Siamo tutti disertori!
Alla sera, al termine della manifestazione, si bivaccava dinanzi
alla porta di una “torteria”, che è il nome
che a Livorno danno ai posti dove si fa la “torta”,
quella che altrove si chiama farinata o cecina, un cibo a base
di ceci e olio d’oliva. Si aspettava che si liberasse
un posto per mangiare. La città era come impazzita: appena
un’ora prima il Livorno, giocando fuori casa con il Piacenza,
era entrato in serie A, ed i tifosi amaranto erano scatenati
con bandiere, clacson, canti. L’euforia, si sa, è
contagiosa, e alcuni di noi si sono uniti al casino agitando
le bandiere rosse e nere con cui avevamo partecipato al corteo
del pomeriggio. La gente rispondeva sventolando quelle della
squadra, mostrando la maglietta con il Che, ridendo a pugno
chiuso.
A Livorno anche il calcio fa parte di un’identità
in cui l’appartenenza di classe, la scelta politica non
sono disgiunte ma si mescolano in un melange inestricabile.
Certo vi si respira un clima che, in questi tempi di berlusconismo,
è difficile trovare altrove. Un clima che aveva fatto
da contorno nell’intero pomeriggio alla manifestazione
antimilitarista che aveva attraversato il centro cittadino per
concludersi con un lungo happening in piazza Magenta.
Ma facciamo un passo indietro.
Il corteo del 29 maggio, indetto dalla Federazione Anarchica
Italiana, era un appuntamento annunciato da oltre due mesi e
vi hanno aderito e partecipato gruppi, associazioni, sindacati,
centri sociali e posti occupati di area anarchica e libertaria
da tutt’Italia.
Si è trattato di una scommessa non facile, quella di
costruire un appuntamento fuori dalle logiche istituzionali
alle quali sin troppo spesso si abbevera il pacifismo nostrano.
Livorno, 29 maggio: manifestazione anarchica
organizzata dalla FAI (Federazione Anarchica Italiana)
Grandi emersioni
In quest’ultimo anno abbiamo assistito al consolidarsi
di un movimento di opposizione alla guerra potente e capriccioso
come un fiume carsico, capace di grandi emersioni in occasione
di importanti appuntamenti nazionali pompati dai media, ma pronto
ad inabissarsi nella quotidianità della lotta, incapace
di radicamento. Un tale movimento rischia, al di là della
indubbia buona fede di chi risponde agli appelli per le grandi
manifestazioni, di risultare sostanzialmente ineffettuale, incapace
di gettare realmente sabbia negli ingranaggi infernali del militarismo.
Un militarismo che sempre più si alimenta alla fonte
avvelenata di vecchi e nuovi nazionalismi, di vecchi e nuovi
fanatismi. La retorica tricolore di cui si ammanta la destra
vede una sinistra, anche quella “pacifista”, sprecarsi
in distinguo, affrettarsi a chiarire che la propria opposizione
al conflitto non può certo confondersi con posizioni
antimilitariste. D’altra parte, e con buona pace delle
tante anime belle del pacifismo arcobaleno, questa sinistra
ha sin troppe volte chiarito che ci sono guerre giuste –
quelle che si fanno quando si è al governo – e
guerre sbagliate – quelle che scoppiano quando si siede
sui banchi dell’opposizione. Tra le macerie del Kossovo
e tra quelle di Baghdad è difficile cogliere queste raffinate
differenze, sapere che la granata che ci uccide, la bomba che
ci sventra la casa, il tumore che ci rode le carni sono piombo,
acciaio e uranio umanitari. Magari con tanto di mandato dell’ONU.
A due settimane dall’appuntamento elettorale di metà
legislatura ci è voluto Bush a Roma in visita all’amico
Silvio in affanno elettorale, perché parte della sinistra,
tra mille distinguo, esitazioni e prese di distanza, scendesse
in piazza.
Una sinistra divisa tra il pacifismo in salsa ONU e nostalgici
dell’Unione Sovietica, pronti a sostenere qualunque nazionalismo,
qualunque regime purché si opponga all’impero del
male a stelle e strisce. Da un lato quelli convinti che basta
cambiare elmetto per trasformare un’occupazione militare
feroce in un’operazione di peacekeeping, cuori di melassa
affannati a non passare da anti-americani. Dall’altro
la combriccola degli anti-americanisti – al governo, all’opposizione
o extraparlamentari – che raccolgono vecchi arnesi dello
stalinismo e fascisti più o meno rispettabili. È
evidente che l’internazionalismo che ha segnato il movimento
dei lavoratori sin dalle proprie origini, tanto da esserne un
carattere distintivo imprescindibile, si è ormai dileguato
insieme al progetto di un’umanità emancipata dalla
tirannide capitalista e statale. E allora non potendo –
e non volendo – più richiamarsi all’internazionalismo
proletario, la sinistra marca in modo inequivocabile il proprio
declino dividendosi tra anti-americanisti che sventolano le
bandiere irachene e “americani” di sinistra, che
si arrabattano in distinguo inutili. O, per meglio dire, che
inutili dovrebbero essere per chi crede che la pace non si possa
scindere dalla giustizia sociale, non certo per una sinistra
il cui programma più ardito si potrebbe riassumere nello
slogan “un capitalismo dal volto meno inumano”.
