Degenerazione
autoritaria
di Andrea Papi
Ringrazio Cosimo per le questioni che pone suscitate dal mio
articolo e lo saluto caramente. Quando è autenticamente
motivata da un sincero confronto di idee ed argomentazioni,
la polemica è sempre ricchezza ed aiuta tutti coloro
che vi sono coinvolti in un processo di comprensione che, quando
si vuole, diventa fondamentale per definire come e cosa si debba
e si voglia fare. E qui mi sembra che ci siamo in pieno.
Ma veniamo a ciò che c’interessa. Premetto innanzitutto
che concordo con Cosimo che il problema di quella che considero
una degenerazione autoritaria e burocratica della questione
sindacale, sottolineando per parte mia la prevalenza del carattere
autoritario, sia più complessa delle questioni da me
poste, alle quali però, pur essendone consapevole, siccome
le ritengo centrali, ho scelto arbitrariamente di dar loro una
preminenza, senza per questo considerare le altre meno importanti.
Forse avrei dovuto dichiararlo e di ciò mi scuso. Condivido
pure tutta la giustezza degli esempi e delle considerazioni
che egli pone riguardo alle diverse situazioni internazionali
cui fa cenno, che mi sono apparse motivate e valutate in modo
consono ed adeguato.
Ciò di cui m’interessava discutere però
è altro, anche se del tutto connesso a questi argomenti.
Innanzitutto, essendo partito dalle ultime clamorose lotte degli
autoferrotranvieri, egemonizzate dalle proposte dei sindacati
di base italiani, le mie considerazioni si sono riferite principalmente
alla situazione specifica italiana e volutamente non mi sono
addentrato in un excursus internazionale, se non per qualche
cenno del tutto secondario. Tenendo presente in specifico questa
territorialità, ho così cercato di approfondire
un punto in particolare che ritengo centrale rispetto alla questione
della degenerazione sindacale: l’ingerenza sempre più
pressante dell’ideologia e della pratica partitiche all’interno
delle strutture del movimento operaio, il quale, ne sono fermamente
convinto, dovrebbe trovare, o ri-trovare in modo aggiornato
ed attuale, l’originario spirito autonomo per cui si fece
consapevole e l’originaria spinta, sempre autonoma, di
difesa e imposizione dei propri diritti attraverso le lotte,
scrollandosi di dosso l’inquinamento della politica militante,
determinante oggi più che mai nel far risaltare gli elementi
conservativi.
Processo esasperato ed irreversibile
Rivendico la considerazione che la visione strumentale teorizzata
da Lenin, nota come Cinghia di trasmissione, a un certo
punto, abbia esasperato e reso irreversibile il processo in
atto di colonizzazione, ideologico e politico insieme, già
comunque pienamente presente per conto delle diverse forze socialiste
e repubblicane, come ho sottolineato nell’articolo. Tale
visione, forse aspettata, per gli attivisti partitici fu occasione
succulenta per innestare nelle strutture sindacali già
presenti un’ulteriore consapevolezza e volontà
di occupazione ed uso a fini strategici. Nei partiti leninisti
per tentare di condurre in porto l’occupazione del potere
da parte del partito bolscevico, per altre forze politiche e
padronali, all’inverso, per tentare l’ingerenza
e la gestione impropria nel e del movimento operaio, con lo
scopo d’imbonirlo e di dirigerlo, ognuno per i propri
scopi.
La qual cosa, forse perché il terreno era fertile in
tal senso, in breve tempo forgiò, e al contempo fece
si che si mantenessero, un insieme di approcci, di mentalità
e di atteggiamenti psicologici atti a rendere salda tale occupazione.
Non a caso, da parte degli attivisti sindacali più impegnati,
che nella maggioranza dei casi erano e sono sempre impegnati
anche su versanti specificatamente politici o partitici, le
organizzazioni dei lavoratori sono state e vengono viste e vissute
come luoghi prioritari per la ginnastica e l’azione della
lotta politica, cui si continua a pensare che debbano servire.
Il fatto di sottolineare, come continuo a rivendicare, che la
teorizzazione leninista fornì e permise di applicare
nei fatti una base altamente giustificativa e, agli occhi degli
attivisti, nobilitante, per strumentalizzare a fini propri il
movimento operaio, non vuol dire e nei fatti non comportò,
che ci sia stata dovunque un’egemonia indiscussa del leninismo
e che il processo innestato da tale occupazione sia dovunque
risultato incontrastato e vincente. L’applicazione di
una teorizzazione è sempre foriera di imprevisti, contraddizioni,
incidenti in itinere e necessità di correzioni. Ciò
che però ritengo fondamentale, e nell’articolo
mi sembra che risulti, non è tanto come tale impatto
si sia realizzato, quanto quali deleterie dinamiche relazionali,
atteggiamenti psicologici e giustificazioni d’intenti,
più o meno limpidi, fu in grado d’innestare, inquinando
e nel tempo deteriorando l’azione di difesa e di autorganizzazione
per cui il movimento operaio prese forma.
Un danno collaterale, non minore per importanza, è rappresentato
dal fatto che la Cinghia di trasmissione è stata
capace d’inserire come un cuneo la logica e le tensioni
legate all’ideologia della lotta di classe. Trattata e
proposta frequentemente in modo poco ortodosso o scorretto,
se non addirittura osteggiata, sposta ed è stata comunque
capace di spostare l’attenzione su un problema squisitamente
ideologico. Idealisticamente è sorretta da una lettura
aprioristica della realtà. Impone cioè una visione
secondo cui le lotte operaie debbano essere finalizzate alla
prevalenza ed all’egemonia della classe operaia, o comunque
che il problema operaio, in quanto inerente ad una categoria
socioeconomica di riferimento supposta prevalente, sia o debba
essere il problema più rilevante attorno al quale ruota
e debba ruotare l’insieme delle lotte per l’emancipazione
sociale. Non, per esempio, che l’emancipazione riguardi
invece l’insieme della società, in una logica ed
in una tensione di superamento della divisione in classi, dove
la visione di riferimento non sia più legata alla logica
della prevalenza della struttura economica, com’è
secondo la dottrina di classe, ma al contrario al superamento
ed all’eliminazione di tutte le strutture di potere, sia
economiche sia politiche.
Non sto a ripetermi. Lo stesso Cosimo del resto nella sua gradita
polemica asserisce e promette che della lotta di classe, come
sulle prospettive del sindacalismo di base, giustamente, vi
sarà tempo e modo di tornare.
Andrea Papi
Battaglia
anticoncertativa
di Gino Caraffi
Carissimo Cosimo,
ho letto il tuo lavoro sulla burocrazia sindacale…, il
tuo pezzo mi lascia un po’ perplesso, perché affronta
il problema della burocrazia come se fossimo all’inizio
del secolo scorso.
Come tu sai non sono un teorico del sindacalismo, ti voglio
quindi porre alcune domande, sia sull’impegno sindacale,
che sul ruolo degli anarchici impegnati in questo “scivolosissimo”
terreno che è la lotta di classe.
Come tu forse saprai io, ed altri compagni di Reggio Emilia,
abbiamo scelto di “rientrare” in CGIL, in modo particolare
nella FIOM, in quanto abbiamo ritenuto importante partecipare
a quella che riteniamo l’ultima battaglia anticoncertativa
possibile.
Come mai gli anarchici non riconoscono un ruolo alla FIOM-CGIL
in questa fase? Forse i lavoratori che si ribellano sotto le
sue bandiere non sono degni di attenzione?
Siamo sicuri che tutti i compagni abbiano chiaramente compreso
la composizione di classe in questo paese, e per ciò
che mi riguarda nella media industria metalmeccanica?
Questo ed altri quesiti vorrei porre alla tua attenzione, la
differenza tra ciò che io penso e/o vorrei ha uno scarto
troppo grande con quella che è la realtà di classe
in cui lavoro, quindi prima ancora di interrogarmi sul senso
del sindacalismo libertario mi è indispensabile creare
momenti di socialità e di condivisione minima tra i lavoratori,
oggi più inclini al leghismo padano che ad ogni ipotesi
solidaristica, e, rispetto alla burocrazia, è inevitabile
che ci si doti strutturalmente di funzionari e di sedi, perché
come tu ben sai noi operai tra le altre cose dobbiamo anche
lavorare, quindi lascio queste “pippe” ai filosofi
ed agli esteti di un anarchismo che ha sempre meno a che fare
con la lotta di classe, o forse solamente con me.
Ciao
Gino Caraffi
Anomalia sindacale
di Cosimo Scarinzi
Caro Gino,
se ti prendessi alla lettera e credessi che mi stai “ponendo
delle domande” mi preoccuperei un po’. Non mi troverei,
infatti, troppo a mio agio nel ruolo di dispensatore di buoni
consigli e parole di conforto ai compagni impegnati sul terreno
della lotta di classe. D’altro canto, senza che vi sia
alcun disprezzo per la filosofia e per l’estetica, sai
bene che la mia principale attività è quella sindacale
e che ne vivo tutte le contraddizioni ma anche la ricchezza
di esperienze e di percorsi.
