“Tutte le straniere
sono sfruttate” è l’opinione unanime degli
operatori delle ong intervistati. Contratti iniqui, lavoro
forzato in condizioni di schiavitù fino a violenze
e torture sono realtà diffuse tra le migranti che esercitano
la prostituzione in Italia, dove arrivano senza un titolo
regolare di soggiorno. È da più di un decennio
che l’Italia è diventata la meta di immigrazione
di migliaia di donne provenienti soprattutto dalla Nigeria
e dall’Albania, e più di recente dalla Romania
e dalla Moldavia, nonché da molti altri Paesi dell’Est
Europa o del Sud del mondo, donne che finiscono a prostituirsi
nelle strade soprattutto nel Nord e Centro Italia o in appartamenti-bordello
soprattutto al Sud e in quei luoghi dove la repressione del
commercio del sesso all’aperto non è solo sporadica.
Molte di loro sono state ingannate sul tipo di lavoro che
le attendeva, specialmente nella prima fase in cui la migrazione
verso l’Italia rappresentava ancora una novità.
Parecchie sono state rapite, in particolare dall’Albania.
In una seconda fase si è invece diffusa nei Paesi di
origine la consapevolezza che la prospettiva della migrante
sarebbe stata quella del commercio del sesso, anche come risultato
delle campagne informative che lo Stato italiano, come altri
Paesi occidentali, ha intrapreso per diffondere questa coscienza.
Moltissime, cionondimeno, sono partite e partono ugualmente
per sfuggire alla situazione di crisi nelle madrepatrie: dalla
rovina economica del blocco dell’Est, a seguito della
repentina sostituzione con il capitalismo più sfrenato
del sistema economico socialista, alla crisi albanese, che
ha toccato il fondo nel 1997 con il crollo delle piramidi
finanziarie che hanno rapinato i risparmi di buona parte della
nazione, alla crisi debitoria che a metà degli anni
Ottanta ha colpito il gigante nigeriano (100 milioni di abitanti,
un quarto della popolazione dell’Africa nera), seguita
dall’introduzione dei programmi di aggiustamento strutturale
del Fondo monetario internazionale con l’aumento vertiginoso
dei prezzi dei generi di prima necessità che ha gettato
sul lastrico buona parte della popolazione. Migliaia di donne
hanno così deciso di partire, anche tra coloro che
non appartenevano agli strati poverissimi della popolazione
(anche perché il costo del viaggio richiede sempre
un certo investimento) per sopravvivere o per cercare di mantenere
il precedente tenore di vita per sé e per la propria
famiglia. Persino donne laureate si recano in Italia per guadagnare
e risparmiare prostituendosi.
Condizione di inferiorità sociale
L’insostenibilità della situazione in patria
riguarda, oltre alla crisi economica, la condizione di inferiorità
sociale del genere femminile. La migrazione femminile ha spesso
all’origine l’insofferenza per le costrizioni
sessiste:
-
Largo spazio è stato dato all’analisi del fattore
economico considerato quale elemento decisivo dell’atto
migratorio, che per le donne non costituisce quasi mai l’unico
motivo. Oltre al bisogno economico, vi è nelle donne
migranti anche un desiderio e la volontà di sfuggire
dalla posizione sottomessa che la cultura e le tradizioni
del Paese di origine riservano loro, nei confronti delle
figure maschili. Frequentemente vi è il desiderio
di sottrarsi alle violenze maschili e all’autorità
parentale.
I principali motivi della migrazione risultanti da una ricerca
della cooperativa Dedalus a Napoli sono stati il rifiuto da
parte della comunità di provenienza, che riguarda le
adultere e le divorziate, la marginalità e povertà,
come quella di vedove con figli a carico, e anche «la
volontà di scappare da condizioni di costante violenza
fisica e psicologica subita all’interno del gruppo familiare».
Per quanto riguarda l’Albania, l’autrice di un
reportage giornalistico così ne descrive la crisi profonda:
«Le donne, specie le più giovani, cercano di
salvarsi come possono, ‘fidanzandosi’ con qualche
figuro che le porterà in Italia o in Europa, disposte
se non a tutto a tanto, pur di avere una prospettiva di vita.
È un desiderio di libertà femminile che viene
paradossalmente intercettato dalla cosiddetta tratta.