A Livorno l’intento è stato quello di congiungere
l’opposizione alla guerra alla consapevolezza che le guerre
le fanno gli stati e che un pacifismo che non sappia porre all’ordine
del giorno l’abolizione degli eserciti, risulta alla fin
fine sterile, incapace di afferrare e ed estirpare le intricate
radici della guerra permanente. Una guerra le cui vittime, qui
da noi come in Iraq o Afghanistan, sono sempre gli sfruttati,
i senza potere, le donne e gli uomini che muoiono sotto le bombe
ma anche quelli che crepano nei cantieri della nostre città
e quelli che scompaiono nei nostri mari, tentando di toccare
le nostre coste.
Contro guerra e militarismo
A Livorno gli anarchici e le anarchiche hanno manifestato contro
la guerra ed il militarismo in una città, sul cui territorio
da oltre mezzo secolo i “liberatori” americani hanno
impiantato un base di morte. Da Camp Darby partono ogni settimana
i rifornimenti e le truppe diretti in Iraq. Ogni giorno nelle
centinaia di postazioni militari, aeroporti, poligoni di tiro,
caserme del Bel Paese si amplifica la logica di morte e sopraffazione.
Contro questa logica siamo scesi in piazza, contro questa logica
il nostro impegno è sempre stato costante sia nei tempi
bui della guerra permanente, sia in quelli della pace armata.
Assediare i signori della guerra ogni volta che si riuniscono
o vengono, come Bush, in vista nel nostro Paese è giusto,
per ragioni che afferiscono alla dimensione etica del nostro
essere e voler essere uomini e donne liberi, alla nostra convinzione
che il mondo in cui vorremmo vivere non può tollerare
che i bambini muoiano in nome della libertà. Ma non basta.
Un assedio, per essere efficace deve durare nel tempo, circondando
il militarismo sul nostro territorio, le fabbriche dove si costruiscono
ordigni micidiali, le basi dove si addestrano gli assassini,
le caserme ed i porti che con il loro filo spinato incidono
le città, le campagne, gli arenili.
Con questo spirito diverse migliaia di anarchici e libertari
hanno attraversato il centro di Livorno in un corteo vivace
e determinato, in cui era chiara la volontà di aprire
un canale comunicativo con la città, spiegando sia a
parole sia con piccole azioni simboliche il senso della nostra
lotta, la necessità dell’antimilitarismo. E Livorno,
come sempre, ha risposto magnificamente. Ad un certo punto da
una finestra sono partiti applausi e petali di rose e, lungo
la strada, la gente si fermava incuriosita e per nulla intimorita
dall’apparato poliziesco che ci tallonava.
Alla partenza alcuni compagni hanno aperto due striscioni antifascisti
di fronte alla blindatissima sede del comitato elettorale del
nazionalalleato Altero Matteoli, mentre, poco più in
là, di fronte al monumento al partigiano, un compagno
ricordava dal camion gli scontri che all’inizio degli
anni ’60 avevano visto la Livorno proletaria opporsi all’arroganza
fascista.
I numerosi bancomat sul percorso della manifestazione sono stati
simbolicamente sigillati con cartelli riportanti la scritta
“Contro la guerra e chi la finanzia – No alle banche
armate”. Ho visto gente fermarsi per leggere il cartello,
altri avvicinarsi per porre qualche quesito in clima di attenta
partecipazione.
«Fiati
sprecati» in corteo
Lungo tutto il percorso ci sono state brevi soste per comizi
volanti mentre la banda dei “Fiati sprecati” suonava
attirando l’attenzione dei numerosi passanti. Di fronte
al monumento “Ai quattro mori” è stato collocato
uno striscione con la scritta “Spezzare le catene del
razzismo” mentre qualcuno poneva dei cappucci neri sulle
teste delle statue: si è voluto in tal modo mostrare
come la guerra interna contro i migranti non è molto
diversa da quella esterna che colpisce persone la cui unica
colpa è l’essere nate nel posto sbagliato.
Noi non ci stiamo
Al termine della manifestazione gli interventi dal palco, tra
cui quelli di Tiziano Antonelli della Federazione Anarchica
Livornese e di Giordano Cotichelli, che parlava per la CdC della
FAI, sono stati intervallati da performance teatrali –
il gruppo del Perlanera occupato di Alessandria – e musica
– A band, Joe Fallisi e Alessio Lega.
Sull’altro lato della piazza un gruppo di compagni ha
portato anche a Livorno la campagna “Copriamo le vergogne
del militarismo” ed ha avviluppato con un’enorme
telo di plastica nera il monumento alla vittoria che campeggia
di fronte all’imboccatura di via Magenta.
Fermare la guerra, spezzare le catene del fanatismo religioso,
delle frontiere sempre chiuse per i derelitti della terra impone
un impegno che, pur non ignorando i grandi appuntamenti, si
radichi nei territori e si faccia promotore di iniziative di
carattere comunicativo, capaci di creare relazioni, costruendo
un’opposizione alle politiche guerrafondaie che sappia
coniugare l’afflato etico all’azione diretta, non
delegata a nessun parlamento. Quelli che hanno manifestato il
29 maggio sono gli stessi per cui agire contro il militarismo
e la guerra è un impegno quotidiano. Un impegno che ci
auguriamo possa crescere sino ad inceppare la macchina infernale
che, in nostro nome, uccide, stupra, violenta, opprime, affama.
Noi non ci stiamo: siamo tutti disertori!
Maria Matteo
Alessio
Lega e Joe Fallisi in concerto
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