In realtà, le tue domande sono già affermazioni
sin troppo chiare. Proverò a dirti la mia in maniera
il più schematico possibile.
Tu ti domandi come mai i compagni non guardino con maggior interesse
all’attuale percorso della FIOM. Vi è già
un modo singolare di porre il problema. Chi sono, infatti, i
compagni? Non siamo forse io, tu ed altri che esprimono posizioni
e valutazioni a volte convergenti ed a volte divergenti? E chi
ci impedisce di ragionare sul percorso della FIOM? Io, per parte
mia, ne ragiono, mi è capitato di scriverne, guardo con
attenzione a quanto avviene in casa CGIL e non credo di essere
il solo.
Detto ciò, sulla FIOM tu esprimi un giudizio politico
ed io un altro ed altri compagni ne avranno di ancora diversi.
È su questo giudizio che varrebbe la pena di misurarsi.
E se è di questo che parliamo, è evidente che
quando affermo che la FIOM esprime un’anomalia nel quadro
sindacale istituzionale ma anche che questa anomalia, nonostante
i fatti di Melfi di questi giorni, non è assolutamente
antesignana di una rottura radicale con la concertazione guardo
a dei fatti precisi quali il comportamento del corpo intermedio
di questo sindacato nella conduzione delle vertenze aziendali,
comportamento assai meno radicale di quanto si possa intendere
leggendo gli interessanti interventi di Cremaschi.
Io ritengo, fra l’altro, che la pressione della maggioranza
della CGIL, per non parlare di CISL e UIL, sia arrivare a mettere
in riga la dirigenza giacobina della FIOM. Posso sbagliare,
naturalmente, mi è già capitato di sbagliare ma,
per ragioni che non ho il tempo di sviluppare, questo è
il mio attuale convincimento.
Poniamo, però, che la CGIL nel suo insieme persegua in
una svolta a sinistra, già ampiamente rientrata, per
la verità, che si è manifestata con l’avvento
della destra al governo.
Avremmo, in questo caso, un sindacato fortemente burocratizzato
e verticista ma “duro”.
Critica radicale
Tu
fai rilevare che i lavoratori, non lo avrei immaginato, lavorano
e che è impensabile che dedichino in numero consistente
il loro tempo libero alla vita del sindacato. Ne sono sin troppo
consapevole e te lo concedo serenamente. Ma la scommessa che
noi facciamo, quella che ci ha portato alla critica radicale
dello sfruttamento e del dominio statale, è proprio quella
che le persone normali, non qualche superuomo anarchico, possano
sviluppare pratiche sociali volte alla propria emancipazione
e che solo sviluppandole possano cambiare, in misura maggiore
o minore, la situazione presente.
Questa posizione è straordinariamente impopolare al momento
e sostenendola finiamo per trovarci in minoranza ed essere in
minoranza, per chi non abbia attitudini élitiste, e io
non ne coltivo, non è gradevole. D’altro canto
se, per essere in accordo con la maggioranza, dovessi entrare
in disaccordo con me stesso non ne avrei gran giovamento.
Liquidare, quindi, la questione della burocrazia come una necessità
è certamente ragionevole ma di una ragionevolezza che
rischia di essere subalterna. Se pensiamo che la burocratizzazione
del sindacato non è un problema, che non si possa nemmeno
ipotizzare un sindacalismo libertario si può certo scegliere
di stare nel sindacato più robusto ma sarebbe forse più
consequenziale non fare sindacalismo se non nella limitata misura
in cui si occupano di sindacato gli altri lavoratori “che
lavorano”.
In estrema sintesi, la nostra discussione è paradossale
perché entrambi vediamo il conflitto industriale come
il momento centrale di ogni possibilità di trasformazione
radicale del mondo ed entrambi guardiamo criticamente all’anarchismo
dei compagni che eludono lo scontro di classe.
Io penso, però, che la scelta di altri compagni abbia
delle ragioni che magari non mi convincono e che qualche volta
mi fanno persino innervosire ma che non sono prive di fondamento.
Ti farò dei casi concreti, io conosco, a Torino, dei
giovani compagni operai molto bravi da diversi punti di vista.
Questi compagni tendono, la cosa può piacermi o meno
ma è così, a sviluppare pratiche di rottura non
a partire dal loro lavorare in fabbrica ma attraverso la costruzione
di aggregazioni fuori dal luogo di lavoro. Per dirla tutta,
ritengono magari che non valga la pena di aggiungere all’oppressione
del lavoro salariato la dura fatica della militanza sindacale.
Visto che un essere umano vive una sola vita e che cerca di
trarne il maggior piacere possibile, ritengo che la loro scelta,
che è disastrosa per il rafforzamento di una robusta
corrente sindacale libertaria, non sia irragionevole.
Tu mi dirai che non ti riferivi a compagni come quelli dei quali
parlo io ma a persone che, avendo una solida formazione politica,
assumono posizioni di indifferenza rispetto alla lotta sindacale.
D’altro canto, per parte mia, ritengo che il problema
dei militanti sindacali libertari non è quello di convertire
al sindacalismo gli anarchici ma, casomai, di avvicinare, attraverso
la loro pratica sindacale, i lavoratori più combattivi
con i quali entrano in relazione alle idee libertarie.
Per ora mi fermo
Fraterni saluti
Cosimo Scarinzi
“Sabaudamente
gufesco”
di Dario l’autoflagellante
Forse semplifico troppo brutalmente, ma se per modello libertario
di organizzazione intendi, e si intende, un’organizzazione
priva di apparati burocratici, ovvero di distaccati, ovvero
di quella “minoranza di funzionari e militanti”
a cui i lavoratori sono “più che disponibili a
delegare le funzioni organizzative”, non vedo come questa
sia realizzabile.
Insomma, se dobbiamo sillogizzare la tua analisi, dato che non
si dà sindacato senza lavoratori e dato che i lavoratori
vogliono delegare, non si dà sindacato senza delegati.
A meno da non cambiare le esigenze e le disponibilità
dei lavoratori. Allora è questo che va “argomentato,
dimostrato, verificato sul campo”? A me pare questo un
obiettivo che a definire titanico si violenta il concetto di
eufemismo. Per come percepisco io la vita e la politica nel
loro complesso, quanto va argomentato, dimostrato e verificato
è più o meno sintetizzabile come segue:
- Che si possono modificare i rapporti di forza fra lavoratori
e padronato (ivi compresa l’amministrazione pubblica)
- Che il singolo lavoratore ha la possibilità di incidere
nel gioco sia come componente collettiva in una manifestazione
o nel computo degli aderenti ad uno sciopero, sia, soprattutto,
per la propria iniziativa individuale
- Che tutto ciò vale davvero la pena, ovvero che il tempo
e le energie sottratti alla vita famigliare o più generalmente
“privata” portano
- ad un miglioramento delle condizioni altrui (posizione straordinariamente
altruistica);
- oppure ad un di più di felicità individuale (posizione
normalmente egoistica);
- piuttosto alle due cose insieme (posizione “politica”,
la più equilibrata).
Per quanto mi guardo attorno, almeno negli ambienti di lavoro
che conosco (autoferro e metalmeccanici saranno forse un’altra
faccenda), non avverto la disponibilità ad accogliere
tesi di questo genere: in molti casi si ha la percezione che,
per quanto si faccia, il mostro è invincibile e persino
inattaccabile; se poi si ritiene che qualcosa si possa fare,
l’azione non può che inserirsi in un’iniziativa
che muova i grandi numeri (lo sciopero unitario!); ad un livello
ulteriore, si è disposti ad un moderato impegno, ma a
patto che il prezzo non sia troppo alto, non già –
o non sempre – per ingenerosità, ma piuttosto perché
non si crede che davvero valga la pena (e allora intervengono
altri moventi che vanno dal senso del dovere ai rapporti personali
e di amicizia a strane forme autolesionistiche – scherzo,
ma non troppo).
E tutto sommato non mi sembra che la realtà dei fatti
e dei conflitti deponga a nostro favore.
Un’ultima nota: io forse apparirò sabaudamente
gufesco, ma hai fatto caso che il tuo ragionamento porta ad
un modello di sindacato di “tutti militanti” che
già si profilava in alcune sconsolate riflessioni del
nostro Gufo guforum (hai presente?), e, sia pur con toni diversi,
neanche tu riesci a concretizzare una proposta finale.
Spero di essere smentito.
Dario l’autoflagellante
P.s.: a proposito della disponibilità di tempo ed energie,
mi ci è voluto un periodo di mutua per indurmi a scrivere
questa pagina.