Sintomo di grave disagio
Questi elementi di autodeterminazione minano la schematizzazione,
criticata in particolare da Bimbi, che fa ritenere che le
straniere non abbiano alcuna scelta nel ricorrere alla prostituzione
e che è speculare al mito che tutte le italiane abbiano
fatto una scelta e nessuna viva problematicamente la condizione
di prostituta. Che ciò non sia vero appare chiaramente
dalle drammatiche storie di vita di italiane raccolte da Tavoliere
in un volume scritto, peraltro, allo scopo dichiarato di rivendicare
una libera scelta all’atto di prostituirsi. Anche l’alto
numero di connazionali che telefonano ai numeri che offrono
aiuto alle prostitute straniere è un sintomo di grave
disagio: il 14% delle telefonate di richiesta di aiuto sono
state di o per conto di un’italiana.
Assodato che è possibile sia un ingresso forzato nella
prostituzione sia un ingresso per scelta, tale che migliori
le condizioni di partenza di chi decide questo passo, nella
letteratura qualitativa sulle prostitute italiane questo secondo
polo emerge più chiaramente:
-
No, non è stato drammatico, le varie fasi sono scivolate
così, dalla prima volta a dopo, con naturalezza.
All’inizio può anche essere una decisione sofferta,
però non come pensano gli altri; intanto non è
sofferta fisicamente, perché la gente vuol sentirti
dire che ti sei sentita violata, violentata, che hai messo
in vendita la tua anima, invece non mi sono mai sentita
così e nemmeno le altre donne che conosco e che fanno
questo mestiere come me.
Viceversa, il caso paradigmatico di costrizione a entrare
nella prostituzione appartiene invece alle straniere:
-
Appena sono stata portata qui a Torino ho capito che ero
finita in un vicolo cieco: mi sono trovata con una «padrona»
che mi ha mandato sul marciapiede e voleva da me 50 milioni.
È stato un vero incubo, ho pianto tutte le lacrime
che avevo, se ci ripenso adesso mi viene ancora da piangere.
Ancora più tragiche sono le storie di ragazze rapite
e violentate così come vi sono casi in cui la stessa
famiglia ha venduto la figlia agli sfruttatori, mentre in
altri la famiglia di origine si limita ad avvantaggiarsi dei
guadagni della donna. Spesso le migranti che si prostituiscono
e mandano soldi alla famiglia trovano motivo di orgoglio in
ciò che non rappresenta altro che l’usuale sfruttamento
delle capacità lavorative delle donne per promuovere
socialmente i membri maschi del clan, per esempio mantenendoli
all’università mentre si passa la propria giovinezza
sulla strada:
-
Mi fanno ridere quelli che pensano che non sono una donna
onesta perché faccio questo mestiere. Certo, come
mestiere è brutto, e non capisco perché in
Italia non ci permettono di farlo nei posti organizzati;
non capisco cosa c’è di male a vendere l’amore
a pagamento... Comunque io con questo mestiere ho fatto
studiare tutti i miei fratelli e ho mantenuto mia madre,
perciò sono orgogliosa di fare la prostituta.
Alla domanda, posta da due giornalisti danesi che hanno condotto
un’approfondita inchiesta sulla tratta, se anche i ragazzi
lettoni emigrassero, una giovane di diciassette anni ha risposto,
sinceramente stupita: «No, i ragazzi non vanno all’estero.
Sono le ragazze che devono preoccuparsi della famiglia e mantenerla».
Gli stessi autori riferiscono che il guadagno di una sola
prestazione per chi lavora in un club danese è pari
a cinque volte lo stipendio mensile in Ucraina, che è
di 15 dollari. E in questo Paese, che ha una popolazione di
51 milioni di persone, poco meno dell’Italia, il 75%
dei nuovi disoccupati della transizione all’economia
di mercato sono donne.
Moltissime donne inoltre decidono di fare questa vita per
mantenere i propri figli: «Si trattava della mia sopravvivenza,
di quella di mio figlio e di un’intera famiglia che
attraverso me aveva ripreso a sperare. Non dovevo avere paura.
La paura era un lusso che non mi potevo permettere»,
racconta una delle ragazze vittime di feroci violenze intervistate
da Moroli e Sibona. «Sono donne forti che vogliono cambiare
la propria vita e avere un po’ di soldi per i propri
figli», dichiara Mirta Da Pra del Gruppo Abele; e una
donna nigeriana che ora ha smesso di prostituirsi così
racconta la sua decisione di partire: «Non c’era
lavoro e io volevo essere indipendente. Ho una grande famiglia,
ma non andavo d’accordo con loro. Volevo stare per conto
mio. Vedi i vicini che stanno bene, che hanno soldi perché
c’è qualcuno in Italia, e allora vai anche tu».
Così sintetizza la situazione la studiosa argentina
Laura Agustín: «Sempre più persone fanno
il viaggio verso l’Europa. Per le donne più povere
del Terzo Mondo i lavori disponibili in patria sono spesso
quelli domestico e sessuale. Dal momento che entrambi i lavori
sono richiesti in Europa e sono pagati molto meglio, viaggiare
ha un senso».
