movimento
Alla ricerca di nuove propositività
di Andrea Papi
Creare una rete di situazioni,
sperimentazioni sociali e aggregazioni rigorosamente autogestite.
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Ci sono
sostanzialmente due modi di vivere la tensione anarchica.
Uno si incentra e concentra sulla lotta contro l’esistente,
a ragion veduta identificato nel trionfo di un potere asservito
e funzionalizzato al dominio, l’altro è proteso
alla ricerca ed alla costruzione di modi altri, alternativi
a quelli vigenti, di vivere e organizzarsi a livello sociale.
L’uno privilegia strategicamente lo scontro, coi poteri
costituiti, con lo stato, con le forze di polizia, con ogni
struttura di sfruttamento e repressione, ritenendo che sia
l’elemento primario e fondante, l’altro la sperimentazione,
il bisogno della proposizione e della costruzione, l’allargamento
delle coscienze. Entrambi partono da un identico rifiuto,
radicale e inconciliabile, del presente stato di cose, mentre
divergono sul che cosa fare e come tentare di pervenire alla
preconizzata e desiderata situazione sociale anarchica.
In verità sono perfettamente consapevole che questa
è una semplificazione, una riduzione ad uno schema
duale. Nella realtà del sentire dei singoli individui
c’è una molteplicità estremamente ricca
e frastagliata del sentirsi anarchici. So anche che nel tentare
di schematizzarla si rischia non solo di sminuirne il valore,
ma addirittura di tradirne la portata. Eppure sono del tutto
convinto che la riduzione consapevole al mio schema duale
non mistifichi affatto la realtà. Anzi aiuta a comprendere
il senso delle cose in profondità, in quanto non si
pone come lettura oggettiva di ciò che pretendo che
sia, bensì come un riferimento atto alla riflessione.
Arbitrariamente ho fatto due accorpamenti, identificando due
filoni per me fondamentali in grado di accogliere ognuno modi
diversi di vivere una comune tensione, ma in cui risaltano
due differenti impostazioni di fondo.
Non ho sottolineato questa differenza di tensione per puro
piacere accademico, ma perché sono fermamente persuaso,
me lo suggerisce il patrimonio di conoscenze acquisito dall’esperienza,
che non sia affatto indifferente viverla o in un modo o nell’altro.
Sono cioè convinto che comporti delle conseguenze rilevanti
e rilevantemente differenziate, se non addirittura contrapposte,
proiettarsi e concentrarsi verso la distruzione del potere
nemico oppure invece verso il suo superamento rivoluzionario.
Perché alla fin fine proprio di questo si tratta. Ed
a tutti gli effetti è una questione di senso. Se cioè
abbia senso impostare tutta la lotta (mezzi, azioni, pensieri,
scopo, ecc.) nel tentativo costante di sconfiggere il potere
dominante, anche e soprattutto militarmente, oppure, all’inverso,
proiettarsi in una costante ricerca di soluzioni e sperimentazioni
che contengano in sé i presupposti della nuova futura
società fondata su basi libertarie e anarchiche, in
grado di soppiantare l’assetto politico, militare ed
economico esistente, fondato all’opposto su principi
autoritari e gerarchici.
Cerchiamo di capire ed analizzare quali sono le differenze
sostanziali.
Tensione contrappositiva
La tensione contrappositiva, l’essere
cioè innanzitutto contro, sopra ogni altra cosa identifica
il nemico da abbattere ed annichilire e ritiene che questo
sia lo scopo principale e fondamentale verso cui tendere tutti
gli sforzi operativi e di propaganda. Il problema fondamentale
che pone è come far la guerra al sistema nel tentativo
permanente (vano, aggiungo io!) di abbatterlo definitivamente.
La strategia di riferimento che pone in campo, classica e
consolidata storicamente, pur con una varietà di sfaccettature
abbastanza ampia che va dal politico all’esistenziale
all’estetico, è quella di lotte di tipo insurrezionale,
sia vissute come rivolta individuale sia concepite come ribellione
di massa. Ciò che conta è ribellarsi, quasi
per principio, ed insorgere, in tutti i modi ritenuti più
efficaci, contro ogni imposizione e contro ogni istituzione
autoritaria, nella convinzione che sia l’unica maniera
possibile per pervenire all’agognata liberazione dal
sistema di cose presente. Dietro c’è la motivazione
forte che soltanto con l’insurrezione si possa scalzare
il potere costituito, in quanto questo non permetterà
mai che prenda piede in modo indolore un assetto sociale che
lo metta in crisi profonda. Per quel che mi riguarda trovo
che tale assunzione, posta sempre con le caratteristiche dell’assolutezza,
sia solo un assioma nient’affatto dimostrato, più
corrispondente ad un atto di fede che ad una meditata e consapevole
presa di posizione.
