I loro
corpi in fila dopo l’esecuzione parevano tutti eguali:
anonimi e senza volto. Lo sguardo opaco con cui, uno dopo
l’altro, avevano letto il messaggio imposto dai sequestratori,
era stato spento per sempre. Per loro non hanno chiesto neppure
il riscatto, proposto scambi, fatto ricatti. Quei dodici lavoratori
nepalesi, cuochi ed addetti alle pulizie non valevano niente,
sono stati macellati come capretti per spiegare ai tanti poveracci
che abitano questa terra che servire il padrone è pericoloso,
può costare la vita. Chi sa se funzionerà. Non
credo. Se bastasse la paura di morire i nostri mari non sarebbero
affollati dalle carrette dei disperati che tentano di approdare
nel Bel Paese per guadagnarsi una possibilità, una
speranza di futuro. Il terrore di una vita peggiore della
morte, la fuga dalla fame, dalle persecuzioni, dalle malattie
che qui non uccidono ma nel mondo di sotto mietono vittime
a grappoli, è superiore alla paura del mare, degli
scafisti, dei militari in perlustrazione. Più forte
di tutto.
I nepalesi morti in Iraq non sono diversi dai tanti migranti
che muoiono nel Mediterraneo, a loro non è stata offerta
alcuna scelta, alcuna possibilità. Eppure, senza averlo
deciso, quei 12 nepalesi sono stati arruolati ed hanno pagato
con la vita. D’altra parte anche chi annega nel canale
di Sicilia è vittima di guerra, la guerra non dichiarata
tra nord e sud, tra chi opprime e chi è oppresso.
Rifiutare il gioco dei potenti
Nella follia che trapassa la terra tra il Tigri
e l’Eufrate, che come una piena improvvisa e violenta
macina i percorsi possibili degli individui, li stritola in
una morsa senza possibilità di scampo non è
in gioco solo la sopravvivenza di ciascuno ma la stessa possibilità
di sottrarsi, di rifiutare il proprio corpo e la propria mente
al gioco dei potenti.
Un gioco in cui ciascuno è arruolato a forza, volente
o nolente, in un esercito con o senza stellette.
È capitato ad Enzo Baldoni, il corrispondente di “Diario”,
ammazzato dai nazionalisti iracheni, che non hanno trovato
di meglio che arruolarlo in una guerra che non era la sua.
Specularmene identici i nazionalisti nostrani si sono invece
affrettati a descrivere Baldoni come un imbecille a caccia
d’emozioni, un “turista per caso” un po’
sfigato. Per quelli di “Libero” il povero Baldoni
non era abbastanza italiano, niente a che vedere con il mercenario
Quattrocchi che la leggenda descrive nell’atto di proclamare
il suo machismo italico prima di morire.
In un’altra guerra, sotto altre latitudini, le cose
non vanno diversamente. È capitato ai bambini osseti
della scuola di Beslan e, prima di loro era toccato ai tanti
bambini che nella martoriata Cecenia erano morti sotto le
bombe di Putin così come quelli iracheni erano stati
maciullati da quelle di Bush, Blair, Berlusconi. È
la guerra. Cambia nome a seconda dei fronti ma la sua ferocia
è identica, il suo sprezzo per i civili, per i non
schierati, per i pacifisti del tutto simile.
O con me o contro di me. Siamo tutti in guerra, che ci piaccia
o meno. La spirale nella quale siamo avvolti ci avviluppa
tutti come un sudario e l’esodo appare chimera irraggiungibile,
non-luogo senza possibilità di approdo.
Eppure, tra le nebbie fitte della guerra permanente, infinita,
totale, dello scontro di civiltà, dei rinascenti nazionalismi,
degli orrori integralisti occorre ritrovare una bussola possibile,
un non-luogo cui volgere la prua, cui mirare per non dover
scegliere tra la scimitarra “barbarica” e le “civili”
bombe a frammentazione, tra chi sgozza e chi frigge nell’uranio
impoverito.
Mi si dirà: “non siamo ancora a questo punto:
in questo paese sono ancora molti quelli che non ci stanno,
quelli che tengono la bandiera arcobaleno alla finestra, quelli
capaci di guardare ciascuno negli occhi per cercarvi una persona
e non una divisa”. Sì, senza dubbio. Ma, la domanda
vera è: “ancora per quanto?” Cosa accadrebbe
se in una scuola come tante del Bel Paese un giorno entrassero
una decina di fanatici, decisi ad arruolare anche i nostri
figli? Quanta gente riuscirebbe a pensare ai bambini iracheni
che non hanno mai visto una scuola ma conosciuto solo fame,
malattia, fuoco e morte? Quanta gente non invocherebbe forche
e vendetta?
In Cecenia la moda femminile della cintura al tritolo è
un prodotto tipico dell’epoca Putin. Mai, nei trecento
anni di resistenza e rivolta contro i dominatori russi, i
ceceni avevano fatto ricorso a questi mezzi, mai la disperazione
si era trasformata in terrore suicida. Pare che una lunga
scia di sangue, disperazione a fanatismo si annodi dalla Palestina
all’Iraq, alla Cecenia.