Stereotipi innegabili
Benché sia innegabile che lo stereotipo delle italiane
libere e delle straniere costrette rifletta una situazione
maggioritaria dall’una e dall’altra parte, lo
stereotipo delle «straniere tutte schiave» si
afferma soprattutto per il fatto che la stampa riporta immancabilmente
soltanto i casi più atroci di sfruttamento delle migranti.
Nel periodo che va dal maggio 1999 al dicembre 2001, solo
un articolo tra quelli apparsi sulle pagine locali di Milano
del «Corriere della Sera», un’intervista
con un’albanese, ha presentato una voce che non identifica
la prostituta straniera con una vittima barbaramente sfruttata.
Al contrario, il contatto diretto dà l’impressione
opposta: le moltissime straniere che ho incontrato sulle strade
di Milano e dintorni non avevano l’aria di vivere male
la loro condizione.
Parlavano dei loro progetti di vita, di figli da mantenere
in patria, della casa che stavano facendo costruire al loro
Paese e del problema principale di chi è clandestina,
cioè quello dell’ottenimento del permesso di
soggiorno.
Il loro aspetto non era per niente tormentato o infelice,
anche se non sarà mai chiaro quanta di questa leggerezza
sia dovuta all’esigenza di mercato di presentarsi come
«donnina allegra». Questa impressione di saldezza
è confermata dalla ricerca che Sonia Bella ha svolto
sempre sulle strade milanesi: «Tutte sembravano aver
conquistato (e mantenere) una grossa autonomia decisionale,
che per esempio non prevede la tradizionale figura del protettore».
Bisogna d’altro canto tenere presente che si tratta
di una valutazione che si basa solo sulle donne (albanesi
e uruguayane) che raccontavano più facilmente di sé,
mentre è chiaro che coloro che hanno paura dei loro
sfruttatori difficilmente parlano.
Scrive Antonio Roversi, autore di una ricerca sulla prostituzione
a Modena: «Innanzi tutto le ragazze di questi Paesi
[russe, ucraine, moldave] prendono liberamente e consapevolmente
la decisione di venire a prostituirsi nel nostro Paese [...]
una volta presa questa decisione, contattano esse stesse organizzazioni
che le mettono in grado di raggiungere l’Italia, oppure
vi giungono con un normale visto turistico, e una volta arrivate
si mettono sul mercato. A questo punto stipulano, per così
dire, una sorta di ‘contratto d’affari a termine
con le organizzazioni locali dello sfruttamento della prostituzione»,
che consiste nel cedere loro il 60% dei guadagni, oltre a
pagare il trasporto in Italia a caro prezzo, se è avvenuto
tramite l’organizzazione.
Assuefazione alla prostituzione
La prospettiva di accumulare velocemente con la prostituzione
quello che in patria, a causa della differenza di condizioni
economiche dell’Italia con il Sud del mondo e i Paesi
dell’Est, rappresenta un piccolo capitale può
far sì che si scelga una strategia migratoria di questo
tipo, decidendo che il periodo passato a prostituirsi sarà
breve e che avverrà lontano da casa per evitare la
stigmatizzazione nel luogo di vita. E l’assuefazione
alla prostituzione fa sì che anche chi è stata
costretta e sfruttata possa vedere nel commercio del sesso
un modo accettabile di guadagnare: «Abbiamo avuto un
processo in cui delle slave hanno denunciato l’organizzazione.
Poi gli è stato chiesto: volete essere rimpatriate?
Hanno fatto capire che sarebbero rimaste qualche tempo per
fare soldi prostituendosi», racconta una poliziotta.
Gli operatori delle ong ritengono che sia molto difficile
stare fuori dalla rete di sfruttamento: alcune ci riescono
quando i protettori vengono arrestati, e allora le donne si
auto-organizzano. Altre prostitute indipendenti scendono in
strada solo saltuariamente, cambiando spesso di posto.
Ma spesso il fatto stesso di essere costretta a venire a patti
con chi può assicurare l’ingresso in Italia,
dove le leggi sull’immigrazione diventano sempre più
restrittive, mettendosi quindi interamente nelle mani di trafficanti
per riuscire ad attraversare la frontiera, espone al rischio
di perdere il controllo sulla propria sorte e di finire letteralmente
comprata e venduta dai diversi anelli della catena del traffico
di persone che vogliono emigrare.
I trafficanti conoscono bene le possibilità di alti
guadagni nel settore della prostituzione per donne giovani
e attraenti, e le schiavizzano per sfruttarne il corpo come
una forma di capitale.
