Il
pensiero di Bakunin è sembrato, ai critici e agli studiosi
che si sono interessati ad esso, inseparabile dalla sua attività
pratica rivoluzionaria.
Effettivamente pensiero ed azione sono, in Bakunin, la stessa
cosa.
Abbiamo voluto però, di proposito, operare artificialmente
una separazione fra essi allo scopo di mettere in risalto il
pensiero, che è stato finora considerato in modo subalterno
all’azione.
Quest’ultima è apparsa assai più “appariscente”
tanto da offuscarlo rendendo più ardua e problematica
la sua “lettura”. Pochi pensatori infatti sono stati
così mal compresi e sottovalutati come Bakunin.
Lasciamo da parte ovviamente gli anarchici ed i libertari in
genere, sebbene anche questi ultimi abbiano trascurato a volte
aspetti e contenuti fondamentali della sua dottrina; in genere
però possiamo osservare che fino a pochi anni fa nessuno
aveva iniziato uno studio sistematico del suo pensiero.
È vero che esso riveste nell’aspetto formale
un carattere non sistematico, a volte confuso (mai contraddittorio),
e che solo una lettura attenta di tutta la sua opera può
far emergere uno sviluppo logico e una sostanziale unità.
Lo stesso Nettlau, il più grande biografo di Bakunin,
scrive “…Bakunin ha pubblicato, in varie fasi della
sua vita, delle opere spesso di un carattere transitorio ma
di cui l’insieme, studiato secondo l’ordine
cronologico, permette una esposizione, particolarmente caratteristica,
dello svolgimento delle idee libertarie, idee che svolgendosi
naturalmente, hanno costruito il pensiero anarchico… Bakunin
non è mai arrivato, non solamente a pubblicare ma nemmeno
ad esporre in maniera definitiva, l’insieme delle sue
idee; egli non ha costruito il suo sistema, se vogliamo
servirci di questo termine che si adatta a delle interpretazioni,
o a delle non-interpretazioni, così diverse. A che cosa
dobbiamo attribuire questo carattere incompleto delle opere
bakuniniane? Bakunin quando non si trattava di questioni di
attualità, non conosceva l’arte della composizione.
Se si leggono i suoi manoscritti, si vede come da una lettera
egli arriva ad una bozza, da una bozza ad un volume. Egli fa
le sue premesse, suddivide il soggetto e arriva raramente a
trattare più di uno o due punti che si era imposto di
svolgere…”.
Questa mancanza di compiutezza formale ha fatto scrivere
a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica, che il
pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico,
sostanzialmente poco originale. Egli sarebbe stato in ultima
analisi un grande assimilatore con poca originalità.
I critici francesi lo vogliono pedissequamente copiatore di
Proudhon, quelli italiani di Pisacane, quelli russi di Herzen,
e tutto questo, accompagnato da una lettura superficiale, ha
fatto del pensiero bakuniniano uno scempio difficilmente eguagliabile.
Dobbiamo tener presente inoltre che tutte le calunnie, infamie,
falsità sparse sul suo conto da banditi di varia estrazione,
hanno contribuito in modo determinante ad “influenzare”
negativamente la lettura delle sue opere. Ma si sa che questi
tentativi goffi e nani, nella loro luce sinistra, non hanno
fatto altro che mettere maggiormente in risalto, agli occhi
di tutti i sinceri rivoluzionari, la statura intellettuale,
morale e politica, già straordinariamente gigantesca,
di Bakunin.
Per ovvie ragioni di spazio abbiamo preferito mettere in questa
piccola antologia dei brani raggruppati secondo temi comuni
anche se essi appartengono a opere diverse. Questo perché
ci permette di cogliere il carattere di stupefacente attualità
che è presente in tali brani. Liberati in questo modo
dalle motivazioni storico-contingenti che li videro sorgere,
essi ci possono indicare oggi più che mai la traccia
teorica per sciogliere alcuni nodi riguardanti la comprensione
della natura e della funzione di ogni società
di sfruttamento.
Vogliamo così abbozzare una sintesi del pensiero bakuniniano
senza avere la pretesa di ricomporre interamente la sua unità,
anche perché pensiamo che se essa è mancata, come
giustamente ha rilevato il Nettlau, ciò nulla toglie
al suo valore teorico.
Questa mancanza di sistematicità rappresenta, a nostro
avviso, proprio tutti i limiti ma anche tutta la grandezza del
suo pensiero: grazie ad essa Bakunin infatti ha elaborato alcune
delle sue intuizioni più folgoranti e geniali.
I brani che abbiamo scelto si riferiscono all’ultimo periodo
della sua evoluzione teorica, questo perché ci permette
di cogliere più completamente i caratteri di essa.
Per inciso possiamo dire che questa evoluzione si divide grosso
modo in due periodi. Il primo comprende gli anni della sua formazione
hegeliana in Germania, la conoscenza del socialismo francese
e di Proudhon, e si conclude, dopo la prigionia, nel 1861; il
secondo, che si può dividere in due parti, comprende
gli anni dal 1861 alla morte. La prima parte va dal 1861 al
1867, periodo in cui Bakunin passa rapidamente dalle posizioni
democratiche rivoluzionarie, che però avevano sempre
avuto venature libertarie, alle posizioni socialiste anarchiche;
la seconda parte va da queste posizioni alla formulazione della
sua dottrina specificatamente anarchica.
Abbiamo detto che i brani scelti appartengono all’ultimo
periodo dell’evoluzione di Bakunin. Ora però vogliamo
aggiungere che essi si riferiscono ai temi propriamente specifici
della sua dottrina. Cercheremo quindi di sintetizzarli brevemente.
Innanzi tutto lo Stato, che per Bakunin rappresenta il nemico
numero uno degli sfruttati. Lo Stato occupa nel pensiero bakuniniano
il posto centrale, nel senso che qualsiasi discorso strategico
per la liberazione degli oppressi, passa inevitabilmente per
la sua immediata distruzione.
Bakunin comprese e spiegò che questa macchina di sfruttamento
ha una propria autonomia e che la sua costituzione, sotto qualsiasi
nuova forma, ricomporrà inevitabilmente la disuguaglianza
sociale. Lo Stato è per natura, dice Bakunin, una struttura
gerarchica che sviluppa necessariamente l’esercizio del
governo da parte di una minoranza sulla massa del popolo. Ma
“sfruttare e governare”, dice Bakunin in Dio
e lo Stato, sono la stessa cosa.
Inoltre l’esistenza di esso genera una ideologia che lo
giustifica sul piano storico. Per lo Stato borghese, essa è
stata la religione cristiana e la sua chiesa, per lo “Stato
popolare” sarà una nuova “teologia politica”
a sorreggere la costituzione dei nuovi privilegi. Cambierà
l’oggetto di tale religione, non la sua funzione.