Sono molteplici i motivi per cui la strategia insurrezionalista,
intesa nel senso di finalizzare ogni scelta operativa ed ogni
atto di rivolta ad essa, sia carente e rischi di diventare
incoerente, ma in questo scritto mi soffermerò solo
su due di essi, ritenendoli più importanti di tutti
gli altri perché ne evidenziano in particolare la qualità.
Dal punto di vista di una proposizione politica anarchica,
teoricamente ha senso parlare d’insurrezione a patto
che si rifugga da ogni logica e pratica elitaria o avanguardistica,
in quanto sia l’una che l’altra sono fondate sul
presupposto antianarchico di dirigere chi si ribella. Al massimo
si può parlare di minoranza agente, con la consapevolezza
però che chi agisce debba svolgere solo una funzione
di stimolo, che abbia l’unico scopo di spingere le masse
(per usare un brutto termine di uso comune di leniniana memoria)
alla rivolta collettiva, per poi autogestire insieme ad esse
la situazione che ne scaturisce. Ma perché ciò
avvenga, l’esperienza ce lo insegna, bisogna che in
qualche modo le stesse masse siano predisposte, in modo tale
che l’azione della minoranza agente non debba esser
altro che la scintilla che scocca su una situazione che non
aspettava altro. Cosa estremamente rara, soprattutto se ci
riferiamo ad insurrezioni capaci di abbattere il potere vigente.
Parliamo dell’oggi, di questa fase storica, di quello
che stiamo vivendo nei luoghi dove lo stiamo vivendo. Non
credo si debbano spendere molte parole per affermare che la
situazione in cui siamo immersi e ci sovrasta non vive una
fase preinsurrezionale, che cioè le masse coinvolte
non stanno manifestando in alcun modo la predisposizione ad
insorgere, soprattutto se si auspica, come nel caso di cui
stiamo parlando, una ribellione generalizzata tendente a sovvertire
alle radici l’ordine esistente. Non ci sono segnali
di nessun tipo che lo facciano supporre. Ci sono si, dislocati
qua e là, momenti di ribellione, ma che hanno più
l’aria di crescente insoddisfazione, dietro la quale
non si agita certo la voglia di sovversione radicale, bensì
la richiesta di ricevere ciò che si pensa ci spetti,
in altre parole di essere governati meglio. E ciò accade
soprattutto perché la cultura d’opposizione dominante
e diffusa è stata imbastardita da decenni di controllo
culturale di una sinistra che non agiva, e continua più
che mai a non agire, per mettere in piedi una società
nuova e diversa, ma per impadronirsi dell’esistente
e gestirlo con un welfare più consono ai bisogni
sociali collettivi. Non è diffusa una cultura alternativa
che al contrario cerchi di soppiantare il presente ed istituire
il nuovo.
Ribellione elitaria
Ne consegue che se qualcuno ha l’ardire,
del tutto illusorio, di agire, animato da tutte le buone intenzioni,
per diventare una minoranza agente e si mette a far botti
di qua e di là ed isolate piccole azioni di disturbo
e di sabotaggio che, data l’attuale situazione, difficilmente
possono trovare il terreno adatto per esser considerate patrimonio
di lotta collettivo, si trova del tutto isolato, non capito,
rifiutato, dileggiato e con gran facilità considerato
nemico. Non può che fare una ribellione elitaria che,
dato che rifiuta per principio la logica avanguardistica tipica
del leninismo perché non vuole dirigere ma stimolare,
lo costringe nolente nel mondo dei banditi, non tanto per
la polizia che è scontato, ma per le stesse masse che,
incoraggiate, si vorrebbe che insorgessero, mentre c’è
il rischio che gli si rivoltino contro. Una tale logica non
fa altro che relegare chi la persegue in un limbo elitario,
escluso dal dibattito collettivo e dalla comprensione di chi
vorrebbe stimolare e, sopra ogni altra cosa, esposto alla
repressione del potere che, ironia della sorte, trova anche
il consenso di coloro che dovrebbero sollevarsi. Insomma,
un perfetto tempismo politico.
