L’azione e il
pensiero di Errico Malatesta, la sua opera di instancabile rivoluzionario
partecipe per sessant’anni allo sviluppo storico dell’anarchismo,
non sono ancora oggi conosciuti e studiati in modo approfondito
e sistematico. Un tale studio implica necessariamente una ricerca
storica che abbracci oltre mezzo secolo di attività rivoluzionaria
internazionale. Inoltre, per avere una visione d’insieme,
si dovrebbe rapportare tale attività nel contesto più
ampio e sfumato delle lotte sociali e progressiste del tempo.
Perché Malatesta fu di queste lotte uno dei massimi protagonisti,
sia per l’attività prodigiosa che seppe profondere
in tali lotte, sia perché di queste lotte, egli fu a
volte l’ispiratore e da esse seppe trarre un’esperienza
ricchissima di cui i suoi innumerevoli scritti sono testimonianza
teorica di altissimo valore. Infatti tutta la sua produzione
teorica non è mai stata disgiunta dal rapporto diretto
con l’esperienza concreta, tanto che essa si presenta
proprio come una continua riflessione sul processo reale e storico
dell’anarchismo.
In Malatesta teoria e pratica sono tutt’uno: l’una
è il riflesso dell’altra e viceversa. In tutto
l’arco della sua attività rivoluzionaria egli mantenne
in un raro equilibrio queste due componenti, fino a farne, come
abbiamo detto, una cosa sola. Malatesta inoltre essendo stato
partecipe alla fondazione “ufficiale” del movimento
anarchico italiano ed internazionale, vide, vivendo e partecipando
alle sue lotte, la teoria farsi storia nel corso progressivo
di innumerevoli e diversissime esperienze, in un arco di tempo
che va dal 1872 al 1932: un’esperienza rara, forse unica.
Per tutto questo, tracciare, seppure a grandi linee, un profilo
del suo pensiero, significherebbe porsi in una prospettiva storica
che esula dagli intendimenti di questa lettura e che fra l’altro
vorrebbe ben altro spazio. Noi vogliamo perciò solo presentare
il pensiero di Malatesta rispetto alla sua validità attuale
soprattutto dal punto di vista del metodo, come approccio anarchico
ai problemi e alle soluzioni.
Il pensiero di Malatesta si presenta come una “sintesi”
dei diversi indirizzi teorici sviluppatisi nel movimento anarchico
in tutto l’arco temporale dell’attività sopra
accennata. Tale “sintesi” non risente di nessuna
impostazione dottrinaria perché essa è costruita
sull’esperienza pratica del movimento anarchico internazionale
e non si può comprendere il significato di essa se non
si tiene presente che questa “sintesi” non è
una semplice somma di molteplici e diversi indirizzi dell’anarchismo.
Pluralismo e relativismo
Abbiamo detto che ci interessa mettere in risalto, in questa
introduzione al pensiero malatestiano, soprattutto la sua attualità
dal punto di vista del metodo anarchico, come “modo generale”
di affrontare i problemi e risolverli.
Noi pensiamo che questo “modo generale” sia consistito
per Malatesta in un atteggiamento intellettuale proteso verso
la continua ricerca teorica aliena da sistemazioni definitive,
da apriorismi dogmatici, da sterili formazioni “scientifiche”
unidimensionali.
In tutti i suoi scritti si può facilmente riscontrare
questa “impostazione aperta” verso ogni prospettiva
operativa nel senso che essa viene “armonizzata”
con altre di diverso orientamento. In questo modo Malatesta
si pone in un piano critico capace di “depurare”
ogni atteggiamento intellettuale estremistico e settario.
Pur conservando rigorosamente alcune posizioni proprie che non
muterà mai, egli era profondamente convinto che ognuna
di esse fosse suscettibile di ulteriori modificazioni secondo
i tempi, i modi e i luoghi della loro applicazione. Ovviamente
tale metodologia doveva venire estesa, secondo Malatesta, a
tutti gli indirizzi teorico-pratici dell’anarchismo.
In questo modo la “sintesi” malatestiana approdava
ad alcune considerazioni teoriche di importanza fondamentale
per lo sviluppo del pensiero anarchico: presa singolarmente
ogni sentenza risultava insufficiente ad esprimere la ricchezza
dell’universo sociale e della problematica rivoluzionaria.
Per cogliere sempre più compiutamente questa inesauribile
complessità occorreva evidentemente sviluppare contemporaneamente
più indirizzi e tendenze, secondo la pratica storica
dell’anarchismo.
