Nell’antichità
i giochi, quelli olimpici compresi, avevano un significato
religioso e non soltanto perché si svolgevano presso
il santuario di un dio in occasione di una sua festa. Il vincitore,
deponendo sull’altare la corona di olivo, di alloro,
di pino o di finocchio selvatico che – a seconda dei
casi – gli veniva attribuita, assumeva un ruolo di tramite
tra la comunità umana e quella divina: diventava, cioè,
in senso strettamente tecnico, un “eroe”. La gara
– corsa, salto, lotta o altro che fosse – aveva
la funzione di selezionare, tra i vari aspiranti, il più
degno di compiere il sacrificio. Era un concetto molto diffuso
nel mondo antico e non solo in quello mediterraneo: presso
altre culture, lontane dalla nostra (per esempio, credo, nell’attuale
Messico meridionale), sono testimoniati degli eventi agonali
in cui la selezione era ancora più radicale, nel senso
che a essere sacrificati, alla fine, erano i vincitori. Un
grande onore, naturalmente, ma non tale – forse –
da spingere gli atleti a dare il meglio di sé. I greci
antichi erano più realistici e cercavano di mantenere
l’intera faccenda nei limiti del simbolico.
Naturalmente, siccome nessuno è mai riuscito a tener
separate le gerarchie religiose dalle altre, si prendevano
varie precauzioni per impedire che a rappresentare la comunità
presso il dio fosse il primo bifolco di passaggio, purché
dotato di polpacci di acciaio e muscolatura gagliarda. Per
Pindaro, così, era meglio che a vincere fosse un nobile,
o, in mancanza, almeno un potente, come i tiranni di Sicilia,
e se anche di potenti c’era penuria, almeno un ricco,
ricco quanto bastava – come minimo – per affrontare
le parcelle che il poeta esponeva per i suoi carmi. Non c’erano
preclusioni formali, naturalmente, ma visto che solo i nobili,
i ricchi e i potenti potevano permettersi le spese di allenamento
e gli equipaggi equestri necessari per ben figurare nelle
gare di maggior prestigio, per tutta l’età arcaica
il sistema tirò avanti abbastanza bene.
Cospicui contributi monetari
Quando la cultura etico nobiliare dell’età
arcaica andò in pezzi, perché gli ateniesi avevano
inventato la democrazia, che non era proprio come la nostra,
ma al potere degli aristocratici dava comunque un taglio,
tutti cominciarono a dire che le olimpiadi non erano più
quelle di una volta. A lamentarsi perché ormai erano
diventate dominio dei più volgari professionisti, gentaglia
che di una corona di rami di olivo e di un ramo di palma non
sapeva che farsene, ma esigeva cospicui contributi monetari
sottobanco e pur di vincere, ovviamente, era capace di qualsiasi
infamia, corruzione dei giudici e subornazione degli avversari
compresa. A rimpiangere un autentico spirito olimpico che,
ahimè, si era perso per sempre. I giochi, di fatto,
durarono per altri otto secoli, e questo significa che qualche
altro motivo di interesse lo mantenevano, ma durarono a condizione
che tutti furono disposti a fingere che fossero qualcosa d’altro
di quello che erano diventati. Si erano laicizzati, diventando
dei grandi spettacoli popolari, ma si fingeva che avessero
ancora il significato originario, anche se la cosa non interessava
più praticamente a nessuno. Pausania, la nostra fonte
principale in materia, è abbastanza esplicito.
Lascio ai lettori il piacere di tracciare il facile parallelismo
con i giochi moderni, come si sono evoluti in questo ultimo
mezzo secolo e come ci sono stati presentati ad Atene lo scorso
agosto. Sappiamo tutti, comunque, che nelle “olimpiadi
moderne” l’etica aristocratica (e borghese) del
dilettante, di colui che partecipa per diletto, perché
se lo può permettere, e in questo diletto trova l’unica
ricompensa, così come l’avevano definita i fondatori
ottocenteschi, è miseramente crollata sotto il peso
di tutta una serie di altri interessi. Tra i quali andranno
considerati in primis quelli propagandistici degli
stati, che, consapevoli di come la religione non sia l’unico
oppio che ai popoli si possa proporre, hanno da tempo imposto
la priorità delle squadre nazionali sui singoli atleti,
e quelli legati alle esigenze di spettacolarità che
i mezzi di comunicazione di massa enfatizzano così
drammaticamente.
