Riferiscono
le cronache che, la sera del primo di giugno, nei giardini del
Quirinale ove si aggiravano duemila invitati “rigorosamente
selezionati”, la signora Franca Ciampi abbia incontrato
Mike Bongiorno. Invece di chiedergli cosa ci faceva lì,
sembra – dando retta alle medesime cronache – che
gli abbia detto: “ma sa che lei è più bello
dal vivo?”. Mike Bongiorno aveva appena finito di asciugarsi
le lacrime suscitategli dalle parole del marito, Carlo Azeglio,
presidente di quella Repubblica Italiana di cui si voleva far
ricorrere il cosiddetto “anniversario”. Mike Bongiorno
aveva appena festeggiato quei propri ottant’anni che,
a loro volta, avevano suscitato una calda lezione di ermeneutica
– calda come una lacrima – da parte di Aldo Grasso.
Dall’alto della sua scienza, Grasso ci aveva spiegato
– cosa che non saremmo mai riusciti a capire da noi –
che “le cose cambiano in continuazione”, che “cambiano
gli spettatori, cambiano i presentatori, cambiano i punti di
vista, cambiano i contesti, cambiano, col tempo, anche i testi
analizzati”. Il che sarebbe come dire che non devo fidarmi
delle analisi dell’orina del lunedì mattina perché
l’orina del mercoledì sarà diversa. O, meglio
ancora, che dove abbiamo sempre letto “Roma” stava
scritto “toma”. Il che sarebbe come dire “di
analisi non facciamone più”. Il che – come
teoria del “testo malfermo”, preziosa in materia
di storia, di economia, di etica e di scienze varie –
rappresenta la punta ideologicamente più avanzata del
pragmatismo berlusconiano. Questa strana, cinica e inconsulta
lezione Grasso ce la somministrava, per l’appunto, allo
scopo di allietare l’ottantesimo compleanno di quel “signore
del buonsenso” che, a suo dire, è Mike Bongiorno,
con una revisione critica, si fa per dire, di alcuni giudizi
espressi, anni addietro, nei suoi confronti. Il Mike Bongiorno
di oggi secondo il Vangelo di Grasso, dunque, “sfoggia
cultura, quella cultura popolare che lo ha reso famoso e che
gli ha permesso di svolgere un ruolo non indifferente nel lungo
processo di costruzione dell’identità italiana”.
Da genio quale è, questo Bongiorno avrebbe sempre saputo
scegliere il “punto di vista del ‘semplice’”
(con le virgolette parachiappe). Le sue “gaffe, bizze,
goffaggini” sarebbero state parte di un suo acuto marchingegno
d’intelligente ingegneria sociale e chi, nel passato,
avesse avuto qualcosa da ridire nei suoi confronti sarebbe un
“entomologo dell’ovvio”. In ragione di ciò,
Grasso chiede dunque a gran voce che Umberto Eco – che,
nel 1961, sulle pagine della rivista Il Verri,
pubblicò quella Fenomenologia di Mike Bongiorno
che poi, insieme a qualche scherzo letterario e a saggi storicamente
significativi come l’Elogio di Franti,
raccoglierà nel fortunato Diario Minimo
–, ritiri quanto ha scritto e che, in pratica, ne firmi
una riabilitazione. Che diceva di tanto grave Umberto Eco nel
1961? Diceva che il Mike Bongiorno “Idolatrato da milioni
di persone”, “deve il suo successo al fatto che
in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà
vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità
assoluta unita (…) ad un fascino immediato e spontaneo
spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione
o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello
che è e quello che è sia tale da non porre in
stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più
sprovveduto”. Fossero state scritte, queste parole, l’altro
ieri, e se dovessimo indovinare a chi si riferiscono, ci troveremmo
in imbarazzo. Se ne condividessi il metodo d’indagine
di cui questi giudizi sono il risultato, li riterrei adattissimi
alla maggior parte delle persone che appaiono attualmente in
televisione. Tuttavia, è pressoché innegabile
che, all’epoca, queste parole si attagliassero bene ad
un solo personaggio. Non ho mai apprezzato gran che La
fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco. Per
difetto di critica nei confronti del personaggio, non per eccesso.
Come buona parte degli scritti di Eco, la ritengo più
l’espressione giocosa di una borghesia intellettuale,
che il risultato di una critica radicale del sistema culturale
e della sua filosofia.
Chi indugia su categorie come quella della “mediocrità”,
o chi crede che la comunicazione televisiva possa essere analizzata
e risolta in termini di rapporti gerarchici fra chi sta da una
parte e chi dall’altra del video – non chiedendosi
né le radici politiche di ciò che lui categorizza
come mediocrità né perché qualcuno sta
una parte e qualcun altro sta dall’altra parte del video
–, in fin dei conti, sta semplicemente ribadendo altre
gerarchie costituitesi secondo il proprio punto di vista.
Spero sinceramente che Eco non accolga l’invito di Aldo
Grasso e lasci Mike Bongiorno in quel modestissimo inferno in
cui l’aveva piazzato a suo tempo. O, meglio, se Eco volesse
dimostrare di esser cresciuto – e dal 1961 ad oggi ne
avrebbe fin il dovere –, e di non far parte di questa
miserevole servitù di regime, potrebbe riscrivere La
fenomenologia di Mike Bongiorno e rincarare la dose.
Con un’appendice dal titolo: Mike Bongiorno come
ontologia e come costruzione sociale: due linee a confronto.
Lasciando Eco – e Grasso – a fare i conti con quel
che loro rimane della propria coscienza politica, comunque,
io torno alla signora Ciampi. È lì il paradosso
più grave. Quel che dice Franca Ciampi a Mike Bongiorno,
mi dico, verrà pure da qualche parte. Voglio dire che,
incontrare Mike Bongiorno e ritenere opportuno e addirittura
sensato dirgli che “è più bello dal vivo”,
è una scelta che proviene da una matrice culturale fin
troppo chiara. Quel pensiero sa, in altre parole, di Mike Bongiorno
stesso, dalla prima all’ultima sillaba. Anzi, giurerei
che è fin suo, suo ideologicamente e suo storicamente.
Anni or sono, allorché ha cominciato a produrre “italianità
di buonsenso” – fra cui i signori e le signore Ciampi
–, Bongiorno avrà pur detto a qualcuno: “ma
sa che lei è più bello dal vivo”. Sarà
stato già un riciclo, è ovvio, ma è il
tipico campione della cultura bongiornica e, soprattutto, è
il tipico segno delle scelte politiche che hanno condotto a
questa cultura. Qui sì, allora, in questo incontro e
nello scambio comunicazionale che vi è avvenuto, c’è
stata l’espressione di un’identità culturale
– dal produttore al consumatore e viceversa.
Felice Accame
P.s.: La lezione di Grasso è comparsa sul “Corriere
della Sera” del 26 maggio scorso. Il Diario minimo
di Umberto Eco è stato pubblicato da Mondadori nel 1963.
|