Dall’impossibilità, da parte di ogni indirizzo
preso singolarmente, di rappresentare questa complessità,
Malatesta deduceva un’altra considerazione teorica di
grande valore: quando qualsiasi tendenza si fosse “cristallizzata”,
“istituzionalizzata” avrebbe perso anche la capacità
di esprimere quella parte o aspetto della realtà sociale
che prima rappresentava. Un esempio, Malatesta, fu tra i primi
in Italia ad operare affinché il movimento anarchico
organizzasse le “leghe di resistenza” o sindacati
all’interno della classe operaia e bracciantile. Quando
però la tendenza anarcosindacalista ebbe la pretesa di
risolvere ogni problema rivoluzionario e sociale fino a volersi
sostituire al movimento anarchico (pretendendo che quest’ultimo
si “confondesse” con la classe operaia) Malatesta
anticipò la sua futura “cristallizzazione”
e “istituzionalizzazione” nel senso che abbiamo
spiegato sopra. Il “sindacalismo puro” si dimostrò
un’illusione non solo in Francia ma anche in Italia ed
i suoi esponenti finirono quasi tutti nelle file nazionaliste
e fasciste. La straordinaria funzione rivoluzionaria esercitata
in Italia dall’anarcosindacalismo dal 1912 al 1921, fu
dovuta al fatto che all’interno dell’USI operavano
anarchici in stretto collegamento con il movimento specifico.
Dell’istituzionalizzazione dei sindacati riformisti, poi
è oggi superfluo parlare.
Se dunque Malatesta fu in grado di anticipare tanti errori,
sia tattici sia strategici, per la sua eccezionale esperienza,
è proprio a quest’ultima che dobbiamo risalire
se vogliamo comprendere il significato del pluralismo presente
nel suo pensiero. Attraverso la pratica storica dell’anarchismo
e del movimento operaio socialista, Malatesta poté verificare
la validità e l’insufficienza di ogni proposta
operativa, formulando così compiutamente la teorizzazione
della dipendenza dei mezzi rispetto al fine.
Questa considerazione ampiamente presente nel pensiero anarchico,
trovò nel pluralismo e relativismo malatestiano la sua
verifica sperimentale. Malatesta infatti poté verificare
il grado di efficacia dei mezzi rispetto al fine proprio alla
luce di una gamma di esperienze socialiste e popolari diversissime:
dall’insurrezionalismo al parlamentarismo, dall’individualismo
al comunismo, dall’educazionismo all’anarcosindacalismo,
dall’antimilitarismo alla non violenza, ecc.
Questa continua e progressiva ricerca dell’identità
tra principio proclamato e pratica storica, identità
che solo il movimento anarchico, a nostro avviso, ha volutamente
cercato e sviluppato, è stata completamente recepita
ed espressa da Malatesta. Ed è proprio qui che nasce
la considerazione relativistica del pensiero malatestiano, nel
senso che egli vedeva ogni tendenza o indirizzo sempre legati
a precisi momenti storici o a determinati aspetti della lotta
sociale. Vediamo comunque ora, sempre dal punto di vista metodologico,
le posizioni qualificanti del pensiero malatestiano, dal momento
che alcune di esse furono immutabilmente presenti per tutto
l’arco della sua attività rivoluzionaria.e diversi
indirizzi dell’anarchismo.
Comunismo ed organizzazione
Malatesta fu tra i primi esponenti dell’anarchismo a passare
dal collettivismo bakuniniano al comunismo; secondo il Nettlau
già nell’agosto-settembre del 1876, Malatesta era
per il comunismo.
Comunismo, per Malatesta, significa la massima libertà
individuale integrata con la massima solidarietà sociale:
la realizzazione di queste due proposizioni sta nel non svilupparne
una a detrimento dell’altra. La pratica del comunismo
viene quindi ad essere, secondo Malatesta, la pratica della
libertà. Questa comporta la massima eguaglianza possibile
per tutti di fronte alle condizioni materiali ed ambientali
di vita e di lavoro che solo il comunismo, a parere di Malatesta,
può realizzare.
La liberazione dell’individuo è dunque prima di
tutto una liberazione sociale, nel senso che solo nello sviluppo
della libertà di tutti è possibile realizzare
la propria. Questo classico schema socialista-anarchico era
stato da Bakunin formulato già ampiamente; Malatesta
lo crederà realizzabile integralmente soltanto col comunismo,
sebbene egli ammettesse la possibile coesistenza di diversi
sistemi economici secondo le diverse condizioni ambientali.
Per Malatesta comunque il problema fondamentale restava quello
della libertà: il comunismo era solo il mezzo più
efficace per realizzarla integralmente per tutti. In questo
modo libertà e comunismo diventano, nel pensiero malatestiano,
sinonimi.
La progressiva libertà dell’individuo rispetto
a tutti i condizionamenti materiali ed ambientali trova però
la sua realizzazione pratica soltanto attraverso l’organizzazione
libertaria della società. Organizzazione significa prima
di tutto capacità di operare sul massimo piano possibile
della libertà collettiva, nel senso che solo l’organizzazione
può estendere i benefici del lavoro sociale ad ogni singolo
individuo. Solo essa, insomma, è capace di utilizzare
al massimo la “forza collettiva” del lavoro sociale.