Rete di relazioni
sociali
di Cosimo Scarinzi
Caro
Dario,
le tue riflessioni hanno il fastidioso pregio di essere una
limpida e sintetica descrizione del normale rapporto fra lavoratori
come individui atomizzati e organizzazioni del movimento operaio
e, a rigore, sistema sociale generale.
Evitiamo, innanzitutto, un equivoco, io non penso ad un sindacato
di militanti, un aggregato del genere sarebbe un collettivo
politico ed è buon uso chiamare le cose con il loro nome.
Proporrei, per venire a quanto rilevi, un approccio al problema
parzialmente diverso. È innegabile che nella società
attuale si è determinato, semplifico molto ma è
necessario, un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio
dal punto di vista economico e sulla normazione burocratica
della vita quotidiana dal punto di vista politico. Questo sistema
di relazioni si manifesta, inoltre, come complessificazione
dei problemi e come conseguente crescita della specializzazione
dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro.
Se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività
di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro,
ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole
del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione.
D’altro canto, e questo non implica un’opzione militante
in senso stretto, il sindacato è o, almeno, può
essere un’associazione intesa propriamente come una rete
di relazioni sociali fondate, magari parzialmente, sulla condivisione
di alcuni valori generali, sulla solidarietà, sull’identificazione
in un soggetto collettivo.
Questo ragionamento vale, in qualche misura anche per i sindacati
istituzionali o, almeno, per la parte meno integrata nelle istituzione
di questi sindacati. Non potremmo, infatti, spiegarci la tenuta,
per fare un esempio oggi dinanzi agli occhi di tutti, della
FIOM se non sapessimo che vi sono donne ed uomini che le dedicano
lavoro volontario, impegno, passione e, in molti casi, il sacrificio
di legittimi interessi personali.
Se assumiamo che un sindacato, anche un sindacato fortemente
istituzionale, è vitale solo se sa suscitare identità,
ne consegue che questo aspetto della vita sindacale non è
l’aspettativa di un mondo migliore ma qualcosa che, in
qualche misura, già esiste. Naturalmente vi sono sindacati
che riducono la loro attività alla pura tutela legale
degli iscritti, allo scambio clientelare o quasi ma non sono
gli unici sindacati possibili ed, anzi, è evidente che
la loro consistenza dal punto di vista del numero degli iscritti
non corrisponde a un peso reale quando si sviluppa il conflitto
sindacale. Per usare una vecchia battuta, gli iscritti non si
contano ma si pesano.
Ora, a me sembra, che la nostra esperienza sindacale funzioni,
quando funziona, perché, in qualche misura, sa suscitare
la tensione associativa alla quale facevo cenno ed è,
assai imperfettamente, anche un rete di relazioni sociali.
Per concludere, mi sembra che tu faccia un’ottima fotografia
della realtà quotidiana ma che serva anche porre l’accento
sul fattore tempo, sullo svolgersi delle situazioni, per restare
alla metafora un film e so che sei appassionato
di cinema.
In fondo, il senso profondo di un’esperienza sindacale
si coglie appieno nei momenti di conflitto aperto, i momenti
nel quale se ne può valutare appieno l’utilità
e la tenuta.
Stammiti bene
Cosimo il fustigatore di masochisti
Struttura leggera
di Walker
Per quanto riguarda il sindacato, nella sua accezione più
generale possibile di struttura permanente volta alla difesa
degli interessi, più o meno immediati, di classe, ho
maturato ormai una posizione che non fa di me l'interlocutore
ideale per una discussione sui limiti e le caratteristiche della
sua “burocrazia” (nei termini in cui la intende
Cosimo). Ritengo, cioè, che un luogo fisico (fornito
del minimo di attrezzature tecniche ormai necessarie: telefono,
fotocopiatrice, fax e computer) dove riunirsi e un buon avvocato
siano tutto quello che serve ad organizzare una difesa sindacale
da parte di gruppi di lavoratori in lotta (resta e non trascurabile
il problema di chi pagherebbe tutto ciò, ma fin che siamo
sul piano di una discussione “astratta” di questo
possiamo non curarci). Detto questo penso, sullo specifico del
sindacalismo di base, poche e banali cose. La prima è
che il funzionariato permanente è ormai una iattura necessaria;
la seconda è che se è una iattura, allora bisognerebbe
eliminarla, costi, quello che costi; la terza è che il
ruolo dei militanti libertari e anarchici fortemente impegnati
sul terreno sindacale (e nelle strutture sindacali) è
gravoso ai limiti dell'insostenibilità, questione che
dunque non è risolvibile se non sul piano delle loro
scelte personali di coerenza e di conseguenza; la quarta ed
ultima, è che, per fortuna, non abbiamo né un
partito, né una strategia di fondo condivisa, che ci
impongano scelte unitarie e nemmeno, forse, coordinate. Di ciò,
spero, un giorno l'umanità ci renderà merito.
Walker
Organizzazioni
stabili
di Cosimo Scarinzi
Caro Walker,
mi sbalordisce il fatto che proprio tu, il gufo imperiale, ipotizzi,
sospetto per burla, che l’umanità ci possa rendere
merito di qualsivoglia nostra scelta.
Detto ciò, due brevi considerazioni:
- la struttura leggera che ipotizzi, se è stabile,
pone, e lo riconosci tu stesso, la questione di chi pagherebbe.
Per quanto si voglia ragionare “in astratto” bisogna
evitare la cattiva astrazione. Per assurdo, ti seguo nel tuo
ragionamento, la delega ad un avvocato della dimensione vertenziale
è più subalterna all’esistente rispetto
alla gestione sindacale. L’ipotesi funzionerebbe solo
e nella misura in cui pensassimo a dei collettivi politici
fondati sull’impegno volontario di un certo numero di
compagni;
- è chiaro che se non si ritiene possibile o desiderabile
l’esistenza di organizzazioni stabili dei lavoratori
il problema delle derive burocratiche si risolve in radice.
Ma è appunto la possibilità e desiderabilità
di organizzazioni di questo genere il problema che, magari
sbagliando, ritengo opportuno porre.
Sono
sostanzialmente d’accordo sul fatto che non è possibile,
visti i caratteri contingenti e storici, del movimento anarchico
che non siano ipotizzabili scelte unitarie o, peggio, uniche
sulla questione sindacale. Lasciami pensare che se fossero almeno
coordinate, nel senso di un confronto sulle questioni di merito
e sulle prospettive, sarebbe un fatto positivo.
Fraterni saluti
Cosimo
Battaglia
anti-gerarchica
di Claudio Strambi
Mi sembra un fatto riconosciuto da tutti i partecipanti al
dibattito sulla burocrazia sindacale (cominciato con l’articolo
di Cosimo) che la tendenza alla burocratizzazione sia una delle
tendenze spontanee di ogni organizzazione permanente dei lavoratori,
tendenza che si accentua man mano che ci si allontana da cicli
di lotte particolari come può esser stato quello del
‘68-‘73. Su questo non posso che convenire essendo
difficilmente opinabile, per chiunque abbia frequentato il movimento
operaio sia sui libri che nella pratica reale.
Tuttavia voglio rilevare che non a caso ho detto “una”
delle tendenze spontanee e non “la” tendenza spontanea
perché altrimenti dovrei convincermi sulla inutilità
di ogni ipotesi di sindacalismo tendenzialmente libertario.
Anche in una congiuntura come quella attuale, non certo ricca
di anelito autogestionario tra i lavoratori, vi sono sempre
controtendenze interessanti che legittimano lo sforzo anti-autoritario
ed una possibile visione in progress della costruzione di un
movimento operaio che tenti di sfuggire dal puro riflesso del
modello statale che gli si pone davanti.
Da questo punto di vista trovo assai di cattivo gusto che il
mio amico e compagno Gino Caraffi definisca “pippe”
da filosofi ed esteti la battaglia anti-burocratica (sarebbe
più corretto dire la battaglia anti-gerarchica). Voglio
ricordare che se è vero che esiste, e me ne dolgo anch’io,
un anarchismo che ha sempre meno a che fare con la lotta di
classe, è anche vero che esiste anche un modo di concepire
la lotta di classe che ha poco a che fare con l’anarchismo.
E per me pari sono.
In secondo luogo non credo affatto ininfluente nel determinarsi
del fenomeno della gerarchizzazione del movimento operaio la
cultura politica di chi si trova alla testa del movimento.
Se RdB è così irrimediabilmente “Monarchica”,
mentre pezzi della CUB o dello SLAI Cobas lo sono meno è
anche perché i secondi soggetti che ho elencato non sono
mai stati confederati ai sindacati di Stato delle Monarchie
Rosse dell’est europeo.
Fatte queste due sintetiche precisazioni penso che bisogna distinguere
tra la necessità oggettiva per un sindacato di avere
una certa quantità di lavoro retribuito ed il modo centralista
e autoritario di articolare questo lavoro retribuito.