Sviluppando tale prospettiva Bakunin arriva così a formulare
alcune intuizioni sulla funzione dello Stato in rapporto
alla “lotta di classe”. Se infatti la “lotta
di classe” non si estende a tutte le masse sfruttate,
essa porta alla formazione di una élite, che
finirà con l’utilizzare l’energia proveniente
“dal basso”, convogliandola per i propri scopi,
che da quel momento diverranno diversi ed opposti a quelli degli
sfruttati. In questo modo Bakunin anticiperà con cento
anni la formazione della nuova classe dominante tecnoburocratica
nata appunto dalla “testa” del movimento operaio
e che, in nome di esso, si impadronirà della
macchina statale e delle sue funzioni dominanti. Alla religione
cristiana verrà sostituita la nuova “teologia politica”
giustificante il nuovo Stato e il nuovo dominio: il marxismo.
Bakunin, a differenza dei marxisti, non parlerà mai di
“lotta di classe”, ma di lotta popolare. Tale linguaggio
spiega per l’appunto un altro tema caro alla sua dottrina:
l’alleanza operai-contadini. Possiamo anzi dire che esso
sia stato uno dei punti in cui Bakunin ha espresso con maggior
vigore la sua strategia di lotta. Mentre per i marxisti le masse
contadine dovevano seguire la strategia della classe operaia,
per Bakunin esse erano e dovevano restare in una posizione di
parità. E questo per due motivi. Il primo si riferiva
al fatto che la lotta della classe operaia separata da quella
contadina, avrebbe favorito la logica del capitalismo industriale
aumentando il divario città-campagna, isolando maggiormente
il movimento operaio dalla lotta generale degli sfruttati. Il
secondo era che tale lotta non doveva perdere il carattere storico
che gli sfruttati gli avevano assegnato: la lotta sociale. Il
termine “lotta sociale” era diventato necessario
nel linguaggio bakuniniano; esso comprendeva anche il senso
rivoluzionario di lotta politica.
La differenza di linguaggio rispetto ai marxisti nascondeva
dunque una questione di fondo. Essa riguardava non solo la diversa
interpretazione del significato storico della Prima Internazionale,
ma il significato, la funzione e il fine
della lotta generale di tutti gli sfruttati. Perché tale
lotta non costituisse trampolino di lancio di una nuova classe
per la conquista del potere, cambiando solamente la forma dello
sfruttamento, occorreva una lotta generale portata avanti contemporaneamente
da tutti gli sfruttati, senza una pattuglia d’avanguardia,
com’era invece negli intendimenti marxisti.
Non crediamo di esagerare dicendo che l’aver scelto la
strategia marxista, ha comportato in questi cento anni, per
il movimento operaio, le sconfitte più terribili. Ovunque
si può vedere alla radice di tali sconfitte l’isolamento
della classe operaia rispetto alle masse contadine, e dove tale
lotta è stata “vittoriosa”, l’affermazione
di una nuova classe dominante (vedi la Russia e gli altri paesi
“socialisti”).
Tutto questo fu compreso e anticipato da Bakunin, ma tale comprensione
non sarebbe stata completa se Bakunin non ci avesse lasciato
i suoi articoli sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale.
Essi ci indicano la traccia principale della teoria bakuninista:
l’abolizione delle classi attraverso l’abolizione
della divisione del lavoro. Divisione tra il lavoro intellettuale-direttivo
dominante e il lavoro manuale-esecutivo dominato. Questa divisione,
presente in ogni società di sfruttamento, è la
ragione prima della disuguaglianza, ci dice Bakunin, e il supporto
necessario dello Stato perché sistema gerarchico e piramidale
analogo all’organizzazione diseguale del lavoro.
In questo modo la libertà materiale di tutti gli uomini
passa attraverso l’abolizione dello Stato, vale a dire
la distruzione dell’organizzazione diseguale del lavoro;
ciò comporta l’abolizione della divisione del lavoro
come causa della formazione delle classi. Libertà e uguaglianza,
ecco i termini della dottrina di Bakunin, ma in questo senso:
che non si può ottenere l’uno senza ottenere contemporaneamente
l’altro.
Giampietro “Nico” Berti
Contro
lo Stato
Ho detto che lo Stato, per il suo stesso principio, è
un immenso cimitero dove tutte le manifestazioni della vita
individuale e locale, tutti gli interessi delle parti, l’insieme
delle quali costituisce appunto la società, vengono a
sacrificarsi, a morire, a sotterrarsi. È l’altare
su cui la libertà reale e il benessere dei popoli sono
immolati alla “grandeur” politica; e più
questo sacrificio è completo, più lo Stato è
perfetto. Ne concludo, ed è la mia convinzione, che l’impero
russo è lo Stato per eccellenza, lo Stato senza retorica
e senza mezzi termini, lo Stato più perfetto d’Europa.
Viceversa, tutti gli Stati, nei quali i popoli possono ancora
respirare, sono, da un punto di vista ideale, Stati incompleti,
così come tutte le altre Chiese, in confronto a quella
cattolica, sono Chiese mancate. (…).
Ho detto che lo Stato è un’astrazione che divora
la vita popolare; ma perché un’astrazione possa
nascere, svilupparsi e continuare ad esistere nel mondo reale,
bisogna che ci sia un aggregato collettivo reale che sia interessato
alla sua esistenza. Non può esserlo la grande massa popolare,
dal momento che essa ne è proprio la vittima: deve trattarsi
di un gruppo privilegiato, il gruppo sacerdotale dello Stato,
la classe governante e possidente, che è, nello Stato,
ciò che nella Chiesa è la classe sacerdotale della
religione, cioè i preti.
Infatti, che cosa notiamo noi in tutta la storia? Lo Stato è
sempre rimasto il patrimonio di una qualunque classe privilegiata:
classe sacerdotale, classe nobiliare, classe borghese, infine
classe burocratica, quando, essendosi esaurite tutte le altre
classi, lo Stato cade o, secondo di come lo si vuole interpretare,
si innalza allo stato della macchina; ma occorre assolutamente
per la sopravvivenza dello Stato che ci sia una classe privilegiata
qualunque che abbia interesse alla sua esistenza. Ed è
appunto l’interesse solidale di questa classe privilegiata
che si chiama patriottismo.
(…). Abbiamo già dichiarato più d’una
volta la nostra viva ripugnanza per le teorie di Lassalle e
di Marx che raccomandano ai lavoratori se non proprio come supremo
ideale almeno come immediato e principale obiettivo la fondazione
di uno Stato popolare che, come loro stessi hanno spiegato,
non sarebbe altro che “il proletariato elevato al
rango di casta dominante”.