Intendiamoci, essa non è, per Malatesta, che un mezzo
per realizzare il comunismo libertario. Malatesta era profondamente
convinto che senza l’organizzazione nulla sarebbe stato
possibile, ma parimenti sosteneva che essa andava modificata
e modellata in rapporto alle esigenze libertarie ed egualitarie.
Dal punto di vista metodologico il comunismo era il mezzo per
realizzare la libertà, l’organizzazione il mezzo
per realizzare il comunismo libertario. Ovviamente sul piano
operativo libertà, comunismo ed organizzazione diventano,
per Malatesta, quasi la stessa cosa.
La volontà rivoluzionaria
La posizione più qualificante che caratterizzò
Malatesta rimase comunque quella della volontà rivoluzionaria.
Nel pensiero malatestiano la rivoluzione anarchica non poteva
che essere un progetto cosciente scaturito da una precisa volontà
e posto artificialmente nel processo storico. Ammesse alcune
condizioni favorevoli, il fattore determinante e decisivo dello
scoppio e della riuscita della liberazione popolare rimaneva
sempre quello della volontà rivoluzionaria.
Volontà di preparare la rivoluzione, volontà di
fare la rivoluzione, volontà di essere rivoluzionari.
Questa volontà rivoluzionaria era per Malatesta, ovviamente,
la volontà di fare la rivoluzione libertaria e egualitaria.
Diversamente dagli individualisti e da altri anarchici stirneriani,
la volontà malatestiana era guidata da un sentimento
fondamentalmente solidaristico e societario: essa non poteva
altro che essere un’espressione collettiva per il bene
collettivo.
A differenza di altri teorici anarchici, Malatesta sosteneva
che l’opposizione tra il marxismo e l’anarchismo
era dovuta appunto alla diversità tra il “determinismo”
e il “volontarismo”. Il “determinismo”
marxista, secondo Malatesta, finiva col paralizzare le forze
rivoluzionarie mettendole in un’aspettativa senza sbocchi
operativi; oppure, con la scusa di favorire lo sviluppo del
sistema capitalistico-borghese e portarlo più rapidamente
alla sua fine, inseriva il movimento socialista nell’area
legale e parlamentare. In nome del “determinismo scientificista”
il marxismo consumava in realtà il tradimento e il sabotaggio.
Malatesta lungi dal porsi contro la scienza, si poneva in realtà
contro la sua volgare strumentalizzazione, contro cioè
la pseudoscienza del marxismo. Malatesta, in polemica anche
contro Kropotkin, sosteneva che la scienza era di per sé
“neutrale” nel senso che essa poteva servire alla
rivoluzione libertaria come a qualsiasi sistema di dominio e
sfruttamento. Solo la volontà di utilizzarla in un modo
o nell’altro la qualificava diversamente: la scienza era
sempre in subordine rispetto alla volontà rivoluzionaria.
Comportava una prospettiva teorica completamente nuova, sia
per il pensiero anarchico che per il pensiero socialista in
genere. Malatesta infatti sviluppò nel suo pensiero soprattutto
il punto di vista ideologico dell’anarchismo, nel senso
che la realtà “oggettiva” acquista significato
solo alla luce dei principi anarchici. In altri termini dal
momento che per Malatesta non esisteva una scienza sociale “oggettiva”,
era evidente che l’unico modo per interpretare la realtà
risultava essere quello “soggettivistico” o, nel
linguaggio malatestiano, quello della volontà rivoluzionaria.
La conseguenza di tale impostazione fu che per sessant’anni
Malatesta si trovò ad elaborare sotto ogni punto di vista,
sia teorico che pratico, il pensiero anarchico rispetto ad ogni
problema di qualsiasi natura: sociale, economico, politico,
religioso, filosofico, ecc. L’opera teorica malatestiana
viene a configurarsi, se ci è permesso usare questa espressione,
quasi come un “manuale dell’anarchismo”.
L’analisi della realtà sociale, nella prospettiva
malatestiana, è quindi un’analisi indiretta, alla
rovescia: per risalire ad essa ed alla sua comprensione bisogna
porsi completamente nella dimensione libertaria. Mentre la realtà
storico-sociale muta, il progetto rivoluzionario rimane identico
nella sua sostanza e dipende da essa solo per quel tanto che
lo riguarda dal punto di vista di un aggiornamento “tecnico”.
In questo modo dai moti internazionalisti al tradimento del
socialismo parlamentare, dalla “settimana rossa”
alla occupazione delle fabbriche, dalla politica crispina all’avvento
del fascismo, la storia sociale d’Italia è filtrata
attraverso il prisma magistrale della comprensione chiara, semplice
e materialistica del pensiero malatestiano (e così in
parte la storia del movimento socialista europeo).