L’unica cosa che non si può proprio dire è
che le olimpiadi moderne, come quelle antiche, siano state
rovinate dalla democrazia. Come abbiamo potuto ampiamente
notare anche questo agosto, di democratico, in esse, non c’è
proprio niente. Salvo singoli episodi, tollerati, ma tenuti
accuratamente sotto controllo, a vincere, nella moderna dimensione
di squadra (o, se volete, di “delegazione”), sono
inevitabilmente gli stati ricchi e potenti. Basta una rapida
occhiata al medagliere di Atene: gli americani si confermano
potenza dominante, la Russia paga la sconfitta nella guerra
fredda e la secessione delle nazionalità in precedenza
soggette, la Cina celebra il suo nuovo ruolo mondiale, l’Europa
sconta la disunione politica, ma dimostra la forza della sua
valuta unica producendo più vincitori di qualsiasi
altro continente. E poi, i greci, nel loro piccolo, festeggiano
l’ammissione nel club dell’euro, l’Italia,
in perfetto stile berlusconiano, stringe meno di quanto avrebbe
voluto, ma qualcosa, comunque, stringe e così elencando,
a piacere.
Vaffanculo e segni della croce
Quanto agli atleti in gara, incarnano una stranissima
contraddizione. Sono chiamati a dare spettacolo, naturalmente,
come vuole la logica dell’evento mediatico e quella
degli sponsor che lo sorreggono. Ma è una spettacolarità,
a ben vedere, che ha poco a che vedere con le capacità
sportive e atletiche che si esibiscono e che dovrebbero, in
teoria, essere al centro dell’evento. Più che
al campo lungo della gara, dal quale ben poche emozioni si
possono ormai ricavare, i telespettatori – quelli che
contano davvero – sono chiamati a concentrarsi sul primo
piano dei loro volti, sulle loro smorfie di fatica e di vittoria,
sui sospiri, i sorrisi, i vaffanculo e i segni della croce
con cui, privatamente, gli atleti commentano le proprie prestazioni.
Da evento pubblico, in cui al centro dell’interesse
dovrebbero stare certe specifiche capacità e attitudini
(i citius, altius, fortius della
tradizione decoubertiniana), i giochi sono stati declassati
– o promossi, vedete voi – a impudica esibizione
di reazioni individuali, in stile di sitcom per i vincitori
e di soap opera per gli sconfitti. E a nessuno sembra venire
in mente che una cosa è esibire per denaro, la propria
capacità di correre, sollevare pesi, saltare con l’asta
o via andare e un’altra ostentare di fronte al pubblico
globale le proprie personali reazioni psicologiche. Che esibire
in quel modo la propria individualità, in fondo, rappresenta
una forma particolarmente impegnativa di mercimonio della
propria persona.
Ma probabilmente si tratta di una persona fittizia. In effetti,
quello che negli atleti soprattutto colpisce, è proprio
una totale mancanza di individualità. Sono –
come avrete certamente notato – tutti uguali, tutti
omogeneizzati dalle stesse tecniche di selezione, esercizio,
trattamento chimico, indottrinamento ideologico e confezione
finale. Con l’unica, ovvia, eccezione del colore della
pelle, che peraltro è sempre più indipendente
dalla nazionalità dichiarata (non sapevo, per dirne
una, che ci fossero tanti neri in Portogallo), non hanno caratteristiche
etniche o personali degne di nota. Li si distingue, e non
sempre, dal modello della tuta. Mi è capitato di assistere,
per caso, alla cerimonia di premiazione di una regata velica:
c’erano sul podio due svedesi, due greche e due spagnole,
sei ragazze provenienti, in teoria, da tre angoli lontani
e ben diversi del continente, dall’Europa nordica, atlantica
e mediterranea. Be’, sembravano tutte non sorelle, che
non ci sarebbe stato nulla di male, ma cloni. Le greche e
le spagnole, per dirne una, erano più bionde delle
svedesi. Sarà stato un caso, eh, e anche Achille, a
detta di Omero, era biondo, ma anche questo è un particolare
su cui può valere la pena di riflettere.