Se il proletariato, ci si chiede, diverrà la casta dominante
sopra chi dominerà? Ciò significa che rimarrà
ancora un altro proletariato sottomesso a questa nuova dominazione,
a questo nuovo Stato. È questo il caso, per esempio,
della plebaglia contadina che, come è noto, non gode
della benevolenza dei marxisti e che, trovandosi al grado più
basso di cultura, sarà evidentemente governata dal proletariato
delle città e delle fabbriche; oppure, se consideriamo
la questione dal punto di vista nazionale, prendendo gli slavi
rispetto ai tedeschi, i primi per lo stesso motivo staranno,
nei confronti del proletariato tedesco vittorioso, nella stessa
servile soggezione in cui ora questi ultimi si trovano nei confronti
della loro borghesia.
Dove c’è lo Stato c’è inevitabilmente
la dominazione e di conseguenza la schiavitù; lo Stato
senza la schiavitù, aperta o mascherata, è inconcepibile;
ecco perché siamo nemici dello Stato.
Che cosa vuol dire il proletariato organizzato in casta dominante?
È mai possibile che l’intero proletariato si ponga
alla testa del governo? I tedeschi sono circa 40 milioni. È
forse possibile che tutti questi 40 milioni divengano membri
del governo? Che tutto il popolo governi e che non ci siano
governati? In questo caso non ci sarà governo, non ci
sarà Stato; ma se ci sarà uno Stato ci saranno
governati, ci saranno schiavi.
Questo dilemma è risolto semplicisticamente nella teoria
marxiana. Con governo popolare essi intendono il governo del
popolo da parte di un piccolo numero di rappresentanti eletti
dal popolo.
Così da qualsiasi parte si esamini questa questione si
arriva sempre allo stesso spiacevole risultato: al governo dell’immensa
maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata.
Ma questa minoranza, ci dicono i marxiani, sarà di lavoratori.
Sì, certamente, di ex lavoratori i quali non
appena divenuti governanti o rappresentanti del popolo non saranno
più lavoratori e guarderanno il mondo del lavoro manuale
dall’alto dello Stato; non rappresenteranno più
da quel momento il popolo ma se stessi e le proprie pretese
di voler governare il popolo. Chi può dubitare di ciò
non sa niente della natura umana.
Ma questi eletti saranno socialisti ardenti, convinti e per
di più scientifici. Queste parole “socialisti
scientifici”, “socialismo scientifico”
che s’incontrano costantemente nelle opere e nei discorsi
dei lassalliani e dei marxiani provano per sé stesse
che il cosiddetto Stato popolare non sarà nient’altro
che il governo dispotico della massa del popolo da parte di
una aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o pseudoscienziati.
Il popolo, dato che non è istruito, sarà completamente
esonerato dalle preoccupazioni di governo e sarà incluso
in blocco nella mandria dei governati. Che bella liberazione!
I marxiani si rendono conto di questa contraddizione e coscienti
che un governo di scienziati, il più opprimente, il più
offensivo e il più spregevole del mondo, sarà
nonostante tutte le forme democratiche una vera dittatura, si
consolano con l’idea che questa dittatura sarà
provvisoria e di breve durata. Dicono che la sua unica occupazione
e il suo unico intento sarà quello di educare e di elevare
il popolo sia economicamente che politicamente a un livello
in cui ogni governo diverrebbe ben presto inutile, e lo Stato
perdendo ogni suo carattere politico e cioè di dominazione
si trasformerà da sé in una organizzazione assolutamente
libera degli interessi economici e dei comuni.
Abbiamo qui una flagrante contraddizione. Se lo Stato fosse
veramente popolare perché sopprimerlo? E se la sua soppressione
è necessaria per l’emancipazione reale del popolo
come si osa chiamarlo popolare? Con la nostra polemica nei loro
confronti abbiamo fatto loro confessare che la libertà
o l’anarchia, vale a dire la libera organizzazione delle
masse operaie dal basso in alto, è la meta finale dell’evoluzione
sociale e che perciò ogni Stato, non escluso il loro
Stato popolare, è un giogo il che vuol dire che esso
da una parte genera il dispotismo e dall’altra la schiavitù.
(…). Essi affermano che solo la dittatura, la loro naturalmente,
può creare la libertà del popolo; rispondiamo
che nessuna dittatura può avere altro fine che quello
della propria perpetuazione e che essa è capace solo
di generare e di coltivare la schiavitù nel popolo che
la subisce; la libertà può essere creata solo
dalla libertà ovvero dalla rivolta di tutto il popolo
e della libera organizzazione dei lavoratori dal basso in alto.
(da Stato e Anarchia, 1873)
Bakunin
e Malatesta in un disegno di Gabriele Roveda,
pubblicato
come copertina di "A" n. 76 dell'agosto-settembre
1979
Spontaneità
e dittatura
Noi rivoluzionari anarchici, fautori dell’istruzione
generale del popolo, dell’emancipazione e del più
vasto sviluppo della vita sociale e di conseguenza nemici dello
Stato e di ogni statalizzazione, affermiamo, in opposizione
a tutti i metafisici, ai positivisti e a tutti gli adoratori
scienziati o no della scienza deificata, che la vita naturale
precede sempre il pensiero, il quale è solo una delle
sue funzioni, ma non sarà mai il risultato del pensiero,
che essa si sviluppa a partire dalla sua propria insondabile
profondità attraverso una successione di fatti diversi
e mai con una serie di riflessi astratti e che questi ultimi,
prodotti sempre dalla vita, che a sua volta non ne è
mai prodotta, indicano soltanto come pietre miliari la sua direzione
e le varie fasi della sua evoluzione propria e indipendente.
In conformità con queste convinzioni noi non solo non
abbiamo l’intenzione né la minima velleità
d’imporre al nostro popolo, o a qualunque altro popolo,
un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri
o inventato da noi stessi ma, persuasi che le masse popolari
portano in sé stesse, negli istinti più o meno
sviluppati dalla loro storia, nelle loro necessità quotidiane
e nelle loro aspirazioni coscienti o inconsce, tutti gli elementi
della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo
ideale nel popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni
governo deve, per la sua medesima essenza e per la sua posizione
fuori del popolo o sopra di esso, deve necessariamente mirare
a subordinarlo a un’organizzazione e a fini che gli sono
estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni
potere di Stato, nemici di un’organizzazione di Stato
in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere
felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso in alto
per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere
e al di fuori di ogni tutela ufficiale, ma non fuori delle influenze
diverse e ugualmente libere di uomini e di partiti, creerà
esso stesso la propria vita.
Queste sono le convinzioni dei socialisti rivoluzionari e per
questo ci chiamano anarchici. Noi non protestiamo contro questa
definizione perché siamo realmente nemici di ogni autorità,
perché sappiamo che il potere corrompe sia coloro che
ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto
la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi
e avidi, in sfruttatori della società in favore della
propria persona o casta, gli altri in schiavi.