Sento già le sirene contrarie sottolineare gridando
da tutte le parti che non si può mai saper prima quando
scoppierà un’insurrezione, perché non
è programmabile. Che può scoppiare quando meno
te l’aspetti per cui devi esser preparato ad affrontarla
e ad impostarla in qualsiasi momento. Che niente niente che
prenda piede può sboccare in una qualsiasi situazione
nuova e prenderti la mano, per cui non ha senso aspettare
che sorga inermi e attendisti, mentre bisogna prepararsi ed
esercitarsi per quel momento, quando arriverà. Perché,
continuo a sentir le sirene, questa volta determinatamente
deterministe, quel momento prima o poi arriverà ed
allora lo gestirà chi sarà pronto, quindi bisogna
esser pronti. E bla! bla! bla!… Ciò che per me
non ha senso invece è aspettare, vivere od agire in
funzione di essa, quasi a considerarla religiosamente la panacea
taumaturgica di tutti i mali.
E qui veniamo al secondo motivo riguardante le carenze e le
incoerenze insurrezionaliste.
L’insurrezione di per sé non conduce ad una situazione
sociale riconoscibile in qualche modo nei principi anarchici.
Non è in sé una garanzia di realizzazione libertaria.
Quando ci riesce, e rare volte si è verificato, anche
se a dir il vero quelle rare volte sono sempre state altamente
significative, è in grado di abbattere il regime politico
dominante. Ma, non a caso, storicamente non è mai successo
che l’insurrezione in quanto tale sia stata portatrice
di libertà, tanto meno di anarchia. Semmai, sempre
storicamente parlando, le insurrezioni vittoriose hanno offerto
l’occasione a nuove gerarchie politiche di prendere
il potere e, con grande facilità, d’instaurare
regimi repressivi, se non addirittura sanguinari e militaristi.
E ciò si spiega, perché il popolo non insorge
come una furia spinto da un progetto o da un’idea, ma
dalla disperazione e giustamente travolge chi considera causa
della propria disperazione, avendo al momento questo chiaro
bisogno sopra ogni altro. Sarà poi chi, furbescamente,
ha le idee chiare ad approfittare della situazione e ad indirizzare
gli avvenimenti come più gli aggrada.
L’insurrezione in quanto tale è del tutto inaffidabile
quale mezzo di autentica liberazione e lo è ancor meno
per la realizzazione anarchica.
Tensione propositiva
Differentemente da quella contrappositiva, la
tensione volta a sperimentare costruzioni sociali alternative
è proiettata piuttosto sulla ricerca degli aspetti
propositivi. È più preoccupata del come superare
e sostituire l’esistente che del come abbatterlo. Si
propone come proposta innovativa e non come negazione. Dice
prima di ogni altra cosa che cosa vuole e lo ritiene più
importante di che cosa non vuole, di conseguenza è
più preoccupata del che cosa d’altro si va a
mettere in piedi che di quello che deve essere abbattuto,
senza, e questo è fondante, rinnegare, anzi affermandolo,
che il presente stato di cose deve essere rivoluzionato alle
radici. Anch’essa alla fin fine è contro, ma
lo è finalisticamente invece di esserlo innanzitutto,
lo è cioè di conseguenza al fatto che ciò
che propone e ricerca non riesce e non può essere compatibile
con l’esistente, di cui nega comunque la validità.
L’anarchia si definisce come immaginario utopico, cioè
non vigente ma da realizzarsi, perché il presente che
si subisce è perennemente fonte di ingiustizie, sfruttamento,
oppressione, imposizioni. A differenza di ogni altra visione
politica e sociale si pone dichiaratamente ed inequivocabilmente
nel versante antiautoritario, fondando il suo essere sulla
realizzazione di tutta la libertà possibile in ogni
campo inerente alla vita sociale, in particolare dal punto
di vista economico, politico e della giustizia. Si distingue
perché propone la valorizzazione ed il rispetto pieni
di ogni individuo, forme organizzative orizzontali ed antigerarchiche,
decisioni collettive attraverso strumenti basati sulla parità
e la reciprocità in assenza di ogni comando dall’alto,
l’autogestione come fondamento di relazione e decisionalità
in seno alla convivenza sociale.
Certamente nasce come rifiuto del presente stato di cose,
quindi si pone contro l’esistente. Ma in questo non
è sola. Quando prese forma come pensiero e poi come
movimento organizzato era in buona compagnia: i vari socialismi,
il comunismo, il repubblicanesimo, per citare i più
noti. Come i suoi compagni di strada abbracciò pure
la rivoluzione insurrezionale come mezzo per raggiungere l’emancipazione.
In tutto ciò non risalta però la sua originalità,
la sua specifica innovazione. Ciò che veramente la
distingue e, a differenza dei suoi originari compagni di strada,
l’ha fatta rimanere l’unica autenticamente ed
irriducibilmente rivoluzionaria, è la proposizione
autogestionaria quale fondamento politico della gestione collettiva
della società. In questa irriducibile assunzione sta
la sua vera forza e la sua vera possibilità.