L’attualità di questa prospettiva è stupefacente
dal punto di vista metodologico: le pretese “condizioni
obbiettive” favorevoli alla rivoluzione sono risultate
un’invenzione dei “cattedratici” di fronte
all’esperienza storica. Non solo la costruzione del socialismo
e della libertà attraverso l’esperienza fallimentare
del marxismo, è risultata possibile a diversi livelli
delle forze produttive.
La prospettiva volontaristica malatestiana e il progetto che
l’ha sottintesa rimangono ancora un patrimonio teorico
tutto da realizzare.
In altri termini Malatesta ha dimostrato, con la sua lotta ultraciquantenaria,
che la costruzione della libertà e dell’eguaglianza
non dipende che dalla volontà rivoluzionaria di chi vuole
realizzare tale progetto (soprattutto, la dimostrazione l’ha
data la storia).
Le masse sfruttate, infatti, sono per la loro stessa posizione
obiettiva e materiale sempre potenzialmente rivoluzionarie,
ma sono anche, contemporaneamente in una condizione altrettanto
obiettiva di sottomissione e di paralisi.
Il compito dei rivoluzionari è dunque nel senso malatestiano
trasmettere questa volontà cosciente e generalizzarla,
resistendo alle prevedibili sconfitte, abituandosi a respiri
lunghi, e non brevi ed affannosi. Il compito dei rivoluzionari
è ancora, nel senso malatestiano, mantenere intatta,
pura e integrale la prospettiva libertaria ed egualitaria, nel
senso che i rivoluzionari devono essere al fianco delle masse
oppresse quando queste sono all’attacco, ma non seguirle
quando queste si paralizzano dopo le sconfitte.
Il compito degli anarchici infine, è quello di restare
tali qualsiasi cosa avvenga, qualsiasi cosa possa avvenire,
qualsiasi cosa sia avvenuta.
La dimensione etica dell’insegnamento malatestiano risiede
nella affermazione che la volontà rivoluzionaria, per
essere anarchica, deve essere cosciente e tale deve rimanere
in qualsiasi circostanza. Diceva Malatesta, nel 1922 dopo oltre
cinquanta anni di lotte perdute: “Anarchici noi restiamo
anarchici malgrado tutto e malgrado tutti. Noi siamo stati vinti…
Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che
ci farà rinunziare alla lotta… Non vi rinunzieremo
nemmeno per cento, per mille sconfitte, poiché sappiamo
che nei progressi umani è stato sempre a forza di perdere
che s’è finito col vincere.”.
Linguaggio malatestiano
Se osserviamo tutta la produzione teorica malatestiana constatiamo
innanzi tutto che la sua forma espositiva è inscindibile
dallo scopo stesso della produzione medesima: universalizzare
al massimo il pensiero anarchico e rivoluzionario.
In questa prospettiva esso è molto di più della
connessione tra linguaggio semplice e chiaro e scopo della propaganda:
la chiarezza e la semplicità del linguaggio malatestiano
stanno ad indicare, nei suoi intendimenti, che il pensiero anarchico
non può che esprimersi nel modo più universale
possibile.
Se anarchia è massima libertà nella massima eguaglianza
e specificatamente, nel pensiero malatestiano, la massima socializzazione
possibile (comunismo), allora si comprende che il pensiero anarchico
è tale nella misura della sua socializzazione. In altri
termini il valore pratico di esso dipende dal grado di estensione
raggiungibile. Non deve essere possibile alcuna sfasatura tra
contenuto ed espressione; la conoscenza intellettuale dell’alternativa
libertaria ed egualitaria non può essere, per sua natura,
monopolio di nessuno.
Nei suoi opuscoli e nei giornali da lui diretti, vengono propagandati
attraverso tale linguaggio sorretto da una logica lucida e da
un “buon senso” difficilmente ripetibile: Malatesta
riesce a dire le cose più complesse nel modo più
semplice e chiaro possibile. A nostro avviso esso ha rappresentato
la massima espressione non solo nel campo anarchico ma anche
nel campo rivoluzionario in genere. Alcuni opuscoli, come il
dialogo Fra contadini, hanno avuto una tale diffusione
e penetrazione nelle masse popolari difficilmente oggi concepibile
(nel 1920, ad esempio, la Federazione Anarchica Ligure ne stampò
e diffuse centomila copie).
Non solo, essi hanno educato generazioni intere di rivoluzionari
e di progressisti.
In un arco di tempo in cui il linguaggio socialista e marxista
è venuto via via ad essere monopolio esclusivo di una
minoranza intellettuale di iniziati raccolti intorno alle varie
chiese-partito, fino a costituire un corpus dottrinario e teologico
con i suoi “segni” e i suoi “significati”,
il pensiero e il linguaggio malatestiano rimangono un faro di
luce che ancora oggi annichilisce i moccoli accademici di tutti
i dottrinari e i presuntuosi di questo mondo.