Gli idealisti di ogni risma, metafisici, positivisti fautori
della supremazia della scienza sulla vita, rivoluzionari dottrinari,
tutti assieme con lo stesso ardore sebbene con diversi argomenti,
difendono l’idea dello Stato e del potere dello Stato
riconoscendo in questo del tutto logicamente l’unica
salvezza, secondo loro, della società. Del tutto
logicamente perché una volta adottato il principio
fondamentale, secondo noi completamente falso, che il pensiero
precede la vita e l’astratta teoria la pratica sociale,
e che perciò la scienza sociale dev’essere il punto
di partenza delle riorganizzazioni e delle rivoluzioni sociali,
essi sono necessariamente costretti a concludere che, dato che
il pensiero, la teoria, la scienza, almeno per ora, costituiscono
il patrimonio di una minoranza questa minoranza deve quindi
dirigere la vita sociale non solo promuovendo ma anche dirigendo
tutti i movimenti nazionali e che l’indomani della rivoluzione
la nuova organizzazione della società dovrà farsi
non per la via della libera unione dal basso in alto delle associazioni,
dei comuni, dei cantoni, delle regioni, in armonia con i bisogni
e con gli istinti del popolo ma unicamente per mezzo dell’autorità
dittatoriale di quella minoranza di scienziati che pretende
di rappresentare la volontà collettiva.
È sulla finzione di questa pretesa rappresentanza del
popolo e sul fatto concreto del governo delle masse popolari
da parte di un pugno insignificante di privilegiati, eletti
o no dalle moltitudini costrette alle elezioni e che non sanno
neanche perché e per chi votano; è sopra questa
concezione astratta e fittizia di ciò che s’immagina
essere pensiero e volontà di tutto il popolo, e della
quale il popolo reale e vivente non ha la più pallida
idea, che sono basate in ugual misura e la teoria dello Stato
e la teoria della cosiddetta dittatura rivoluzionaria.
(da Stato e Anarchia, 1873)
La
Comune di Parigi
Varlin e tutti i suoi amici, al pari di tutti i socialisti
sinceri e come in generale tutti i lavoratori nati e cresciuti
fra il popolo, dividevano al più alto grado questa prevenzione
perfettamente legittima contro la dominazione esercitata dalle
individualità superiori; e siccome innanzi tutto erano
giusti, essi volgevano questa prevenzione, questa sfiducia,
tanto contro sé stessi quanto contro gli altri.
Contrariamente a questo pensiero dei comunisti autoritari, secondo
me tutt’affatto erroneo, che una rivoluzione sociale possa
essere decretata e organizzata sia da una dittatura, sia da
un’assemblea costituente, risultante d’una rivoluzione
politica, i nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato
ch’essa non poteva essere fatta e condotta al suo completo
sviluppo che mediante l’azione spontanea e continuata
delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari.
I nostri amici di Parigi hanno avuto mille volte ragione. Poiché,
effettivamente, quale è la testa così geniale,
o – se si vuol parlare d’una dittatura collettiva,
anche se esercitata da parecchie centinaia d’individui
dotati di facoltà superiori – quali sono i cervelli
tanto potenti, tanto vasti, per abbracciare l’infinita
molteplicità e diversità degl’interessi
reali, delle aspirazioni delle volontà, dei bisogni di
cui la somma costituisce la volontà di un popolo, capaci
di creare una organizzazione sociale che possa soddisfare tutti?
Questa organizzazione non sarà mai altro che un letto
di Procuste, sulla quale la violenza più o meno accentuata
dello Stato forzerà la disgraziata società a spegnersi.
È ciò che è avvenuto sempre fino ad ora,
ed è precisamente a questo sistema antico dell’organizzazione
obbligatoria che la rivoluzione sociale deve porre un termine,
rendendo la loro completa libertà alle masse, ai gruppi,
ai comuni, alle associazioni, agli individui medesimi, distruggendo
una volta per sempre la causa storica di tutte le violenze:
la potenza e l’esistenza stessa dello Stato. Questo deve
trascinar nella sua caduta tutte le iniquità del diritto
giuridico con tutte le menzogne dei culti diversi, poiché
questo diritto e questi culti non sono mai stati altro che la
consacrazione obbligata, tanto ideale quanto reale, di tutte
le violenze rappresentate, garantite e privilegiate dallo Stato.
È evidente che la libertà non sarà resa
al mondo umano, e che gli interessi reali della Società,
di tutti i gruppi, di tutte le organizzazioni locali, come pure
di tutti gli individui che costituiscono la società,
non potranno trovare soddisfazione vera che allorquando non
vi saranno più Stati. È evidente che tutti gli
interessi così detti generali della società che
lo Stato è incaricato di rappresentare, e che in realtà
non sono altro che la negazione generale e costante degli interessi
positivi delle regioni, dei comuni, delle associazioni e del
più gran numero di individui, assoggettati allo Stato,
costituiscono una astrazione, una finzione, una menzogna.
L’abolizione della Chiesa e dello Stato deve essere la
prima ed indispensabile condizione della liberazione reale della
società, soltanto dopo ciò essa potrà e
dovrà organizzarsi in un’altra maniera ma non dall’alto
in basso e dopo un piano ideato o sognato da qualche saggio
o da qualche sapiente, oppure per decreti lanciati da forze
dittatoriali, oppure da un’assemblea nazionale eletta
a suffragio universale. Un tale sistema, come ho già
detto, condurrebbe inevitabilmente alla creazione di un nuovo
Stato e conseguentemente alla formazione di una aristocrazia
governativa, cioè d’una intera classe non avente
nulla in comune con la massa del popolo, e che certo comincerebbe
a sfruttare e ad assoggettare questa, col pretesto della felicità
comune o per salvare lo Stato.
La futura organizzazione sociale, deve essere fatta dal basso
in alto, per mezzo della libera associazione e della federazione
dei lavoratori, prima nelle associazioni, poi nei comuni, nelle
regioni, nelle nazioni, e, finalmente, in una grande federazione
internazionale e universale. Allora soltanto si realizzerà
il vero e vivificante ordine della libertà e della felicità
generali, quell’ordine che, lontano dal rinnegare, afferma
al contrario e accomuna gli interessi degli individui e della
società.