Quanto tempo ci vorrebbe alla nostra latitudine perché
il gusto per la guerra, la ferocia indiscriminata, il terrore
preventivo divenissero sport nazionale? Certo qui da noi lo
stile sarebbe “più occidentale”: niente
cinturine esplosive ma bombardieri, corpi speciali, leggi
specialissime. Ed i segni ci sono già tutti: il clima
diviene ogni giorno più pesante, tra un’esternazione
e l’altra del ministro di turno, sempre pronto a costruire
teoremi per criminalizzare le lotte sociali, per consolidare
l’equiparazione tra opposizione alla guerra, al militarismo,
alle politiche neoliberiste e terrorismo.
Italiani “brava gente”
Pare che in Iraq, lo ha sostenuto un reduce
di ritorno in Italia, i nostri prodi bersaglieri si siano
distinti nell’appiccare il fuoco intorno alle case che
dovevano “perquisire” per stanarne più
in fretta i terrorizzati abitanti e dilettarsi a saccheggiarne
le abitazioni. Niente di paragonabile, in ogni caso, alle
violenze inaudite praticate dai “colleghi” americani:
gli italiani, si sa, sono “brava gente”. Un mito
falso e pericoloso che oggi come in passato copre le peggiori
nefandezze. Ed un giorno non lontano la guerra potrebbe bussare
alle porte delle nostre case e allora potrebbe essere tardi
per dire no.
Gli attori di questa tragedia, i fanatici che siedono alla
Casa Bianca e quelli delle scuole wahabite, i Putin, i Bush,
i Bin Laden non chiedono di meglio che vederci tutti arruolati,
ben disposti come in una scacchiera prima dell’inizio
di una partita: i bianchi tutti da una parte, ciascuno con
il suo ruolo deciso alla nascita, e i neri sul fronte opposto,
anch’essi disposti secondo una immutabile gerarchia.
Spetta a noi, a ciascuno di noi, rovesciare il tavolo e scompaginare
la scacchiera.
Ma non è facile. Anzi. Da Occidente si è dipanata
la prospettiva di un’umanità internazionalista,
oltre le frontiere degli stati, oltre i fumi densi delle religioni,
unita, al di là dei confini, dalla consapevolezza di
un’emancipazione possibile per i diseredati della terra
che facesse del pianeta un giardino per tutti, un eden concreto,
accessibile, possibile. Ma, lo sappiamo, l’eredità
materiale dell’Oc-cidente è storia di rapine,
saccheggi, deprivazioni morali, massacri. Gli alfieri della
democrazia non sono stati meno feroci dei crociati e non ci
si deve stupire se il moderno integralismo islamico nelle
sue complesse varianti, non diversamente dal moderno integralismo
cristiano di Bush & C., riprenda il tema delle crociate,
della guerra di religione, dello scontro all’ultimo
sangue tra le “civiltà”. Gli attori di
questa tragedia hanno i medesimi interessi, pur su fronti
opposti.
Le radici del male sono troppo profonde per credere che basti
qualche palliativo, la cura deve essere radicale se lo si
vuole estirpare.
Ecco perché le anime belle del pacifismo nostrano (sempre
più invischiate nei se e nei ma) risultano ineffettuali,
incapaci di contrastare la martellante propaganda militarista,
razzista, forcaiola della destra più becera e retriva.
Oggi persino i pacifisti non violenti tengono a precisare
di non essere antimilitaristi, a considerare comunque positiva
la funzione dell’esercito, finendo così in un
cortocircuito logico, facili prede di chi, da militarista
e guerrafondaio, si dice pronto a fare la guerra per ottenere
la pace. Il più classico ed inossidabile degli ossimori,
quello che garantisce che la guerra sia sempre “permanente”,
estensione, senza soluzione di continuità, della politica.
Le
foto si riferiscono alla festa antimilitarista che si è
svolta a Zeri dal 26 al 29 agosto 2004.
Cattivo per antonomasia
La pratica antimilitarista rompe con l’immaginario
bellico, lo rende impensabile, lo pone fuori dai margini dell’agire
politico, quale spazio di mediazione ove l’avversario
resta interlocutore e non si muta in nemico da eliminare.
La guerra è lo spazio in cui la mediazione diviene
impossibile grazie alla costruzione dell’immagine del
nemico, il cattivo per antonomasia, la cui stessa esistenza
minaccia la nostra, da eliminare per garantire la propria
sopravvivenza. La guerra, che rende impensabile la politica,
è altresì il momento più alto in cui
si esprimono lo stato, la gerarchia, la massificazione dei
corpi e delle coscienze. L’attuale palese asimmetria
dei teatri bellici li rende ancor più feroci, mettendo,
e non casualmente ma in maniera preordinata e del tutto logica,
in campo i corpi e le vite dei non combattenti, dei civili
che muoiono ben più degli specialisti della morte:
soldati in divisa, mercenari, guerriglieri o kamikaze. Ognuno
dei contendenti punta sul terrore per imporre il proprio controllo
sulle risorse, le vie di comunicazione, le popolazioni, per
aggiudicarsi le grandi poste di questo gioco per adulti in
cui non vengono risparmiati neppure i bambini.
Dentro questo groviglio inestricabile di guerra e terrorismo,
dove l’uno è l’alimento dell’altro,
il suo puntello, la sua garanzia di sopravvivenza siamo tutti
in piedi di fronte al cuore della tenebra, mantenendoci faticosamente
sul bordo. Ma la giungla, inesorabilmente, avanza.