Il ruolo dei libertari deve essere non solo quello di cercare
di allargare il più possibile nelle condizioni date il
lavoro volontario rispetto al lavoro retribuito (distacchi e
permessi), ma anche quello di dotarsi di un vero e proprio programma
politico di gestione del lavoro retribuito da portare in ogni
ambito sindacale dove si interviene.
Vengo quindi a sintetizzare alcune indicazioni di massima per
la costruzione di un modello anti-burocratico ed anti-gerarchico,
essendo ben cosciente di non dire niente di particolarmente
originale:
- consigli direttivi non eletti in blocco ai congressi, bensì
delegati eletti direttamente dalle realtà locali o categoriali
e da queste continuamente revocabili;
- comitati esecutivi che abbiano un qualche criterio di rotazione;
- distribuzione più larga possibile dei permessi tra gli
attivi e preferenza dei permessi rispetto ai distacchi;
sì a forme controllate di semi-professionismo (distacchi
a non + del 50%), no al professionismo puro (se si ha bisogno
di 1 distaccato se ne fa 2 al 50%), oppure quando non evitabile
professionismo puro con rapida rotazione;
- definizione di un tempo massimo entro cui il distaccato deve
comunque tornare a lavorare, senza passare da un incarico retribuito
ad un altro come invece avviene;
- netta prevalenza dei distacchi rispetto al funzionariato o se
si preferisce distribuzione ampia dei distacchi sui livelli
decentrati dell’organizzazione (pochi funzionari a Roma
e molti semi-distaccati in periferia);
- federalismo-solidale nella gestione delle risorse economiche
dell’organizzazione.
Se si pensa che queste sono “pippe” allora non
si capisce perché dobbiamo sudare sette camicie a tenere
in piedi giornali, sedi, memoria storica, quando il panorama
è pieno di possibilità politiche meno “onanistiche”.
Claudio Strambi
Burocrati di tutto
il mondo unitevi
di Gino Caraffi
Mi dispiace che Claudio non abbia colto la mia provocazione
sulla burocrazia, o forse non la ha colta per intero.
Quando iniziammo (ormai 15 anni fa) a costruire le prime strutture
sindacali di base, COBAS, FLMU, UNICOBAS, ecc. vi era all’interno
dell’anarchismo organizzato un dibattito che rintracciava
nella necessità di dotarci di una nuova organizzazione
sindacale un punto dirimente per il rilancio della lotta di
classe, vi era l’USI, da alcuni anni impegnata nella creazione
e nel consolidamento della propria organizzazione, tra l’altro
l’unica senza funzionari.
I compagni in modo significativo rivolsero la propria attenzione
verso la CUB, nata dal processo confederativo della FLMU di
Tiboni ed altri funzionari che si “erano ritrovati tra
le mani” un po’ di soldi della FIM CISL milanese,
e le RDB, già presenti nel pubblico impiego con funzionari
distaccati ed una discreta rete di militanti.
Come si vede il sindacalismo di base nasce ”burocratico”,
ma penso che l’interesse dei lavoratori verso queste nuove
esperienze (nuove per l’epoca) sia stato soprattutto per
l’opposizione dimostrata da questo nuovo soggetto contro
la riforma delle pensioni, contro lo smantellamento dell’industria
statale dei primi anni novanta, per un sindacalismo democratico
che ricollocava i lavoratori al centro nelle funzioni decisionali,
contro quindi la politica concertativa che altri burocrati portavano
avanti sulle nostre teste.
Quanto premesso per dire che non solo le strutture sindacali
subiscono una deriva burocratica, ma che questo tipo di concezione
sindacale nasce burocraticamente.
Questo non è però a mio avviso il limite del sindacalismo
di base, il limite che viviamo è e resta quello imposto
dal capitale, in alcuni paesi non esiste il sindacalismo di
base, e la situazione dei lavoratori è tragica, in altri
paesi non esistono sindacati, e la situazione dei lavoratori
è tragica, vi sono paesi dove esistono organizzazioni
sindacali governative, dove i lavoratori sono sotto la soglia
di povertà, mi riesce difficile di questi tempi discutere
della burocrazia sindacale come se fosse il male maggiore ed
il limite maggiore che un sindacalista si trova ad affrontare.
Sarei più propenso a discutere delle nuove forme del
conflitto sociale, di sindacalismo conflittuale, anche perché
continuo a pensare che il compito dei libertari nel sindacato
sia quello di ricostruire una cultura di classe, di tessere
relazioni tra lavoratori, ricordandogli anche i mali della burocrazia,
ma soprattutto ricordargli il suo stato di sfruttati, dentro
e fuori i luoghi di lavoro, il dare troppa importanza al lato
burocratico del sindacato non si tramuta in nuova consapevolezza,
o almeno non necessariamente da parte dei lavoratori.
Mi sembra riduttivo per altro limitare la presenza degli anarchici
nel sindacato con l’assunzione dell’antiburocrazia
come tratto qualificante, evidentemente Claudio nel suo intervento
si è dimenticato di dire che vi sono differenti modi
di concepire e di “fare” la lotta di classe, la
contaminazione libertaria può avvenire su differenti
livelli, nelle lotte, nelle proposte, nella condivisione di
vittorie o di sconfitte, difficilmente i lavoratori faranno
la rivoluzione partendo da una rivolta antiburocratica, al limite
la attraverserebbero.
La costruzione di un’identità libertaria del movimento
dei lavoratori passa ancora attraverso a ciò che sapremo
mettere in campo, oggi, perché io continuo a pensare
che siano state regioni storiche e sociali a determinare la
forza della CNT Spagnola nel”36, e non la critica antiburocratica.
In Colombia burocrati sindacali o aspiranti tali vengono sistematicamente
assassinati dal governo, in questo senso continuo a pensare
che un dibattito sulla burocrazia sindacale interessi piuttosto
qualche compagno desideroso d’approfondimento teorico,
e che la questione posta oggi in questi termini non porti da
nessuna parte, pippe per l’appunto.
Ciao
Gino
Critica alla
burocrazia sindacale
di Cosimo Scarinzi
Caro
Gino,
sebbene i tuoi appunti siano rivolti principalmente a Claudio,
mi permetto di risponderti su di un punto che ritengo rilevante
anche perché può dare adito ad equivoci.
Come lo stesso Claudio segnalava nel suo intervento, la nostra
critica alla burocrazia sindacale è, in realtà,
un aspetto della nostra lotta antigerarchica, lotta che conduciamo,
con ogni evidenza, non solo né principalmente nel sindacato.
La questione dei distaccati sindacali, in particolare, non può
essere affrontata in maniera semplicistica non solo perché
dobbiamo fare i conti con la, relativa, necessità di
un lavoro sindacale continuo e minuzioso che difficilmente può
essere svolto tutto da volontari ma anche perché sarebbe
sciocco ed ingiusto presentare i distaccati, io, al momento
lo sono, come “topi nel formaggio” per stare alla
metafora di Monatte che citavo nel mio articolo.
Per mia esperienza diretta, i distaccati CUB che conosco hanno
spesso affrontato seri sacrifici personali, del gruppo FIM CISL
che, all’inizio degli anni ‘90, diede vita all’esperienza
della FLMU la maggior parte dei distaccati tornò in produzione
e quelli che restarono distaccati vissero, e vivono, l’esperienza
di saltare lo stipendio, di averne comunque uno inferiore a
quello che avrebbero altrove ecc..
Il problema che stiamo discutendo è, a mio avviso, un
altro o, almeno, dovrebbe essere un altro. Si tratta, partendo
dalla consapevolezza che la questione della burocrazia è
significativa, oggettivamente, per il lavoratori sempre ma che
si pone esplicitamente solo in momenti particolari di ragionarne
a fondo.
Ora, il punto è che l’apparato sindacale, qualsiasi
apparato sindacale ha interessi propri assolutamente normali.
Questi interessi possono, ed è la norma per l’apparato
dei sindacati di stato, essere non solo diversi ma configgenti
con quelli dei lavoratori.
Basta, a questo proposito, guardare gli accordi e i contratti
che scambiano reddito e diritti dei lavoratori con garanzie
per l’apparato. Insisto su un punto, sebbene, a fini propagandistici,
sia assolutamente corretto denunciare il carattere scandaloso
di accordi del genere – basta pensare, per fare un paio
esempi, alle trattenute per gli enti bilaterali che vengono
imposte ai lavoratori del commercio o allo scambio fra taglio
delle pensioni e accesso dell’apparato sindacale alla
gestione dei fondi pensione – a livello analitico deve
essere assolutamente chiaro che i sindacati concertativi fanno
queste scelte perché è nella loro natura sociale.
