno della democrazia rappresentativa.
È questo che non funziona. Per farlo, dovrebbero infatti
presentare un programma di governo, accettare quindi la possibilità
teorica di trovarsi nelle condizioni di gestire, con gli strumenti
dello stato che dichiarano di voler abolire, l’attuale
stato di cose. Ma siamo anarchici proprio perché non
vogliamo un governo centrale che con la forza imponga le sue
leggi all’insieme dei cittadini, o no? Con quale faccia
e quale coerenza d’intenti propagandiamo una società
altra che si autogestisca, senza poteri centralizzati dall’alto,
e poi nei fatti partecipiamo alla torta del potere, perché
se si va lassù, nel parlamento, volenti o nolenti siamo
parte della torta contro la quale dichiariamo di lottare? Questo
si, lo trovo veramente, oltre che incoerente, privo di senso
politico pratico.
Per finire cito alcuni esempi illustri. Andrea Costa, Francesco
Saverio Merlino, Pier Carlo Masini. Tutti e tre erano anarchici
e poi, anche se in modi diversi e con diverse motivazioni, hanno
optato per la tattica di usare anche il parlamento, proprio
per sfruttare le possibilità democratiche ai fini dell’anarchismo
e della rivoluzione sociale. Nel momento in cui hanno fatto
questa scelta, di fatto hanno smesso, anche dichiaratamente,
di essere anarchici. E non può che essere altrimenti.
L’una cosa esclude, per principio e di fatto, l’altra.
Andrea Papi
(Forlì)
Anarchia
e non violenza
Vorrei esporre un mio breve commento all’articolo
pubblicato sul numero di febbraio dal titolo Antiviolenti
sì nonviolenti no, di Andrea Papi. A mio avviso
l’autore cade in un fraintendimento apparentemente sottile
ma non di poco conto, specialmente da un punto di vista teorico,
per quanto concerne il significato effettivo dell’etica
nonviolenta. L’autore scrive: Il riferimento principale
cui ispirarsi non è affatto quello etico, bensì
lo scopo ultimo di fondo cui pervenire, cioè la società
autogestita secondo i principi anarchici della libertà
sociale, che diventa perciò il fondamento di un’etica
conseguente.
Ecco le mie obiezioni:
la società sopraccitata rappresenta un semplice modello
organizzativo? O è invece un modello di vita sociale
animato, radicato, fondato, su principi etici? L’autore
afferma il primato del progetto di società da cui deriverebbero
poi i principi etici conseguenti. Questo a mio avviso non ha
alcun senso, o almeno, se ha un senso, rappresenta un falso
problema. I principi etici e la costruzione del progetto vanno
di pari passo! Secondo il mio punto di vista sono momenti inscindibili!
Parlo in pratica di un’etica attualizzata e pragmatica,
non di principi ultimi e trascendentali che non trovano mai
conferme nella realtà. A mio avviso questa mia posizione
rileva un filo conduttore evidente tra etica-pratica nonviolenta
e anarchica.
Andrea Papi inoltre evidenzia la differenza tra nonviolenza
e anarchismo sulla base dell’uso che quest’ultimo
farebbe della violenza come atto di legittima difesa. Questa
posizione non è teoricamente fondata se consideriamo
i principi etici e politici della nonviolenza (che non è
pacifismo né non-violenza) espressi dai suoi massimi
teorici. Penso a Gandhi che espresse parere favorevole all’entrata
in guerra dell’Inghilterra e che ammise l’uso della
violenza misurata come strumento estremo di autodifesa.
Grazie,
saludos.
Fabrizio
(Bologna)
Risposta
a Fabrizio
Caro Fabrizio, non ho affatto affermato il primato del
progetto di società sui principi etici, come mi attribuisci
tu. E sono d’accordo con te che i principi etici e la
costruzione del progetto vanno di pari passo! Ciò che
ho affermato, invece, è che non si deve e non si può
giudicare la validità della scelta di mezzi di lotta
violenta tenendo conto solo dei principi etici di riferimento,
in quanto non esiste una sola etica, ma più etiche, ognuna
legata strettamente ad una visione esistenziale e filosofica
di sé e del mondo. La società autogestita secondo
i principi anarchici della libertà sociale, di cui scrivo,
è un principio di riferimento per progettare, non un
progetto, come mi attribuisci tu. E nelle mie intenzioni, almeno
mi sembrava chiaro, non c’è nessuna sottovalutazione
dell’etica, dal momento, fra l’altro, che ciò
che ha sempre distinto gli anarchici è la preminenza
dell’etica in politica, contrapposta alla visione, spesso
in auge, di un maldigerito machiavellismo.
Inoltre mi è poco chiaro quello che mi sembra il tuo
tentativo di semplificare il problema riducendolo ad un’unica
contrapposizione teorica tra violenza e nonviolenza. Da quello
che scrivi mi sembra che salti fuori che o esiste la violenza
o esiste la nonviolenza. Come ogni altra semplificazione è
astratta ed in genere serve a giustificare posizioni prestabilite.
Come sempre non esistono mai solo due posizioni, il bianco ed
il nero (fra l’altro nell’arcobaleno non esistono
né l’uno né l’altro, ma la gamma delle
sfumature che portano dall’uno all’altro), ma una
pluralità, perché sia la realtà che la
sua lettura sono complesse e problematiche.
Come si fa a dire che l’antiviolenza anarchica non ha
senso in quanto differenziata dalla nonviolenza, come a dire
che o è nonviolenta o è violenta. Gli anarchici
si sono storicamente riconosciuti nell’insurrezione rivoluzionaria
e per questo si sono scontrati teoricamente e di fatto con le
posizioni nonviolente. A riprova il fatto che le tesi di un
anarchico riconosciuto come Tolstoj, che fu fondatore della
pratica nonviolenta e che fu fra l’altro maestro a Ghandi,
furono rifiutate dal movimento anarchico internazionale perché
rinnegavano e contrastavano la pratica insurrezionale in quanto
violenta. La concessione ghandiana della violenza misurata come
strumento estremo di autodifesa, che citi, non è equiparabile
all’incitamento alla rivolta che ha sempre distinto l’anarchismo
ed in cui ancora si riconosce.
Andrea Papi
(Forlì)
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni.
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Pio Turroni a 22
anni dalla sua scomparsa (7 aprile 1982) 500,00; Roberto
Carloni (Roma) 20,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino
Scalo) 30,00; Giampaolo Verdecchia (Firenze) 20,00;
Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo) 21,50; Silvio
Gori (Bergamo) ricordando Egisto e Maria Gori, 30,00;
Marco Parmigiani (Varese) 5,00; Rossella Frattini
(Bernate Ticino) 10,00; Salvatore Piroddi (Arbatax)
10,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Stefano Giaccone
(Galles – Gran Bretagna) 20,00; Ugo Fortini
(Signa) ricordando Milena Marè, 25,00; E.C.
(Roma) 200,00; Adriano Paolella (Roma) 200,00; Enrico
Posenato (Costalunga) 5,00; Franco Leggio (Ragusa)
5,00; Misato Toda (Tokyo – Giappone) 8,00.
Totale euro 1.129,50.
Abbonamenti sostenitori.
Alfredo Mazzucchelli (Carrara) 500,00; L.D. (Ancona)
ricordando il suo meraviglioso compagno, 200,00; Renato
Girometta (Vicobarone) ricordando Ivan Aiati e Pietro
Di Paola, 100,00; Paolo Santorum (Arco) 100,00; Adriano
Paolella (Roma) 100,00; Andrea Albertini (Merano)
100,00.
Totale euro 1.100,00.
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