Ecco allora che sopraggiunta la consapevolezza, data in buona
parte dalla disillusione, che la preminenza strategica insurrezionalista
difficilmente, molto molto difficilmente, possa risultare
funzionale ad una concreta emancipazione, con sempre maggior
forza prende piede spontaneamente la tensione sperimentale
autogestionaria, quale strada maestra per tentarne la realizzazione.
Al livello delle coscienze, penso che stia avvenendo, dovrebbe
avvenire, deve avvenire, un passaggio fondamentale ed allo
stesso tempo fondante: dall’attacco allo stato ed ai
poteri costituiti si sta passando, si dovrebbe passare, si
deve passare alla costruzione sperimentale rivoluzionaria,
non più per l’abbattimento, bensì per
il superamento sempre dello stato e dei poteri costituiti.
Bisognerebbe attivare con costanza e con frequenza dei processi
di autentica autogestione, che sia vera ed inconfondibile
nei suoi presupposti. E sottolineo processi al plurale, non
tanto per evidenziarne una ipotetica quantità, quanto
per cogliere l’importanza della molteplicità
differenziata. Sarebbe infatti limitante e ingabbiante partire
dalla supposizione di cercare un unico modello di riferimento,
considerato principe, per applicarlo tout-court a tutte le
situazioni. Il riferimento non può né deve essere
un modello né una procedura tipo, considerati campione
o prototipo, da riprodurre pari pari, bensì i principi
e i presupposti fondanti che danno senso all’autogestione:
assenza di gerarchie, decisionalità orizzontale, parità
e reciprocità dei rapporti. La coerenza rispetto a
questi presupposti in un certo senso è il metro di
misura, la cartina di tornasole che permette di comprendere
la vera autenticità ed il valore dell’esperimento.
Non uniformità quindi ad un modello considerato magari
perfetto, ma molteplicità e pluralità di esperienze
che si trovano accomunate dagli stessi intenti e dagli stessi
principi fondativi.
Le modalità e la tipologia realizzative vengono definite
e improntate concordemente di volta in volta sul campo da
coloro che sono coinvolti e sono determinate dal contesto
territoriale, dalla situazione specifica e dalla concomitanza
delle caratteristiche culturali individuali. Ciò che
però conta veramente alla fin fine è la comunanza
di intenti, che lega e affratella, e la chiarezza condivisa
di quello che si deve andare ad attuare. Centri sociali, comuni,
scuole libertarie, comitati municipali, collettivi di lotta
contro obiettivi specifici, federazioni sindacali libertarie,
gruppi di azione e cultura alternativi, luoghi di aggregazione
anticonformisti ed antisistema, cooperative di produzioni
di qualità federate per un mercato non liberista, banche
di mutuo soccorso, e quant’altro venga pensato ed attuato
creativamente rispondente ai presupposti di riferimento. Una
rete di situazioni, sperimentazioni sociali e aggregazioni,
molteplici e plurali rigorosamente autogestite, possibilmente
federate per esercitare e sperimentare l’alternativa
libertaria in grado di lottare per prendere piede ed espandersi.
Una specie di società nella società insomma,
che propugni il chiaro intento di pervenire al superamento
rivoluzionario del sistema di cose presente.
Riferimenti da cui prendere spunto
A un primo sguardo può sembrare che mi
riferisca a situazioni già esistenti. È vero
solo in parte, in minima parte. Molte delle tipologie alternative
esistenti, infatti, in realtà non hanno caratteristiche
e funzionamenti che le possano far riconoscere in una logica
e in una coerente tensione autogestionaria, ma, impostate
e strutturate in origine da militanti impestati da mentalità
ed ideologie autoritarie, al loro interno, magari inconsapevolmente,
riproducono metodi e procedure gerarchiche ed autoritarie.
Per cui, al di là della forma e delle motivazioni dichiarate,
non possono rientrare nella molteplicità progettuale
di costruzione e di lotta per una società libertaria
come sto auspicando. Tanto per capirci, ho presenti quali
riferimenti da cui prendere spunto situazioni tuttora vigenti
come Libera di Marzaglia vicino a Modena, la comune
Urupia nel Salento, la FMB di Spezzano Albanese
in Calabria, o la cooperativa IRIS nel cremonese.
Situazioni libertarie in atto che nel tempo si sono consolidate
ed hanno acquistato spessore. Bisognerebbe impegnarsi per
moltiplicarle ed arricchirle, aumentando l’influenza
e l’irradiazione libertaria e rivoluzionaria nella società
circostante che continua e continuerà ad opprimere.