Ritengo per, provvisoriamente, concludere assolutamente evidente
che i lavoratori o, meglio, gruppi consistenti di lavoratori
maturano una critica antiburocratica quando entrano in movimento,
quando costruiscono nella lotta contro lo sfruttamento legami
sociali che permettono un, problematico e magari effimero, superamento
dell’atomizzazione che è la prima caratteristica
della condizione proletaria “normale”.
D’altro canto, i militanti sindacali libertari, che io
sappia, non riducono certo la loro attività alla critica
della burocrazia sindacale né ne fanno un’attività
specialistica che sarebbe decisamente singolare.
La nostra attività quotidiana consiste, come è
ovvio che sia, nell’organizzazione della resistenza e
della lotta allo sfruttamento capitalistico e statale.
L’attenzione alle pratiche di autorganizzazione, alla
dimensione federalistica, alla critica antigerarchiche sono,
però, un carattere specifico della nostra azione che
non può essere liquidata come una fuga dalla realtà
a meno di non assumere che lo stesso sindacalismo libertario
è una fuga dalla realtà.
Fraternamente
Cosimo
Culture organizzative
diverse
di Pietro Stara
Credo che l’intervento di Cosimo sul percorso che ha
portato alla formazione di una robusta burocrazia all’interno
delle strutture sindacali di base sia fondamentalmente corretto.
Alle sue osservazione vorrei, però, aggiungere due considerazioni,
la prima estensiva/critica di un punto elaborato da lui ed una
seconda a se stante.
La prima riguarda il punto relativo all’incremento delle
funzioni relative alla consulenza: Cosimo afferma che questo
apparato burocratico si è formato, in parte, per rispondere
a delle esigenze concrete che ogni lavoratore pone nei confronti
di una struttura sindacale: lettura buste paga, tutela legale,
malattia etc. Se questo è un dato di fatto, occorre però
chiedersi il perché ad una struttura sindacale vengano
sempre più richieste prestazioni consulenziali e meno
di lotta.
La via giudiziaria al socialismo, anarchica o comunista poco
importa in questo caso, è frutto di alcuni aspetti che
si sono tra loro sovrapposti e che hanno marciato parallelamente
nel corso degli ultimi venti anni:
- La riduzione sensibile delle mobilitazioni sui posti di lavoro
e del lavoro politico-sindacale che inevitabilmente faceva da
contraltare al dispiegarsi delle lotte. Il sindacalismo, da
questo punto di vista, ha subito lo stesso smacco, anche se
in forma diversa, della politica militante.
- L’atomizzazione delle forme contrattuali (contratti a
progetto, somministrazione, interinali…) che ha agito
nel duplice senso di rottura ideologica e psicologica dell’unità
di classe ed ha favorito il processo di delega delle rappresentanza.
- L’atomizzazione individuale, vera vittoria di un modello
politico culturale del liberalismo di marca ottocentesca, da
non confondere con il nostro (anarchico) individualismo socializzante
e solidale.
- L’interiorizzazione della “specializzazione professionale”
come processo di delega. Anche qui la politica, che ne ha preceduto
i tempi, ma anche la cultura, l’organizzazione del tempo
libero, la socializzazione in senso lato sono stati affidati,
per essere completamente alienati dal popolo, a dei professionisti.
Il sindacalismo anche in questo non è da meno.
- La violenza dell’attacco politico padronale che ha generato
una sorta di ricerca individualizzata dei percorsi di sopravvivenza
alle condizioni date ed imposte.
Penso che allora, se ciò corrisponde al vero, o parzialmente
ad esso, che non si possa parlare di una singola burocrazia
all’interno dei sindacati di base, ma di almeno due.
La prima è quella tecnica, dei patronati, dei CAF, dei
consulenti o degli avvocati, insomma degli specialisti del mestiere,
che possono, a seconda delle volte usare queste conoscenze per
contrattare del potere gestionale, dei soldi, o del potere politico.
La seconda è quella politica, dirigenziale, di governo
interno: in alcuni casi questa burocrazia detiene anche una
profonda conoscenza dei meccanismi legislativo – vertenziali,
ma quello che di essa ne fa la forza è soprattutto la
capacità gestionale – relazionale, il presenzialismo
totale (retribuito), la capacità politica e la formazione
politica. Da ultimo, come in ogni organizzazione che si rispetti,
è anche il controllo del flusso di denaro, proveniente
dai vari servizi e dalle tessere che fa di questo ristretto
gruppo un organismo dirigenziale come per qualsiasi altra azienda
di produzione. Questo significa conseguentemente che colui che
ha un ruolo decisionale all’interno del sindacalismo di
base sia necessariamente un burocrate? Solo date le condizioni
precedenti: la burocratizzazione può passare tranquillamente
attraverso un processo di consolidamento della base militante,
a volte storica, e non necessariamente al contrario.
La seconda osservazione riguarda un tema che dovrebbe essere
approfondito per ogni organizzazione del sindacalismo di base
e attiene la o le “culture organizzative”. All’interno
del sindacalismo di base si sedimentano, crescono, si compongono
e confliggono diverse culture organizzative, che rispondono
in parte alle diverse culture sindacali e politiche di provenienza.
Per alcuni, e non sempre a torto per capirci, soltanto un’organizzazione
fortemente centralizzata è in grado di rispondere agli
attacchi padronali, perché concentra al meglio la forza
conflittuale in una struttura politicamente e sindacalmente
disciplinata. Peccato che questo modello porti con sé
una bella dose di autoritarismo, di verticismo, di personalismi
ed una formazione burocratica a cascata, formata da vassalli,
valvassori e valvassini. D’altro canto i sostenitori (come
me) del federalismo organizzativo vanno spesso incontro a strutture
sindacali deboli, molto confuse, dove un’altra burocrazia,
locale, magari più subdola, dove gli incarichi si sovrappongono
a gestioni personalistiche del potere, si somma all’inefficacia
delle politiche di lotta. Sulla burocrazia occorre quindi ragionarci,
ma in maniera non banale e non convenzionale ed è soltanto
un bene che su questo tema possa aprirsi un dibattito aperto.
Per ora mi fermo qui.
Pietro Stara
Punto d’arrivo
e d’arresto delle lotte
di Simone Bisacca
Caro Cosimo,
proprio perché faccio di mestiere l’avvocato del
lavoro, ripeto in tutte le occasioni possibili che non credo
esista “la via giudiziaria alla rivoluzione”. Credo
che il ricorso all’autorità giudiziaria nel conflitto
tra capitale e lavoro dovrebbe essere ponderato e diffido della
giuridicizzazione del conflitto sociale. Diciamo, brutalmente,
che quando un lavoratore o, peggio, un sindacato, va dall’avvocato,
ha già perso. Ha già perso perché ricorre
al diritto e all’apparato statale preposto all’applicazione
del diritto. I rapporti sociali sono rapporti di forza; nel
diritto questi rapporti possono in un dato momento storico cristallizzarsi
e il diritto, il diritto del lavoro in particolare, ha costituito
nella nostra esperienza storica (parlo dell’Italia repubblicana)
un punto di arrivo e di arresto delle lotte, da un lato; dall’altro,
la riaffermazione del dominio del capitale sul lavoro. Per capirsi:
lo statuto dei lavoratori del 1970 è stata una conquista
che ha portato a compimento il disegno costituzionale dell’esercizio
dei diritti liberali anche sul posto di lavoro (non solo nella
società): diritto di opinione, di associazione, di riunione,
non discriminazione per sesso, opinioni politiche, appartenenza
sindacale, ecc. Ma la legge 300/70 viene dopo una stagione di
lotte tutte svolte senza alcuna protezione legale, tutte basate
solo sulla capacità di imporre all’avversario le
proprie condizioni. Con lo statuto dei lavoratori assistiamo
al riconoscimento in fabbrica degli stessi diritti che ogni
cittadino ha nella società: e quindi al riconoscimento
degli stessi diritti formali (l’ipocrita: la legge
è uguale per tutti; sappiamo che non tutti sono
uguali, nel senso che non tutti soggiacciono alla legge: il
potere vero delle leggi se ne frega). Si assiste ad
una formalizzazione del conflitto sociale, nel senso che vengono
dettate regole per lo svolgimento del conflitto (cos’è
l’art. 28 dello statuto?) o per i soggetti legittimati
a trattare e a rappresentare i lavoratori (cosa significa la
maggiore rappresentatività che consente di avere
RSA, diritto di assemblea, di contributi sindacali, ecc.?).
Art. 18, un deterrente
Certo tutto ciò è una conquista, chi sputa sull’art.
18 dello statuto che ha impedito negli anni che tanti lavoratori
combattivi non perdessero il posto? Al di là dell’applicazione
pratica, l’art. 18 è stato e resta un deterrente.