Si dice che l’accordo e la solidarietà universale
degli interessi individuali e della società non potranno
mai realizzarsi di fatto, perché questi interessi, essendo
contraddittori, non possono bilanciarsi, né arrivare
ad una qualsiasi intesa. A tale obbiezione io risponderò
che se finora questi interessi non sono mai ed in nessun luogo
stati in mutuo accordo, ciò fu a causa dello Stato che
ha sacrificato gli interessi della maggioranza a profitto della
minoranza privilegiata. Ecco perché questa famosa incompatibilità
degli interessi individuali con quelli della società
non è altro che una frode e una menzogna politica, nata
dalla menzogna teologica, la quale immaginò la dottrina
del primo peccato, per disonorare l’uomo e per distruggere
in lui la coscienza del proprio valore. Questa stessa falsa
idea dell’antagonismo degl’interessi nacque dai
sogni della metafisica, la quale, come è noto, è
stretta parente della teologia.
(da L’impero knuto-germanico,
1871)
Max
Nettlau, biografo di Bakunin
Operai
e contadini
Con quale diritto gli operai imporrebbero ai contadini una
qualsiasi forma di governo e di organizzazione economica? Col
diritto della rivoluzione, si risponde. Ma la rivoluzione non
è più rivoluzione quando essa agisce dispoticamente,
e quando, invece di produrre la libertà nelle masse,
essa provoca la reazione nel loro seno. Il mezzo e la condizione,
se non lo scopo principale della rivoluzione, è l’annientamento
del principio dell’autorità in tutte le sue manifestazioni
possibili, è l’abolizione completa dello Stato
politico e giuridico perché lo Stato, fratello minore
della Chiesa, come Proudhon ha molto ben dimostrato, è
la consacrazione storica di tutti i dispotismi, di tutti i privilegi,
la ragione politica di tutte le servitù economiche e
sociali, l’essenza stessa e il centro di ogni reazione.
Quando, in nome della rivoluzione, si vuol istituire lo Stato,
non fosse altro che uno Stato provvisorio, si compie un’operazione
reazionaria e si lavora per il dispotismo, non per la libertà,
per l’istituzione del privilegio contro l’eguaglianza.
È chiaro come il giorno. Ma gli operai socialisti della
Francia, educati nelle tradizioni politiche dei Giacobini, non
hanno mai voluto capirlo. Ora, saranno costretti a capirlo,
per buona sorte della rivoluzione e di loro stessi. Di dove
è venuta loro questa pretesa tanto ridicola quanto arrogante,
tanto ingiusta quanto funesta, di imporre un ideale politico
e sociale a dieci milioni di contadini che non ne vogliono sapere?
Evidentemente si tratta ancora di un’eredità borghese,
un legato politico del rivoluzionarismo borghese. Quale è
il fondamento, la spiegazione, la teoria di questa pretesa?
È la reale o supposta superiorità dell’intelligenza,
dell’istruzione, in una parola della civiltà operaia
sulla civiltà delle campagne. Ma sapete che con tale
principio si possono legittimare tutte le conquiste, consacrare
tutte le oppressioni? I borghesi non hanno avuto mai altro principio
per provare la loro missione e il loro diritto di governare,
o, il che significa la stessa cosa, di sfruttare il mondo operaio.
Da nazione a nazione, così come da una classe all’altra,
questo principio fatale, che non è altro che quello dell’autorità,
spiega e afferma come un diritto tutte le invasioni e tutte
le conquiste. I tedeschi non se ne sono forse sempre serviti
per giustificare tutti i loro attentati contro la libertà
e contro l’indipendenza dei popoli slavi e per legittimare
la germanizzazione violenta e forzata? Essi dicono che è
la conquista della civiltà sulla barbarie. Fate attenzione,
i tedeschi cominciano già ad accorgersi che la civiltà
germanica, protestante, è ben superiore alla civiltà
cattolica dei popoli di razza latina in generale, e alla cultura
francese in particolare. Fate attenzione che essi non si immaginino
ben presto di avere la missione di civilizzarvi e di rendervi
felici, nella stessa maniera in cui vi immaginate di aver la
missione di civilizzare e di emancipare i vostri compatrioti,
i vostri fratelli, i contadini della Francia.
Io mi rivolterò insieme agli educandi contro tutti questi
arroganti civilizzatori, si chiamino operai o tedeschi, e, rivoltandomi
contro di loro, servirò la rivoluzione contro la reazione.
(da Lettere a un francese,
1870)
Lavoro
manuale e lavoro intellettuale
Abbiamo dimostrato che fino a quando ci saranno due o più
gradi d’istruzione per i vari strati della società,
ci saranno necessariamente delle classi, vale a dire dei privilegi
economici e politici per un piccolo numero di fortunati e la
schiavitù e la miseria per il più grande numero.
Membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori
noi vogliamo l’uguaglianza e poiché la vogliamo,
noi dobbiamo volere anche l’istruzione integrale, uguale
per tutti.
Ma se tutti sono istruiti chi vorrà lavorare? si domanda.
La nostra risposta è semplice: tutti devono lavorare
e tutti devono essere istruiti.
A questo punto si risponde spesso che questa integrazione del
lavoro industriale con il lavoro intellettuale non potrà
ottenersi che a danno dell’uno o dell’altro: i lavoratori
manuali saranno dei cattivi scienziati e gli scienziati saranno
sempre degli operai veramente meschini. Sì, nella società
attuale in cui il lavoro manuale e il lavoro dell’intelligenza
sono ambedue falsati dall’isolamento completamente artificiale
al quale sono stati entrambi condannati.
Ma noi siamo convinti che nell’uomo vivente e completo
ognuna di queste due attività, muscolare e nervosa, dev’essere
sviluppata in ugual maniera e che, lungi dal nuocersi a vicenda,
ciascuna deve sostenere, allargare e rafforzare l’altra:
la scienza dello scienziato diventerà più feconda,
più utile e più larga quando lo scienziato non
ignorerà più il lavoro manuale e il lavoro dell’operaio
istruito sarà più intelligente e quindi più
produttivo di quello dell’operaio ignorante.
Uomini completi
Ne consegue che nello stesso interesse del lavoro come pure
in quello della scienza non ci devono più essere né
operai né scienziati, ma solo degli uomini.
Si avrà questo risultato, che gli uomini i quali a causa
della loro superiore intelligenza sono oggi tratti nel mondo
esclusivo della scienza e una volta installati entro questo
mondo e cedendo alla necessità di una posizione interamente
borghese, piegano tutte le loro invenzioni all’esclusivo
profitto della classe privilegiata di cui loro stessi fan parte,
che dunque questi uomini una volta divenuti realmente solidali
con tutti, solidali non in modo figurato o solo a parole ma
di fatto, col lavoro, adatteranno altrettanto necessariamente
le scoperte e le applicazioni della scienza all’interesse
di tutti, e primamente, all’alleggerimento e alla elevazione
del lavoro, la sola base legittima e la sola reale, della società
umana.