Giampietro “Nico” Berti
Comunismo
e individualismo
Ma
per essere anarchici non basta volere l’emancipazione
del proprio individuo, ma bisogna volere l’emancipazione
di tutti; non basta ribellarsi all’oppressione, ma bisogna
rifiutarsi ad essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli
di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini
tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali
altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici.
E questa non è questione di assetti economici: è
questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione
di etica.
Da tali principi e tali sentimenti, comuni malgrado il diverso
linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi
pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà
e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà.
Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra
essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale
modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza,
ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che
più gli uomini sono affratellati e più intima
è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti quegli
associati, più grande è il benessere e la libertà
di cui ciascuno può godere. L’uomo, essi pensano,
se anche è liberato dall’oppressione dell’uomo,
resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch’egli
non può vincere da solo, ma può col concorso degli
altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere.
Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando
da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per
esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra,
rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe
ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo,
viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti
umani… e non riuscirebbe sempre a sfamarsi.
È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si
dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento,
sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi,
ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch’essi
vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni
degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà.
Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli
anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente
propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo
grande apostolo dell’indipendenza individuale e voleva
con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente
i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche,
unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale
per diventare uomini nel senso più elevato della parola.
Di più, i comunisti (anarchici, s’intende) credono
che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità
e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente
a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non
la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso
tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà
per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione,
quel volontario comunismo universale che essi considerano quale
l’ideale supremo dell’umanità emancipata
ed affratellata. Ed arrivan quindi ad una conclusione che potrebbe
esprimersi colla formula: quanto più comunismo è
possibile per realizzare il più possibile di individualismo,
vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo
di libertà.
D’altra parte gl’individualisti (parlo, s’intende,
sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario
– che è stato nella storia la prima concezione
che si è presentata alla mente umana di una forma di
società razionale e giusta e che ha influenzato più
o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione
– per reazione, dico, contro il comunismo autoritario
che in nome dell’eguaglianza inceppa e quasi distrugge
la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza
al concetto astratto di libertà e non si sono accorti
o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la
libertà reale è condizionata dalla solidarietà,
dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno
ingiusto il pensare che essi vogliono privarsi dei benefizi
della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento.
Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente
e che l’uomo, per assicurarsi una vita umana e godere
materialmente di tutte le conquiste della civiltà, o
deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui
e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi
suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita.
E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, debbono necessariamente convenire
che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un
grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.
(“Pensiero
e Volontà”, 1 Aprile 1926)
Sulla
violenza
Gli
anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea
centrale dell’anarchismo è l’eliminazione
della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione
dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei
singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò
siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla
protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare
dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi
ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli.
Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione
coercitiva, cioè violenta, della società.
La violenza è giustificabile solo quando è necessaria
per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove
cessa la necessità comincia il delitto… Lo schiavo
è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua
violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è
sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo
dal criterio dell’utilità e dell’economia
dello sforzo umano e delle sofferenze umane.
(“Umanità
Nova”, 25 agosto 1921)
La
violenza anarchica è la sola che sia giustificabile,
la sola che non sia criminale.
Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri
anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca ed
irragionevole che è stato attribuito agli anarchici,
o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti
al furore da infami persecuzioni, o acciecati, per eccesso di
sensibilità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo
delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.
La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa
la necessità della difesa e della liberazione. Essa è
temperata dalla coscienza che gl’individui presi isolatamente
sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto
loro l’eredità e l’ambiente; essa non è
ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa
perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione
del proprio dominio a quello degli altri
(“Pensiero
e Volontà”, 1 settembre 1924)
Vi possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è
un’arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore
delle armi, poiché sarebbe la più economica di
sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare
la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro
la paura delle ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi.
È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti,
appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici,
arrivano a conseguenze pratiche pressoché uguali. Quelli
non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far
trionfare l’idea; questi lascerebbero che tutta l’umanità
restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto
che violare un principio.
(“Anarchia”,
Londra, agosto 1896)
Pluralismo
anarchico
Tra
gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che bisogna
colla forza abbattere la forza che mantiene l’ordine presente
per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione
degl’individui e delle collettività – e vi
sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare
alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl’individui
per mezzo dell’educazione e della propaganda. Vi sono
i partigiani della non-resistenza, o della resistenza passiva
che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere
la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità
della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto
alla natura, alla portata ed ai limiti della violenza lecita.
Vi sono dissensi riguardanti l’attitudine degli anarchici
di fronte al movimento sindacale; dissensi sull’organizzazione,
o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti,
o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti
sovversivi.
È su queste ed altre questioni del genere che bisogna
cercare d’intenderci, o se, come pare, l’intesa
non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare
insieme quando si è d’accordo, e quando no, lasciare
che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l’un l’altro.
Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere
assolutamente sicuro di avere ragione, e nessuno ha sempre ragione.
(“Pensiero
e Volontà”, 1 aprile 1926)
L’organizzazione
Un’organizzazione
anarchica deve essere fondata secondo me… (sulle seguenti
basi).
Piena autonomia, piena indipendenza, e quindi piena responsabilità,
degli individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che
credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo comune; dovere
morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla
che contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano
poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale
all’organizzazione. Quindi i gruppi, le federazioni di
gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi,
i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto
questo deve esser fatto liberamente, in modo da non inceppare
il pensiero e l’iniziativa dei singoli, e solo per dare
maggiore portata agli sforzi che, isolati, sarebbero impossibili
o di poca efficacia.
Così i congressi in un’organizzazione anarchica,
pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni
che ho fatto notare, sono esenti da ogni autoritarismo perché
non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie deliberazioni.
Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti personali fra
i compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi
programmatici sulle vie o sui mezzi di azione, a far conoscere
a tutti le situazioni delle diverse regioni e l’azione
che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie
opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica
– e le loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma
suggerimenti, consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati,
e non diventando impegnative ed esecutive se non per quelli
che le accettano e finché le accettano. Gli organi amministrativi
che essi nominano – Commissione di corrispondenza, ecc.
– non hanno nessun potere direttivo, non prendono iniziative
se non per conto di chi quelle iniziative sollecita ed approva
e non hanno nessuna autorità per imporre le proprie vedute,
che essi possono certamente sostenere e propagare come gruppi
di compagni, ma non possono presentare come opinione ufficiale
dell’organizzazione. Essi pubblicano le risoluzioni dei
congressi e le proposte che gruppi e individui comunicano loro;
e servono, per chi se ne vuol servire, a facilitare le relazioni
fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo
sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente
con chi vuole, o di servirsi di altri comitati nominati da speciali
aggruppamenti.
In un’organizzazione anarchica i singoli membri possono
professare tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non
sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono
all’attività degli altri. In tutti casi una data
organizzazione dura fino a che le ragioni di unione sono superiori
alle ragioni di dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo
ad altri aggruppamenti più omogenei.
Certo la durata, la permanenza di una organizzazione è
condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere
e d’altronde è naturale che qualunque istituzione
aspira, per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata
di una organizzazione libertaria deve essere la conseguenza
dell’affinità spirituale dei suoi componenti e
dell’adattabilità della sua costituzione ai continui
cambiamenti delle circostanze: quando non è più
capace di compiere una missione utile meglio che muoia.
(“Il
Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)
Sindacalismo
Oggi
la più grande forza di trasformazione sociale è
il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo
dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti
e la meta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per
mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi,
i lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione
in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai
loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore,
si abituano alla lotta collettiva ed alla solidarietà,
e possono riuscire a conquistare quei miglioramenti che sono
compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale.
Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione,
o la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità
e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne
lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo
tutto quello che possono perché esso, in cooperazione
colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione
sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà
totale, all’eguaglianza, alla pace ed alla solidarietà
fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione
il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa
e debba da se stesso in conseguenza della sua stessa natura,
menare ad una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti
fondati sugl’interessi materiali ed immediati (e non si
può fondare su altre basi un vasto movimento operaio),
se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli
uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista
di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle
circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura
di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni
migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate
e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe
abbattere.
Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente
anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati, lottino per
la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino
di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.
(“Il
Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)
Compito degli anarchici, è quello di lavorare e rafforzare
le coscienze rivoluzionarie tra gli organizzati e rimanere nei
sindacati sempre come anarchici.
Vero che in molti casi i sindacati, per esigenze immediate,
sono costretti a delle transazioni, a dei compromessi. Io non
li critico per questo, ma è proprio per questa ragione
che io devo riconoscere ai sindacati un’essenza riformista.
I sindacati fanno opera di affratellamento tra le masse proletarie
ed eliminano i conflitti che altrimenti potrebbero prodursi
tra lavoratori e lavoratori.
Mentre i sindacati debbono fare la lotta per la conquista dei
benefici immediati, e del resto è giusto ed umano che
i lavoratori domandino dei miglioramenti, i rivoluzionari sorpassano
anche questo. Essi lottano per la rivoluzione espropriatrice
del capitale e l’abbattimento dello Stato, di ogni Stato,
comunque si chiami.
Poiché la schiavitù economica è frutto
di quella politica, per eliminare l’una, bisogna abbattere
l’altra, anche se Marx diceva l’opposto.
Perché il contadino porta il grano al padrone?
Perché vi è il gendarme ad obbligarvelo.
Quindi il sindacalismo non può essere fine a se stesso,
poiché la lotta deve essere anche combattuta sul terreno
politico per estinguere lo Stato.