Ricordiamoci che dopo e insieme allo statuto dei lavoratori
vengono negli anni ’70 la legge sul divorzio, sull’obiezione
di coscienza al servizio militare, la riforma fiscale del ’73,
la riforma del diritto di famiglia del ’75, i decreti
delegati nella scuola, la riforma dell’ordinamento carcerario,
la legge sull’equo canone del ’78, la legge sull’aborto
dello stesso anno. Sicuramente dimentico qualcosa, ma vedi quante
energie sono state spese dal movimento dei lavoratori per conquistare
diritti liberali e quante lotte si siano giocate sul piano della
produzione legislativa? Lo stato sociale è stato conquistato
attraverso lotte, ma giacché le leggi le fa la maggioranza
temporanea in parlamento, quando la maggioranza in parlamento
è cambiata, in assenza di un forte contropotere nella
società, è iniziata la lenta demolizione di quelle
leggi, fino ad arrivare alla legge 30/2003, la famigerata riforma
Biagi, che ha fotografato lo stato dei rapporti tra le
classi e la supremazia del capitale sul lavoro. La legge
Biagi non è stata promulgata da una maggioranza
al soldo del capitale per indebolire la classe lavoratrice;
piuttosto, è stata promulgata perché la classe
lavoratrice è talmente debole che non è stata
in grado di impedirne la promulgazione. E perché lo stato
sociale è stato demolito pezzo a pezzo dagli ultimi governi
dell’Ulivo e dal governo Berlusconi? Perché potevano
permetterselo: nessuno si è messo di traverso. Sorge
il dubbio che il difetto stia nel manico, cioè che l’ipotesi
socialista (in senso lato) e cattolica di accesso delle masse
alla partecipazione democratica, al potere, sia una trappola
che priva di nerbo la classe lavoratrice: gli unici a prendere
sul serio in Italia in questi ultimi cinquant’anni la
democrazia sono stati proprio i lavoratori e le loro organizzazioni
partitiche e sindacali. Cosa si ritrovano in mano? La difesa
di quei diritti liberali di cui il capitale fa volentieri, e
appena può, a meno. La democrazia è un gioco a
cui solo i lavoratori hanno davvero giocato: gli altri ne fanno
a meno, possono alla bisogna mettere bombe nelle banche, nelle
piazze, sui treni, quando sono sulla difensiva; possono imporre
le loro leggi quando hanno la maggioranza in parlamento. E quando,
come oggi, il potere passa attraverso il controllo e la gestione
di produzione di immaginario (la mitica comunicazione)
che fa la classe lavoratrice se non subire i modelli culturali
del padrone? Incapace di produrre un senso proprio, cioè
modelli di vita altri, la classe lavoratrice non può
che subire. Chi non immagina il futuro, non può gestire
il presente. Perché non ha un progetto un disegno un
filo, per uscirne, non ha una rotta e quindi non può
prendere il timone.
Il sindacalismo alternativo mi pare essere entrato in queste
dinamiche giocando un ruolo negli ultimi venti anni di difesa
di quello stato sociale che era stato conquistato attraverso
le lotte, poi formalizzato nelle leggi citate sopra e aggredito
poi in nome della globalizzazione e dall’esigenza di stare
nel mercato nuovamente in mano al liberismo selvaggio. I partiti
della sinistra e i sindacati concertativi hanno cercato di governare
la ritirata per salvare il loro ruolo di interlocutori e quindi
i loro apparati. Mi chiedo se e quanto sia stato produttivo
per il sindacalismo alternativo fare la coscienza critica di
questa ritirata, ritagliandosi il ruolo di assemblea dei refrattari
che indicava come obiettivo il mantenimento dei diritti sociali
per legge. Voglio dire che forse il gioco della democrazia ha
preso un po’ tutti e si è perso di vista il fatto
che le dinamiche descritte si svolgono dentro un grande gioco,
quello, appunto, della democrazia, conquistata, persa, difesa,
ridimensionata, ecc.
Avvocati come regolatori sociali
Tanti pensano che l’americanizzazione della nostra società
mediterranea o europea passi attraverso la coca-cola o la precarizzazione
del lavoro. È vero. Ma a me preoccupa più il fenomeno
tutto americano del primato degli avvocati come regolatori sociali.
Hai presente le cause delle associazioni ambientaliste o dei
consumatori contro le grandi multinazionali?
In cosa si risolvono? In un risarcimento del danno. Voce che
tutte le società mettono a budget, contabilizzano in
bilancio. Il conflitto sociale è un costo che viene previsto
e spesato a bilancio, compensato da tagli qua e aumenti dei
prezzi là.
E quanto immaginario si spende nel mondo anglosassone per esaltare
la figura dell’avvocato? Il sistema è marcio, ma
se hai un buon avvocato puoi sempre vincere una causa e quindi
pensare che in fondo il sistema ha anche i suoi correttivi,
non è così marcio. Hai l’AIDS e sei un bianco
avvocato omosessuale discriminato (Tom Hanks) con l’amante
cicano (Antonio Banderas)? Ci sarà sempre un avvocato
di colore (Denzel Washington) a battere in tribunale i cattivi,
anche quando sarai crepato (chi non ha visto Philadelphia
e chi non ricorda la colonna sonora del boss Bruce
Springsteen?). Oppure A civil Action con John Travolta,
avvocato che si rovina pagando di suo le perizie di una causa
contro un’azienda che inquina e che ha mandato al creatore
un po’ di giovani del paese? Alla fine del film John Travolta
è effettivamente rovinato, ma manda le sue carte ad un’agenzia
governativa per la protezione dell’ambiente e alla fine
i cattivi pagano.
Oppure A proposito di Henry, con Harrison Ford cattivo
avvocato delle aziende che si converte alla lotta contro le
multinazionali che sfornano prodotti dannosi in barba alla salute
collettiva?
O John Q sulle polizze sanitarie in America: le compagnie
assicurative sono bastarde, ma c’è sempre un onesto
che alla fine la spunta contro di loro.
Ed infine Codice d’onore: Tom Cruise, giovane
e cazzone avvocato militare che inchioda in un memorabile interrogatorio
Jack Nicholson, colonnello dei marines di Guantanamo (ma pensa!)
reo di aver ordinato una punizione nonnista, un codice rosso,
finita col morto?
Dopo la tirata cinefila, ti lascio con due immagini da quello
che fu il Fiatnam e che offro come icone alla comune
riflessione. FIOM, Sincobas, Slai e CUB hanno ottenuto dai giudici
del lavoro di Milano e Torino provvedimenti ex art. 28 dello
statuto dei lavoratori che hanno ordinato a Fiat di far tornare
al lavoro i cassintegrati di Arese e Mirafiori del 2002/2003.
Risultato? Un bel niente. Due giorni fa la Fiat ha ottenuto
da un giudice del luogo un provvedimento d’urgenza che
ordinava alla FIOM di rimuovere i blocchi (si dice ancora picchetti?)
a Melfi. Risultato? Si va a spostare gli operai con l’ufficiale
giudiziario? Al limite con la celere e i carabinieri, no? O
con le trattative a Roma…
Rottamazione sociale
Caro Cosimo, quel che mi preoccupa di più è quando
un compagno sindacalista di base mi chiama per strutturare
l’ufficio vertenze o per aprire una causa
su una certa interpretazione del contratto collettivo o di una
norma di legge.
In questi anni mi è capitato per caso di essere coinvolto
nella ristrutturazione Olivetti a Ivrea o nel massacro che la
Fiat ha fatto a Torino: cessioni di rami d’azienda, cassa
integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità; smantellamento
di un sistema produttivo manifatturiero e scambio politicamente
e sindacalmente condiviso con un sistema di rottamazione sociale
dei lavoratori vecchi e aumento di sfruttamento dei lavoratori
giovani.
Ho condiviso e condivido percorsi di lotta anonimi (nel senso
che non finiscono sui giornali) di singoli o gruppi che cercano
nell’avvocato una difesa, ma insieme, e inscindibilmente,
una ricerca di verità su quel che è capitato loro.
Chi racconta la fine dell’informatica in Italia? Chi racconta
la fine industriale di Torino? Suggerisco che l’inchiesta
(troppo datato?) possa essere un campo dove il sindacalismo
alternativo abbia molto da dire e fare: inchiesta intesa nel
senso di capacità di analisi critica delle situazioni
e proposta politica di uscita dalle stesse. Per far questo bisogna
investire risorse nell’andare là dove stanno i
lavoratori, più che nello strutturarsi per ricevere le
loro richieste. Ci sono tante storie che aspettano di essere
raccontate, tante energie da raccogliere. Bisogna scegliere:
nel senso che si rinuncia al CAF, che fanno tutti e porta un
po’ di soldi, se per fare il CAF si rinuncia a essere
capaci di star dietro alle situazioni di tensione e di lotta.