Un’ultima breve considerazione che ritengo estremamente
importante. È probabile, purtroppo quasi sicuro, che,
se veramente prendesse piede una società nella società
come auspica il mio immaginario, il sistema di potere vigente
non se ne starebbe con le mani in mano e ci costringerebbe
ad una specie di scontro finale. In verità mi piacerebbe
molto di più che si verificasse una situazione sociale
diffusa come quella che nel 1989 affossò in modo incruento
l’impero bolscevico dell’est che si estinse per
implosione. Nel caso del non desiderabile scontro finale non
ci sottrarremmo ed insorgeremmo. Ma sarebbe tutta un’altra
cosa rispetto al vacuo e residuale insurrezionalismo dell’attacco
allo stato. Voglio dire che non ritengo saggio né realistico
essere per principio contro la risposta insurrezionale, in
quanto questa fa parte del patrimonio di rivolta per l’emancipazione.
Ciò cui sono sempre più contrario è invece
il vivere, pensare ed agire esclusivamente in funzione della
logica insurrezionale, trascurando e tralasciando, di fatto,
l’elemento progettuale e sperimentale di costruzione
della nuova società che si vuole proporre, quasi considerando,
con grande e pericolosa superficialità, che tutto è
rimandato al dopo, ammesso che ci sia un dopo, e che si risolverà
tutto d’incanto da solo, in modo spontaneamente taumaturgico,
come se in fondo il problema risiedesse soprattutto nell’eliminazione
del sistema di potere vigente.
Andrea Papi
Alla
Fiera dell’Autogestione
Spinto
dalla curiosità, sono stato presente alla Fiera
dell’Autogestione che si è svolta nello
spazio autogestito di Libera, nel modenese, dal 17 al
20 giugno 2004. Siccome ne sono rimasto colpito con
grande positività, ho pensato di scrivere quattro
righe per la rivista. Non farò in alcun modo
un resoconto, anche perché non ho partecipato
metodicamente a tutto, ma mi limiterò ad esternare
le mie impressioni di primo acchito, a stimolare qualche
piccola riflessione.
In tutto qualche centinaio di persone presenti con pacatezza
e voglia di ascoltarsi reciprocamente. Più che
di fiera vera e propria si è trattato di incontro/confronto,
in cui i protagonisti sono stati coloro che hanno scelto
esistenzialmente di vivere situazioni collettive di
autogestione, con la loro testimonianza andando oltre
la fase molto più diffusa del semplice propagandarla
e proporla. Tutto si è svolto con grande sentimento
di libertà, in un clima gradevole, accattivante
e stimolante, capace di trasmettere la sensazione che
avesse senso esserci.
Gli incontri programmati hanno sempre trovato un pubblico
attento e partecipante, ma sono stati molti anche gli
incontri nati lì per lì, non programmati,
seguiti con partecipazione ed intenso interesse, in
cui c’è stato scambio di informazioni di
vario tipo, dai semi biologici, all’orto sinergico,
o sulle varie modalità di fare il pane o il formaggio,
o come fare andare il diesel con olio di semi ed altro
ancora. Spirito di ricerca, curiosità, voglia
di ascoltare, attenzione. Quello che insomma a tutti
gli effetti si può definire un clima costruttivo.
Ciò che mi ha colpito in particolare è
che la qualità del dibattere è stata generalmente
buona, perché il tutto si è mosso spontaneamente
al di là dello scontato e completamente al di
fuori di ogni trionfalismo. C’era voglia di vera
ricerca sperimentale e di analisi sincera e concreta
di comprensione della realtà. Lo spirito critico,
in grado di evidenziare difetti e carenze, non si è
fatto desiderare, ma ciò che ha caratterizzato
l’insieme è stata la costante consapevolezza,
comune e diffusa, di voler realizzare comunque sempre
qualcosa che fosse coerente con le realizzazioni di
libertà sociale e con i principi autentici dell’autogestione.
È mancata una cosa fondamentale, indispensabile
se si vuol proseguire su questo cammino: gettare le
basi per forme permanenti di coordinamento, confronto,
scambio e, soprattutto, promozione. Se non si riesce
a metterle in piedi, ogni momento, per quanto bello
e costruttivo possa occasionalmente essere, è
destinato a rimanere frammentario ed a cadere nel dimenticatoio,
regalando al potere che si vuol eliminare il godimento
dell’esaurimento di ciò che potrebbe metterlo
in discussione.
Andrea Papi |
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