È possibile e perfino molto probabile che nel periodo
di transizione più o meno lungo che seguirà naturalmente
la grande crisi sociale le scienze più avanzate cadranno
in maniera considerevole al di sotto del loro attuale livello;
è altrettanto indubbio che il lusso e tutte quelle cose
che costituiscono le raffinatezze della vita dovranno scomparire
per molto tempo dalla società e non potranno più
riapparire come godimenti esclusivi ma solo come un’elevazione
della vita di tutti, solo dopo che la società avrà
conquistato il necessario per tutti.
Ma questa eclissi temporanea della scienza superiore sarà
poi una disgrazia così grande? Ciò che la scienza
perderà in sublime elevatezza non sarà compensato
dall’allargamento della sua base?
Indubbiamente ci saranno meno scienziati illustri ma nello stesso
tempo ci saranno meno ignoranti. Non avremo più questi
pochi uomini che toccano i cieli ma, in compenso, milioni d’uomini
che cammineranno in modo umano sulla terra: niente semidei,
niente schiavi. I semidei e gli schiavi si umanizzeranno insieme,
gli uni discendendo un po’ gli altri salendo molto. Non
ci sarà più posto allora né per la divinizzazione
né per il disprezzo.
Tutti si daranno la mano e una volta riuniti, tutti muoveranno
con uno slancio nuovo verso nuove conquiste nella scienza come
nella vita.
Per cui anziché paventare questa eclissi della scienza,
d’altronde assolutamente momentanea, noi la invochiamo
con tutti i nostri voti perché essa avrà l’effetto
di umanizzare gli scienziati e i lavoratori manuali insieme,
di riconciliare la scienza con la vita.
E siamo convinti che una volta conquistata questa nuova base
i progressi dell’umanità supereranno in breve,
sia nella scienza che nella vita, tutto quanto abbiamo visto
sinora e tutto quel che oggi possiamo immaginare.
Le capacità individuali
Ma qui si affaccia un’altra questione: tutti gli individui
hanno uguali capacità di elevarsi allo stesso grado d’istruzione?
Immaginiamo una società organizzata secondo il sistema
più ugualitario e nella quale tutti i fanciulli abbiano
fin dalla nascita il medesimo punto di partenza sia dal punto
di vista economico e sociale che da quello politico e cioè,
assolutamente, uguale mantenimento, uguale educazione, uguale
istruzione; non ci saranno fra queste migliaia di piccoli individui
infinite differenze di energia, di tendenze naturali, di attitudini?
Eccolo il grande argomento dei nostri avversari, borghesi puri
e socialisti borghesi. Lo credono irresistibile. Proviamoci
allora di dimostrare loro il contrario. Innanzitutto con quale
diritto si riferiscono al principio delle capacità individuali?
C’è forse posto per il loro sviluppo in una società
che continui ad avere come base economica il diritto ereditario?
Evidentemente no, perché fino a quando si avrà
eredità l’avvenire dei fanciulli non sarà
mai il risultato delle loro capacità e della loro energia
individuale: sarà, prima d’ogni altra cosa, il
prodotto delle condizioni di fortuna, della ricchezza o della
miseria delle loro famiglie.
Gli ereditieri ricchi ma stupidi riceveranno un’istruzione
superiore, i fanciulli più intelligenti del proletariato
continueranno a ricevere in eredità l’ignoranza,
proprio come in pratica avviene oggi.
Non è allora un’ipocrisia parlare, non solo nell’attuale
società ma addirittura in previsione di una società
riformata che continuerebbe però sempre ad avere per
base la proprietà individuale e il diritto ereditario,
non è un’infame truffa, ripeto, parlare di diritti
individuali fondati sopra capacità individuali?
Oggi si parla tanto di libertà individuale e tuttavia
ciò che predomina non è affatto l’individuo
umano, l’individuo in generale, ma è l’individuo
privilegiato per la propria posizione sociale, è quindi
la posizione, è la classe. Che un individuo intelligente
della borghesia osi soltanto di elevarsi contro i privilegi
economici di questa classe egregia e si vedrà quanto
questi ottimi borghesi che adesso si riempiono la bocca di libertà
individuale, rispetteranno la sua!
E si viene a parlarci di capacità individuali! Ma non
vediamo ogni giorno le migliori capacità operaie e borghesi
costrette a cedere il passo e perfino a curvare la fronte davanti
alla stupidità degli ereditieri del vitello d’oro?
La libertà individuale, non privilegiata ma umana, le
capacità reali degli individui non potranno avere il
loro pieno sviluppo che nella completa uguaglianza. Solo quando
ci sarà l’uguaglianza delle condizioni di partenza
per tutti gli uomini della terra, salvando comunque i superiori
diritti della solidarietà che è e resterà
sempre la principale matrice di tutti i fatti sociali, dell’intelligenza
umana come dei beni materiali soltanto allora si potrà
dire con le buone ragioni che oggi mancano, che ogni individuo
è il figlio delle proprie opere. Da cui concludiamo che
affinché le capacità individuali riescano a prosperare
e perché non siano più impedite dal produrre i
loro frutti occorre, prima d’ogni cosa, che tutti i privilegi
individuali sia economici che politici siano fatti scomparire,
vale a dire che tutte le classi siano abolite. Occorre che scompaia
la proprietà individuale e il diritto ereditario; occorre
il trionfo economico, politico e sociale dell’uguaglianza.
Ma quando l’uguaglianza avrà trionfato e si sarà
solida-mente stabilita non ci sarà più nessuna
differenza fra le capa-cità e i gradi d’energia
dei diversi individui? Ci sarà, forse non nella misura
che ha oggi, ma indubbiamente ce ne sarà sempre.
Uguaglianza nella diversità
È una verità divenuta proverbiale, e che con ogni
probabilità non cesserà mai d’essere una
verità, che sullo stesso albero non ci siano mai due
foglie identiche. A maggior ragione ciò sarà sempre
vero riguardo agli uomini, dato che gli uomini sono esseri molto
più complessi delle foglie. Ma questa diversità
lungi dal rappresentare un danno è, al contrario, come
ha molto bene osservato il filosofo tedesco Feuerbach, una ricchezza
dell’umanità.
Grazie ad essa l’umanità diviene un tutto collettivo
in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo
che questa infinita diversità degli individui umani è
la causa stessa, la base principale della loro solidarietà,
e un argomento onnipotente a favore dell’uguaglianza.
In fondo anche nell’odierna società quando si eccettuino
due categorie d’uomini, gli uomini di genio e gli idioti,
e quando si trascurino differenze create artificialmente dall’influenza
di mille cause sociali come educazione, istruzione posizione
economica e politica che si diversificano non solo in ogni strato
della società ma quasi in ogni famiglia, si dovrà
riconoscere che dal punto di vista delle capacità intellettuali
e dell’energia morale, l’immensa maggioranza degli
uomini si rassomiglia molto o almeno che essi si equivalgono,
perché la debolezza di ognuno sotto un aspetto è
quasi sempre compensata da una forza equivalente sotto un altro
aspetto, per cui diventa impossibile dire che un uomo tolto
da questa massa sia molto superiore o inferiore all’altro.
Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identici
ma equivalenti e perciò uguali.
Non rimangono quindi a disposizione dell’argomentazione
dei nostri avversari che gli uomini di genio e gli idioti.
Si sa che l’idiotismo è una malattia fisiologica
e sociale. Non dev’essere quindi trattata nelle scuole
ma negli ospedali e abbiamo il diritto di sperare che l’introduzione
di un’igiene sociale più razionale e soprattutto
più preoccupata della salute fisica e morale degli individui,
di quella che esiste oggi, e l’organizzazione ugualitaria
della nuova società perverranno a far scomparire completamente
dalla faccia della terra questa maledetta malattia così
umiliante per la specie umana.
In quanto agli uomini di genio si deve innanzitutto osservare
che fortunatamente, o se si vuole disgraziatamente, essi non
sono mai entrati nella storia se non come rarissime eccezioni
a tutte le regole conosciute e non si organizzano le eccezioni.
Noi comunque speriamo che la società futura troverà
nell’organizzazione realmente pratica e popolare della
sua forza collettiva il mezzo per rendere meno necessari questi
grandi geni, meno schiaccianti e più realmente benefici
per tutti. Perché non si deve mai dimenticare la profonda
sentenza di Voltaire: “C’è qualcuno che ha
maggior ingegno del genio più grande, è tutta
la gente”.
Il genio popolare
Si tratta quindi soltanto di organizzare questa gente per mezzo
della più grande libertà fondata sulla più
completa uguaglianza economica, politica e sociale per cui non
si debba più aver da temere dalle velleità dittatoriali
e dall’ambizione dispotica degli uomini di genio.
In quanto a produrre uomini di genio per mezzo dell’educazione
è meglio non pensarci.
D’altra parte fra tutti gli uomini di genio conosciuti
nessuno o quasi nessuno si è rivelato tale nella sua
infanzia, nella sua adolescenza e nemmeno nella sua prima giovinezza.
Essi si sono manifestati come tali solo nella loro maturità,
e moltissimi sono stati riconosciuti solo dopo la loro morte,
mentre tanti grandi uomini mancati, proclamati uomini superiori
durante la prima giovinezza, hanno finito la loro carriera nella
più assoluta nullità.
Non sarà mai perciò nell’infanzia e nemmeno
nell’adolescenza che si potranno determinare le superiorità
e le inferiorità relative degli uomini, né il
grado delle loro capacità, né le loro inclinazioni
naturali. Tutte queste cose si manifestano e si determinano
solo con lo sviluppo degli individui e dato che ci sono nature
precoci e altre lentissime, quantunque nient’affatto inferiori
e spesso perfino superiori, nessun maestro di scuola potrà
prevedere l’avvenire e il tipo di occupazione che i fanciulli
sceglieranno una volta giunti all’età della libertà.
Ne consegue che la società prescindendo dalla differenza
reale o fittizia delle inclinazioni e delle capacità
e non disponendo di mezzi per determinare, né di diritti
per imporre la futura carriera dei fanciulli deve a tutti un’educazione
e un’istruzione assolutamente uguali.
L’istruzione di ogni grado dev’essere uguale per
tutti, di conseguenza dev’essere integrale vale a dire
che essa deve preparare ogni fanciullo dei due sessi sia alla
vita del pensiero che a quella del lavoro affinché tutti
possano diventare in ugual maniera degli uomini completi.
(da “L’Egalité”,
1869)
Sulla
storiografia bakuniniana
Il
pensiero e l’azione di Bakunin appartengono al patrimonio
storico del movimento operaio e socialista e specificatamente
al suo filone rivoluzionario e libertario, di cui Bakunin è
stato fondatore e teorico di eccezionale valore.
Chiunque abbia a cuore un minimo di obiettività storica
non può non concordare con noi su questo elementare giudizio,
anche se tale giudizio non implica ovviamente una ricostruzione
acriticamente apologetica. Esso riguarda, al contrario il modo
minimale per difendere obiettivamente la sua
azione e il suo pensiero, dallo snaturamento più inaudito
compiuto quasi sistematicamente dalla critica storica e ideologica
di varia estrazione, con la conseguenza di rendere pressoché
incomprensibile, se non agli “iniziati”, la figura
e l’opera sua.
L’aver stravolto il suo modo originario e la sua espressione
storica autentica, ha comportato nella critica una serie continua
di contraddizioni senza possibilità di armonia e di omogeneizzazione.
I “critici” sono in completo disaccordo tra loro,
dopo aver fatto di Bakunin una “caricatura storica”
che, in questo modo, credono di aver relegato definitivamente
nel campo della curiosità e dell’aneddotica sociale.
Questa “caricatura” si basa su una “ricostruzione
storica” fondata a sua volta su alcuni dati completamente
falsi e su altri manomessi ed alterati in modo decisivo.
Vediamo alcune delle storture più grossolane, per evidenziare
il grado di mistificazione storica compiuto nei confronti di
Bakunin.
Innanzitutto Bakunin è stato presentato come bugiardo
e codardo, in modo tale da rendere definitivamente compromessa
la sua figura morale di rivoluzionario. Questo giudizio si basa
sulla famosa “confessione” scritta in carcere da
Bakunin e diretta allo Zar dove egli rinnega completamente il
suo passato di rivoluzionario. I bolscevichi, che hanno scoperto
questo manoscritto negli archivi di stato, sono stati molto
lesti (e contenti) a rendere pubblica tale confessione (1),
ma non altrettanto di pubblicare un manoscritto, diretto alla
sorella Tatania, in cui Bakunin “pianificava” già
la sua liberazione, con l’intenzione di scrivere tale
confessione al solo scopo di farsi liberare (2).
Esiste poi la “versione” di Bakunin panslavista
fornitaci dai marxisti a cominciare da Marx ed Engels e che
ora finalmente è stata resa nella sua giusta dimensione:
l’abbandono del panslavismo democratico e rivoluzionario
deve essere collocato già prima del 1865 (3).
È importante far notare che in questa giusta dimensione
il “panslavismo” diventa nell’azione e negli
intendimenti di Bakunin, uno strumento al servizio della rivoluzione.
Concezione indubbiamente errata che Bakunin in seguito abbandonerà,
ma che ci permette di cogliere le vere intenzioni che l’animavano
(4) .
Inoltre, tutta una “letteratura” è fiorita
sul “personaggio” Bakunin capo “carismatico
e tenebroso” dell’Alleanza della democrazia socialista,
e sul rapporto che questi ha avuto con il nichilista Necaev.