Gli anarchici non vogliono dominare l’USI. (Unione Sindacale
Italiana, organizzazione anarcosindacalista, N.d.R.); non lo
vorrebbero neppure se tutti gli operai ad essa aderenti fossero
anarchici, né essi intendono assumere la responsabilità
delle transazioni. Noi che non vogliamo il potere, desideriamo
le coscienze soltanto; sono coloro i quali desiderano dominare
che preferiscono avere delle pecore per meglio guidarle.
Preferiamo degli operai intelligenti, fossero anche nostri avversari,
a degli anarchici che siano tali solo per seguirci pecorilmente.
Vogliamo per tutti la libertà; vogliamo che la rivoluzione
la faccia la massa per la massa.
L’uomo che pensa col proprio cervello è preferibile
a quello che ciecamente approva tutto. Per questo, come anarchici,
siamo per l’USI perché questa sviluppa le coscienze
nella massa. Vale meglio un errore commesso con coscienza, credendo
di fare bene, che una cosa buona fatta servilmente.
(“Umanità
Nova”, 14 marzo 1922)
In una parola, il sindacato operaio è, per sua natura
riformista e non già rivoluzionario. Il rivoluzionarismo
vi deve essere immesso, sviluppato e mantenuto per l’opera
costante dei rivoluzionari che agiscono fuori e dentro del suo
seno, ma non può essere l’esplicazione naturale
e normale della sua funzione. Al contrario, gl’interessi
attuali ed immediati degli operai associati, che il sindacato
ha missione di difendere, son molto spesso in opposizione colle
aspirazioni ideali ed avveniristiche; ed il sindacato può
fare opera rivoluzionaria solo se è pervaso dallo spirito
di sacrificio e nella proporzione che l’ideale è
messo al di sopra dell’interesse, cioè solo se
e nella proporzione che cessa di essere sindacato economico
e diventa gruppo politico e idealistico, il che non è
possibile nelle grandi organizzazioni che per agire han bisogno
del consentimento della massa sempre più o meno egoista,
paurosa e retriva.
(“Umanità
Nova”, 13 aprile 1922)
Divisione del lavoro
Noi
ammettiamo certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo
i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La
divisione del lavoro è stata una fra le cause dell’assoggettamento
delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col principio
della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione
di tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro
mentale e lavoro manuale, divisione tra il lavoro di direzione
e quello di esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione
e quello di difesa dei produttori… che poi si riassumono
e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e
quello di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi
bastonare. Menenio Agrippa conosceva già quest’argomento.
Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo
ma del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni
debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società,
malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell’affidarle
ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che
si può, per aumentare la produzione e facilitare il funzionamento
della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto l’integrale
sviluppo e l’eguale libertà di tutti gl’individui.
(“Agitazione”,
1897)
L’uomo della strada
Non
bisogna trascurare “l’uomo della strada”,
che è poi in tutti i paesi la grande maggioranza della
popolazione; ma non bisogna neppure fare troppo affidamento
sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa.
L’uomo ordinario, “l’uomo della strada”,
ha molte ottime qualità, ha immense potenzialità
che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno
formare l’umanità ideale che noi vagheggiamo; ma
esso ha intanto un grave difetto che spiega in gran parte il
sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare,
ed anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più
volentieri chi gli risparmia la fatica di pensare e prende su
di sé la responsabilità di organizzare, dirigere…
e comandare. Esso, purché non lo si disturbi troppo nelle
sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e
gli dice quello che deve fare, anche se a lui non resta che
il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e
seguire gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato
a male tante rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che
minaccia le rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sé e subito, bisogna bene che provvedano
al necessario uomini di buona volontà, capaci di iniziativa
e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo
di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci
nettamente dai partiti autoritari.
Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi
in governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi
possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di
fare il bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera
azione popolare, non riuscirebbero ad altro che a creare una
nuova classe privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo,
ed in sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno
faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù
a quello di libertà, fornendo al pubblico il più
possibile di idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma
debbono guardarsi bene dall’incoraggiare quell’inerzia
intellettuale e quella tendenza a lasciare fare agli altri ed
ubbidire, che abbiamo lamentate.
La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà
svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti
alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini
d’oggi, per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno.
E noi dovremo suggerire e realizzare il più possibile
quei modi di vita che meglio corrispondono ai nostri ideali,
ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo
spirito di iniziativa e l’abitudine di fare da sé.
Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire
colla parola e con l’esempio come compagni tra compagni;
e ricordarci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro
e far trionfare i nostri piani; correremmo il rischio di tarpare
le ali alla rivoluzione ed assumere noi stessi, più o
meno inconsciamente, quella funzione di governo, che tanto deprechiamo
negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri.
Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà,
perché convinti fortemente di aver ragione e di fare
il bene, saremmo inclinati, da veri fanatici, a considerare
quali controrivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che
non pensassero ed agissero come noi.
Ché se poi quello che gli altri fanno non fosse quello
che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempreché
fosse salvaguardata la libertà di tutti.
Ciò che veramente importa è che la gente faccia
come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se
non quelle che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme
definitive se non quelle reclamate ed imposte dalla coscienza
popolare.
(“Almanacco
libertario”, Ginevra, 1931)
La tattica elettorale
Il
terreno comune su cui si incontrarono i borghesi, che cercavano
di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti,
fu l’urna elettorale. Né il danno sarebbe stato
grande. Ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono
purtroppo a trascinare all’urna molti buoni, che credevano
sinceramente di acquistare una nuova arma di lotta contro la
borghesia, e di avvicinare con quel mezzo l’avvenimento
della rivoluzione.
Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece
a gradi.
Al principio non si infirmò nessuna delle conclusioni
acquisite al programma socialista. L’espropriazione per
mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico
mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica
e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano
e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare.
Però, s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne
può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi
delle concessioni che possiamo strappare, al nemico, allarghiamo
il nostro campo di azione, cessiamo dal roderci nella nostra
impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto
di andare all’urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva
tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s’osava
ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della
lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente
parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per
contarsi, quasi che fosse necessario andare all’urna e
farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito.
E per affettare scrupolosità si parlò di votare
un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili.
Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono vivi
e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento
potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava confessarlo:
si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non
entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là
dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia
alla borghesia la infamia sua, e farsi scacciare come nemico
che non transige. Poi nemmeno più questo. In parlamento
bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare,
per iscoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica,
per avere dei posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi
nella cittadella borghese.
Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva
aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in
parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale
in mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
Ma che!… oramai si stava sulla china e bisognava andare
fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento,
doveva diventar riformista, e lo diventò.
L’emancipazione integrale, cominciarono a dire, è
una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana
lontana e che nessuno ha mai visto. Il popolo ha bisogno di
miglioramenti immediati. Meglio poco che nulla. La rivoluzione
sarà tanto più facile quanto più concessioni
ci saranno strappate alla borghesia. Senza contar quelli, pochi,
del resto, che hanno saltato il fosso affermando che si può
raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica.
E s’invocò la scienza, quella povera scienza che
s’accomoda a tutte le salse, per sofisticare all’infinito
sul tema evoluzione e rivoluzione; quasiché vi fosse
alcuno che neghi l’evoluzione, e la questione non fosse
piuttosto sulla specie di evoluzione, che più corrisponde
al fine socialista – e che quindi i socialisti devono
propugnare.
(1890-91)
Masse e rivoluzione
È
completamente erroneo che per abbattere il capitalismo bisogna
aspettare che i milioni di cattolici siano diventati liberi
pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza) organizzati
per la lotta di classe.
Non equivochiamo. È una verità assiomatica, lapalissiana,
che la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono
forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica
che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni
sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
I cattolici resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno,
fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza
e di scienza, interessata a tenere la massa nella schiavitù
intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno
mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre
soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria,
la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio
di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità
tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte
le circostanze, di tutte le crisi per mettere gli operai in
concorrenza gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno
sempre montoni per definizione anche se qualche volta accade
loro di tirar delle cornate.
È cosa provata che date certe condizioni economiche,
dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali
e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino
a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente
violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda,
l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non
riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che,
in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente
in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella
minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce
in conseguenza delle stesse ingiustizie a cui la massa è
soggetta, agisce come fermento storico e basta, è sempre
bastato, a far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni
rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze.
È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di
far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a
forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo
scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e
perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché
non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi
nega ai lavoratori.
Naturalmente il “piccolo numero”, la minoranza,
deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi
vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto
delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.
Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai
remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna
probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in
quattro gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed
i nostri tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.
Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda:
ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo
tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente
possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo
credere il frutto maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo
la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto
contro quegli altri che vogliono sempre aspettare, che lasciano
di proposito passare le migliori occasioni e, per paura di cogliere
un frutto acerbo lasciano tutto marcire.
Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con “La
Giustizia” quando insiste sulla necessità di fare
molta propaganda e di sviluppare il più possibile le
organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente
da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di avere
attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non
sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà
la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.
(“Umanità Nova”, 6 ottobre 1921)
Per informazioni sulle altre Letture (Bakunin, Kropotkin, Proudhon),
sulla rivista anarchica “A”, sui numerosi nostri
altri prodotti collaterali
(compresi i Cd e il
Dvd legati a Fabrizio De André), contattateci e/o
visitate il nostro sito: Editrice A, cas. post. 17120, 20170
Milano, tel. 02 28 96 627, fax 02 28 00 12 71, email arivista@tin.it,
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