Se si è quattro cats, seppur wild,
non si può far tutto. Essere la sinistra di CGIL-CISL-UIL
e vendere un prodotto simile al loro, seppure più radical,
è la vostra scelta?
È la vostra scelta politica? O i CAF i patronati gli
uffici vertenze sono strumenti per raccogliere le forze che
poi, convertite alla rivoluzione, si scateneranno contro il
capitale? Fare la scelta di un sindacalismo di azione diretta
e non di azione legale (scusa il gioco di parole) sarebbe sconsiderato?
Chi ci perderebbe: la burocrazia sindacale o i lavoratori? Brutalmente
e semplicisticamente: le attività di protezione dei lavoratori
che servono a tirare su soldi servono ad alimentare un gruppo
stabile (burocrazia) di attivisti sindacali che preparano la
rivoluzione sociale raccogliendo e organizzando quei lavoratori
catturati con l’offerta di servizi migliori e diversi
dei sindacati concertativi? Oppure queste attività di
protezione giustificano l’esistenza di un gruppo stabile
di attivisti sindacali che ad esse si alimentano? In questa
società che si va americanizzando, i singoli lavoratori
sanno già che devono andare dall’avvocato.
Perché dovrebbero andare dal sindacato? Per avere un
avvocato a miglior prezzo o addirittura gratis? Non dovrebbe
essere così, non auspico che sia così.
Se i sindacati concertativi sono erogatori di servizi e cogestori
della attuale gigantesca ridistribuzione del reddito sociale
a favore del capitale, che li salva solo perché interlocutori
utili a questa operazione, val la pena che il sindacalismo alternativo
stia dentro queste dinamiche come paladino dello stato sociale
che fu o si rimetta sulla vecchia e ardua strada dell’organizzazione
dei lavoratori fuori dal sistema democratico rappresentativo
e come mero soggetto di potere che si scontra con altri
poteri (capitale e stato) senza mediazioni?
Con affetto
Simone Bisacca
Straordinaria
occasione
di Cosimo Scarinzi
Caro Simone,
la tua lettera pone questioni radicali in una maniera talmente
stringente che, dopo averla letta, la prima domanda che mi sono
posta è stata “Non è che, negli ultimi quindici
anni abbiamo sbagliato tutto o quasi?”.
Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni di assumere
il terreno sindacale come quello che – non penso, va da
sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo l’ultimo
– da alla progettualità anarchica una dimensione
concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta sindacale non
parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati che riusciamo,
fra mille difficoltà e contraddizioni, ad animare.
Tu sai che ritengo la radicalità nella discussione un
bene e non voglio sottrarmi alle questioni che poni.
Vorrei però farlo spostando l’asse della discussione
perché temo che, in altro modo, non mi riuscirebbe di
risponderti adeguatamente ammesso che, in questo modo e considerando
che avremo tempo per tornare più approfonditamente sull’argomento,
mi riesca di farlo.
Il dubbio che mi è sorto leggendo, in particolare, la
tua lettera ma tenendo conto di altre lettere e discussioni,
che la questione del nesso fra necessità di tutela dal
punto di vista legale e della consulenza e derive burocratiche
attuali e potenziali del sindacalismo alternativo abbia assunto
una preminenza rispetto ad altri e pur interessanti elementi
di valutazione che, se tenuti nel debito, almeno a mio avviso,
conto potrebbero servire a ricollocare la questione in una dimensione
più comprensiva dell’assieme dei problemi.
Mi riferisco, assai poveramente:
- alle culture politiche di riferimento dei militanti
sindacali alternativi e al ruolo che si può giocare da
questo punto di vista sia mediante la produzione propriamente
teorica che mediante la pratica sindacale quotidiana che non
può essere ridotta, ma su questo credo siamo d’accordo,
all’attività di tutela;
- al fatto che la militanza sindacale libertaria è
una straordinaria occasione di costruzione di relazioni con
settori, anche se limitati, di lavoratori combattivi che altre
modalità di militanza, pur utili e rispettabili, non
ci permetterebbero di raggiungere;
- alla stessa ipotesi di fondo che ha mosso me, ma non
solo, un quindicennio addietro e cioè il convincimento
che il riformismo al contrario e la distruzione del precedente
compromesso sociale avrebbero poste le condizioni per lo sviluppo
di un movimento radicale dei lavoratori.
Io credo che su queste tre questioni si debba ragionare e, soprattutto,
lavorare. Tenendomi, per ora, a quella del riformismo al contrario,
io credo che, agli inizi degli anni ‘90, anche sulla spinta
delle mobilitazioni contro la politica sociale della sinistra
– quanto è lontana, ahimé, la settimana
dei bulloni – abbiamo forse troppo sperato ma anche, Melfi
per fare un solo esempio, qualcosa vorrà dire che il
processo allora delineato si stia, sia pure secondo tempi meno
rapidi del previsto, o sperato, realizzando. E, se è
così, si tratta di concentrare le energie nella prospettiva
individuata assumendosi anche le inevitabili contraddizioni.
Per venire al merito specifico della tua lettera, credo che
dobbiamo tenere presenti alcuni fatti:
- nella società attuale si è determinato
un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio, dal punto
di vista economico, e sulla normazione burocratica della vita
quotidiana, dal punto di vista politico. Questo modello di relazioni,
la cosa va da sé, è proprio quello che combattiamo
ma è anche un fatto che è la situazione dentro
e contro (e noi valorizziamo ovviamente il contro) noi agiamo,
non è ininfluente, per quel che riguarda le modalità
di azione politica e sindacale che pratichiamo e le stesse forme
organizzative che ci diamo;
- questo sistema di relazioni si manifesta, inoltre, come
complessificazione dei problemi e come conseguente crescita
della specializzazione dal punto di vista dell’organizzazione
del lavoro. Evito di tediarti con considerazioni ulteriori sul
ruolo del sapere tecnico e scientifico nel processo di produzione
e di riproduzione sociale ma è evidente che, nella pratica
sindacale, qualcosa contano il diritto e la medicina del lavoro,
la conoscenza dei contratti e dell’organizzazione del
lavoro, la rete di relazioni che si è in grado di mettere
in campo;
- se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività
di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro,
ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole
del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione.
Quando parlo di lavoro mi riferisco sia alla massa di saperi
che sono utilizzati secondo una qualche forma di piano che a
una serie di attività sia contingenti che continuative
che vanno garantite.
- d’altro canto, un aspetto particolare ma tutt’altro
che secondario del lavoro sindacale è la necessità
di essere punto di riferimento per le persone che si trovano,
per qualche ragione, in particolare difficoltà sul lavoro,
in particolare, ma non solo. Un lavoratore licenziato, sospeso
o sanzionato, ad esempio, ha, di norma, assoluto bisogno di
una tutela legale se, come capita sin troppo spesso, a livello
aziendale non si danno le condizioni per mettere in atto un’efficace
difesa collettiva;
- se consideri, poi, che la frantumazione delle grandi
aggregazioni di forza lavoro, la riduzione della dimensione
media delle imprese, la precarizzazione, la presenza di una
robusta quota di lavoratori immigrati aumentano massicciamente
la quota di lavoratori isolati rispetto a tradizionali collettivi
aziendali, mi riconoscerai che l’esigenza di questo tipo
di tutela, che è un segno di debolezza collettiva, pare
difficilmente eludibile per un soggetto sindacale. Per fare
un solo esempio, non ritengo casuale che i lavoratori immigrati
tendano a iscriversi a un sindacato, quando se ne danno le condizioni,
più dei lavoratori italiani.
Detto ciò, non solo ritengo che si debba riconoscere
che la pratica sindacale libertaria ha degli aspetti contraddittori
e, in particolare, che il mio articolo può apparire,
o essere, per certi versi, troppo interno di queste contraddizioni
ma anche e soprattutto che si debba ragionare collettivamente
sul come affrontarli. In particolare, credo che la tua lettera
segnali la necessità di superare la divisione specialistica
del lavoro che rischiamo di assumere acriticamente ma, e rigiro
fraternamente la frittata, come farlo senza cadere in forme
di pasticcioneria che, e lo so bene, tu sei il primo a considerare
improponibili?
Con altrettanto affetto
Cosimo Scarinzi
Indubbio
valore simbolico
Per
ragioni contingenti che non hanno, di per sé, un
particolare interesse, mi è capitato questo Primo
Maggio di partecipare, al mattino a Torino, alla manifestazione,
diciamo così, tradizionale e, nel pomeriggio, a
Milano, alla May Day Parade.
Si è, trattato di un’esperienza, per certi
versi, faticosa che ha, però, avuto il pregio di
permettermi di porre a confronto in maniera diretta due
modi diversi di vivere una scadenza che ha un indubbio
valore simbolico.