A questo proposito farebbe testo il famoso e famigerato “Catechismo
del rivoluzionario (1830)” dove sono enunciati i principi
nichilisti e populisti e dove soprattutto, secondo i critici,
Bakunin avrebbe espresso la sua vera dottrina. Ora nessuna prova
storica, nessun documento, nessuna ragione o supposizione è
in grado di avvalorare tale giudizio, che rimane pertanto patrimonio
esclusivo dell’ignoranza storica e testimonianza decisiva
del grado di serietà scientifica che contraddistingue
tale storiografia (5).
Esiste un “Catechismo del rivoluzionario” composto
da Bakunin tra il 1864 e il 1866, parte integrante di un documento
sulla “Fratellanza rivoluzionaria”, in cui Bakunin
anticipa il suo pensiero sulla formazione delle classi e sulla
divisione del lavoro (6). Pensiero che
poi svilupperà completamente negli straordinari articoli
sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale scritti per il
giornale “L’Egalité” (7).
Chiunque può confrontare i due “Catechismi”
e verificare facilmente come il primo, scritto sicuramente da
Necaev, sia una brutta copia del secondo. Con questo non si
vuol dire che il “Catechismo” scritto da Bakunin
sia un documento anarchico, perché è viziato da
una impostazione “autoritaria” che sorregge la sua
parte organizzativa e appartiene piuttosto alla tradizione “babeufista”
tramandata da Filippo Buonarroti (impostazione, peraltro, di
cui Bakunin non si libererà mai completamente).
È interessante notare che in questo documento è
già smentita clamorosamente la critica che Engels crederà
di fare sull’approccio bakuniniano al problema dell’“eredità”.
Infatti tutta la critica marxista, da Engels in poi, ha accreditato
a Bakunin una concezione sul rapporto “struttura-sovrastruttura”
che non gli appartiene.
Bakunin sarebbe stato convinto che “le leggi sull’eredità
sono una causa e non l’effetto dei rapporti di produzione
capitalistici” e pertanto avrebbe in questo modo capovolto
i canoni elementari della scienza marxista. Ma questo è
completamente falso perché Bakunin sia nel documento
del 1866, sia nel discorso da lui pronunciato a Basilea nel
1869, sviluppa una concezione rivelatasi storicamente esatta,
per la quale “struttura” e “sovrastruttura”
sono, a seconda dei casi, determinanti e influenzabili a vicenda
(8). Ed è proprio in base a questa
impostazione che Bakunin poté sviluppare tutta la sua
teoria sullo Stato quale struttura “autonoma”, capace
cioè di riprodursi anche in società nelle quali
i “rapporti di produzione capitalistici” non esistono
più.
Giampietro
“Nico” Berti
Note
- V.
Polonskij, “M. Bakunin, storia dell’intelligencija
russa”, ed. di Stato, 1925 Mosca.
- Scriveva
Bakunin in tale manoscritto “… Quella di
poter ricominciare ciò che mi ha condotto qui
(…) ma non ho mutato niente dei miei
antichi sentimenti… al contrario li ha
resi più ardenti e assoluti che mai.”.
Vedi M. Bakunin, “Confession”, traduit du
russe par P. Brupbacher, avec une introduction de F.
Brupbacher et des annotations de M. Nettlau, Paris,
Rieder, 1932 (si può trovare alla biblioteca
Feltrinelli di Milano). È inutile aggiungere
che la dimostrazione pratica degli intendimenti
di Bakunin, consiste nei suoi 15 anni di militanza rivoluzionaria
seguiti alla fuga dalla Siberia.
- Vedi
a questo proposito F. Venturi, “Il populismo russo”
secondo volume, ed. Einaudi, 1972, Torino.
- Vedi
sempre F. Venturi, op. cit. Vedi anche W. Giusti “Il
panslavismo” Ist. di Politica Int.
- Qui
l’ultima parola, una volta per tutte l’ha
detta M. Confino “Bakunin et Necaev. Les débuts
de la rupture”, articolo che assieme ad altri
materiali si trova in “M. Bakunin et ses relations
avec S. Necaev. 1870-1872. Ecrits et materiaux”.
Introductions et annotations de A. Lehning, in “Archives
Bakunin”, Istituto Internazionale di Amsterdam,
vol. IV, Leiden, 1871. Bakunin infatti scrive a Necaev
(2 luglio 1870) “…il vostro catechismo…
e le vostre idee…”. M. Nettlau
ottant’anni fa aveva già detto che il catechismo
non poteva essere di Bakunin, perché troppo diverso
dal suo stile e dal suo linguaggio (Nettlau era un filologo)
oltre che dal suo pensiero. Ma allora molti banditi
ci risero sopra, non adesso però che è
stata ritrovata la lettera e le prove. Per Nettiau vedi
il primo volume delle “Oeuvres” di Bakunin
ed. Stock, Paris 1912, pag. XI.
- Si
trova interamente in “Stato e Anarchia”
Ed. Feltrinelli, Milano, 1968, pag. 311. Sebbene sia
datato fabbraio-marzo 1868, esso è da ritenersi
scritto prima del 1866. Vedi a questo proposito la lettera
di Bakunin a Herzen datata 19 luglio 1866. Si trova
in “Lettres à Herzen et à Ogareff
(1860-1874) a cura di Dragomanov, Paris, Perrin, 1896.
Per una ricostruzione di questo periodo vedi M. Nettlau,
Bakunin e l’Internazionale in Italia, ed. Il Risveglio,
Ginevra, 1928, pag. 55 e segg. (In questo documento
ci sono in embrione tutte le idee basi di Bakunin, questo
oltre tutto smentisce la tesi centrale del libro di
A. Romano). Vedi il punto “i” di tale documento.
- Si
trovano in “Stato e Anarchia” op. cit. pag.
267 e segg.
- Nel
documento del 1866 sopra citato è scritto “Ma
secondo una legge inerente alla società, l’inugliaglianza
di fatto produce sempre l’inuguaglianza
di diritto e l’inuguaglianza sociale
diventa necessariamente inuguaglianza politica”.
Vedi “Stato e Anarchia” op. cit., pag. 322.
Per il discorso di Basilea vedi T. Martello “Storia
dell’Internazionale”, ed. Salmin, Padova,
1873, pag. 104.
|
Per informazioni sulle altre Letture (Malatesta, Kropotkin,
Proudhon), sulla rivista anarchica “A”, sui numerosi
nostri altri prodotti collaterali
(compresi i Cd e il
Dvd legati a Fabrizio De André), contattateci e/o
visitate il nostro sito: Editrice A, cas. post. 17120, 20170
Milano, tel. 02 28 96 627, fax 02 28 00 12 71, email arivista@tin.it,
sito arivista.org.
|