A Torino, si è svolta la tradizionale manifestazione
che vede la sinistra non istituzionale – e anche
quella semi istituzionale, per dirlo con più franchezza
che discrezione – sfilare alla fine del tradizionale
corteo dopo la sinistra – e il centro che guarda
a sinistra – parlamentare e CGIL-CISL-UIL ed avendo
alle spalle solo i quadrati battaglioni di Lotta Comunista.
Un occasione per diffondere del materiale critico verso
il governo, i padroni e la sinistra istituzionale, per
vedere degli amici, per affermare, in qualche modo, le
proprie posizioni e, in conclusione, per ritrovarsi nelle
piole che abbondano nei dintorni della città a
fare dei pranzi gradevoli che si concludono con faticose
digestioni.
Per evitare equivoci, una pratica sociale che può
essere soddisfacente e persino utile a fini politici ma
che sconta, sarebbe sbagliato nasconderlo, una certa ritualità.
È, infatti, evidente ai più che c’è
una sinistra istituzionale ed una radicale, una autoritaria
ed una libertaria e le stesse divergenze che le caratterizzano
non sono certo una novità e che il ribadirle il
Primo Maggio non è certo sbagliato ma non è
particolarmente efficace.
A Milano, c’è stata la quarta edizione della
May Day Parade, organizzata come una scadenza esplicitamente
alternativa al Primo Maggio di CGIL-CISL-UIL come momento
di aggregazione e mobilitazione dei lavoratori precari
dal sindacalismo alternativo, CUB, Sin Cobas, Confederazione
Cobas, USI ecc.) e da una rete di collettivi e raggruppamenti
di precari fra i quali i più noti sono i Chainworker.
Successo
crescente
Si tratta di un’iniziativa nata nel 2001 sulla base
di un accordo fra CUB e Chainworker e che ha visto un
successo crescente nonostante i dubbi iniziali sulla possibilità
di costruire una scadenza seccamente alternativa a quelle
tradizionali anche nell’orario (le tre del pomeriggio)
e che, dopo il notevolissimo successo del 2003, ha visto
aderire sia i sindacati di base precedentemente assenti
come il Sin Cobas e la Confederazione Cobas che crescere
l’interesse da parte di forze politiche (PRC, Verdi,
Sinistra DS ecc.) e sindacali (in particolare la FIOM
che non ha formalmente aderito perché il documento
di indizione era decisamente critico verso la politica
concertativa della CGIL ma è stata presente con
un suo spezzone in coda al corteo) precedentemente non
interessate all’iniziativa.
Si potrebbe, un po’ maliziosamente, dire “piatto
ricco, mi ci ficco” o, all’americana “niente
ha successo come il successo!”.
Una valutazione del corteo è, allo stesso tempo,
facile e difficile. La partecipazione in primo luogo,
io non sono molto abile nel fare i conti ma i compagni
più pessimisti valutavano che vi fossero dalle
40.000 alle 50.000 persone, i più ottimisti oltre
100.000.
Al di là dei numeri, il dato politico, quello che
ritengo sia più interessante è che è
stato uno straordinario successo sia per il sindacalismo
alternativo, in primo luogo la CUB ma anche altre organizzazioni,
che per il movimento dei precari.
La scenografia garantita da una serie di carri variamente
decorati, la vivacità della partecipazione, le
musiche, la massa di giovani presenti hanno garantito
un’allegria, una capacità di comunicazione
e di coinvolgimento dei partecipanti che alle tradizionali
manifestazioni del Primo maggio mancano ormai da molto
tempo.
Nei fatti, la May Day Parade oramai funziona nel senso
che ha realizzato il suo primo obiettivo e cioè
porre al centro del dibattito politico e sindacale la
questione della precarizzazione del lavoro, della distruzione
dei diritti, dello svilupparsi di un robusto segmento
della working class si inizia a mobilitare per il diritto
al salario al reddito, alla casa, ai trasporti, alla formazione.
E lo fa con modalità comunicative sostanzialmente
diverse non solo rispetto a quelle che caratterizzano
i sindacati di stato – e in questo caso vi è
un, evidente problema di contenuti politici visto che
la sinistra parlamentare e sindacale ha precise responsabilità
nella distruzione dei diritti – ma anche rispetto
al sindacalismo alternativo il cui tessuto militante,
per ragioni di età e di pratica quotidiana, deve
misurarsi con pratiche, linguaggi, modalità relazionali
ai quali non sempre è abituato.
Nella May Day Parade, in altri termini, si incontrano
due generazioni politiche: quella dei militanti sindacali
formatisi nelle lotte aziendali, nell’esperienza
della nuova sinistra degli anni ‘70, nella capacità
di tenere negli anni dell’offensiva padronale e
quella dei giovani lavoratori che nascono già precarizzati,
che hanno una memoria assai frammentaria delle lotte passate,
che sovente hanno difficoltà e, magari, scarsa
disponibilità a organizzarsi sul posto ci lavoro
ma che si aggregano nei centri sociali e, comunque, sul
territorio.
Superare
i limiti categoriali
Si tratta, a mio avviso, di un incontro importante non
perché sia facile, al contrario, ma perché
è necessario se vogliamo, contemporaneamente porre
il sindacalismo alternativo di fronte alla necessità
di superare i suoi limiti categoriali ed aziendali e il
movimento dei precari di fronte a quella di costruire
rapporti di forza sui posti di lavoro per piegare l’attuale
strapotere padronale.
In questa prospettiva, la differenza di stile fra militanti
sindacali e giovani precari nel modo di porsi nel corteo
appare appieno come una pluralità che non significa,
necessariamente, separatezza ed, anzi, mi scuso per la
banalità, può essere una ricchezza per il
movimento.
Naturalmente molti nodi politici sono tutti da sciogliere,
come si è già detto, settori della sinistra
istituzionale alla ricerca di voti e di radicamento operano
già per riportare all’ovile le pecorelle
smarrite, la rivendicazione del salario garantito può
facilmente ridare spazio a pratiche lobbystiche assolutamente
negative (la presenza, ai margini del corteo – è
vero – ingombrante di Salvi del correntone DS, di
Cento dei Verdi, di spezzoni del PRC qualcosa vuole ben
dire), c’è il rischio di un eccesso di spettacolarità
incapace di tradursi in azione quotidiana sui posti di
lavoro e nelle singole località (ed è quello
che temo di più).
D’altro canto, un movimento sociale reale non può
che essere attraversato da diverse posizioni e da diverse
proposte e quella che valorizza l’autorganizzazione
sociale e l’azione diretta è, a mio avviso,
molto vicina alla sensibilità diffusa delle donne
e degli uomini che hanno dato vita alla scadenza della
May Day Parade.
È, in sintesi, un problema dei movimenti degli
ultimi anni lo scarto fra alcuni momenti di mobilitazione
e di aggregazione anche straordinari e la frantumazione
individuale e di gruppo, al di fuori delle giornate campali,
delle persone che li animano.
È, però, anche importante considerare che
l’immaginario sociale non è affatto irrilevante
anche per lo sviluppo delle singole lotte e che l’affermarsi
forte di un’identità dei precari è
una precondizione favorevole anche per le singole vertenze
non fosse altro che perché favorisce il formarsi
di una nuova generazione di militanti sociali.
Cosimo Scarinzi
|
Per
saperne di più sul sindacalismo di base
- CUB (Confederazione Unitaria di Base)
- Il più consistente, dal punto di vista associativo,
dei sindacati alternativi. È presente in tutti
i comparti, in misura maggiore o minore.
È organizzata per sindacati di comparto, ne ricordiamo
alcuni:
CUB Trasporti (ferrovie, autoferrotranvieri, aeroportuali
ecc)
CUB Scuola
CUB Pensionati
FLMUniti Metalmeccanici
Flaica Terziario privato
RdB Pubblico Impiego, cooperative e servizi
Sallca Bancari
Le RdB, per la loro storia, hanno un loro assetto semiconfederale.
Vi sono diverse sovrapposizione derivanti dalla storia
della CUB, sia la Flaica che le RdB organizzano i lavoratori
dei servizi, nei trasporti gli ambiti di intervento
dei sindacati di settore sono definiti in maniera provvisoria
ecc.
- Confederazione Cobas
- Presente soprattutto nella scuola nella quale è
il principale sindacato alternativo ma con insediamenti
in altri comparti
- Sin Cobas
- Presente soprattutto nel comparto industriale. È,
fra i sindacati alternativi, il più vicino alla
FIOM
- Slai Cobas
- Presente soprattutto nel settore privato. Ha un punto
di forza all’ATM di Milano.
Tende a porsi come soggetto politico/sindacale.
- Unicobas
- Presente soprattutto nella scuola ma con insediamenti
in altri comparti
- USI AIT (Unione Sindacale Italiana –
Association Internationale des Travailleurs)
- Il tradizionale sindacato di orientamento libertario.
Ha una consistente presenza nel settore della sanità
a Milano.
|
|