Infatti, nonostante il blocco dei prezzi da una decina di
anni a questa parte, dovuto all’aumento spropositato
dell’offerta di sesso sulle strade, in realtà
è possibile fare ancora buoni guadagni: ci sono ragazze
costrette a portare a casa da 500 a 750 euro a notte.
La forma usuale di sfruttamento delle albanesi è la
tipica dinamica del «pappone»: un connazionale
si finge innamorato della ragazza e promette di sposarla nella
ricca Italia, mentre intende sfruttarla costringendola a prostituirsi.
Stupri di gruppo documentati da foto o filmati sono i mezzi
con cui le ragazze sono costrette a piegarsi alla volontà
dei «fidanzati».
Il fatto che esistano le prove della perdita dell’onore
è gravissimo: l’onore di un’albanese è
legato alla verginità, e la sua perdita recide ogni
legame con la famiglia di origine, ogni possibilità
di ritorno. Il più delle volte conduce anche al disprezzo
per se stessa, alla completa perdita di stima di sé.
Nel caso delle nigeriane lo sfruttamento assume la forma di
un «debito» (loan, letteralmente: prestito) contratto
per il viaggio in Italia, debito che onorano dando i soldi
alle maman o inviandoli in Nigeria, cosa che rende il reato
di sfruttamento difficile da provare, dal momento che, come
tutti gli emigranti, esse inviano denaro anche alla famiglia
d’origine.
Agli inizi le nigeriane entravano in Italia grazie alla complicità
che le organizzazioni criminali (pare che la tratta di donne
sia stata iniziata dai trafficanti di droga nigeriani) si
erano procurate presso l’ambasciata italiana di Lagos,
che faceva commercio di visti di ingresso. L’ammontare
della somma da pagare ai trafficanti è in crescita:
dai 10 milioni di lire di cui si parlava per i primi arrivi
alla fine degli anni Ottanta ai 30-40 milioni di lire che
erano la cifra corrente qualche anno fa, mentre in Lombardia
più recentemente sarebbe tra gli 80 e i 120 milioni.
Tuttavia, attualmente tale debito è per lo più
esauribile in uno-due anni di intenso lavoro: «Con una
ragazza nigeriana abbiamo fatto il calcolo che alla maman
ha dato 130 milioni in diciotto mesi: 500.000 lire per il
marciapiede al mese, 50 o 100.000 a settimana per il vitto,
400.000 per l’alloggio» [intervista con un’operatrice
della Caritas, 2001]. Le persone maggiormente in soggezione,
meno in grado di contrastare la volontà degli sfruttatori,
finiscono per essere ricattate sempre di più e pagare
molto più di chi gestisce il patto in modo non succube.
Matrimoni bianchi
«Le nigeriane sanno tutto sulla vita in Italia»,
dichiara un’operatrice della Lila di Milano, intervistata
nel 2001:
-
Non vedono l’ora di finire di pagare per tenersi i
soldi. Poi non tornano perché nessuno le sposa, qui
si sposano con un italiano. Ci sono anche molti matrimoni
bianchi in cui gli uomini vengono pagati. Non accettano
altri lavori, che sono più duri: chi sta con gli
anziani ci vive anche assieme. Anche fare le pulizie è
giudicato più duro. Molte bevono. Non te ne accorgi
sul lavoro ma lo fanno a casa.
- Le
nigeriane sono terrorizzate, non escono di casa. Quando
la polizia le spinge nelle zone più periferiche non
trovano clienti, quindi l’unico che capita lo accettano
senza preservativo. Abbiamo un alto tasso di sieroconversioni
[infezioni da hiv]. Anche per altre malattie a trasmissione
sessuale, è difficile convincerle ad andare dal medico.
Hanno paura di essere espulse. Molti ospedali non curano
chi è senza documenti, anche se c’è
la circolare che impone di accettare tutti per le urgenze.
Sono torturate dalla polizia, mentre i trans sudamericani
senza documenti non sono trattati così male.
Particolarmente problematico è visto il rapporto con
la salute di molte migranti: «Non imparano a curarsi,
e non lo fanno», racconta ancora l’intervistata,
e altre operatrici confermano, come un’operatrice del
cip di Firenze: «Cerchiamo di far prendere loro cura
del proprio corpo. Nessuna usa la contraccezione. Le nigeriane
dicono che la pillola fa male e fa ingrassare».
Gerarchia di
arrivo
Gli spostamenti sul territorio delle prostitute nigeriane
sono organizzati in obbedienza alla gerarchia di arrivo: le
più inesperte vengono messe a imparare sulla strada
in zone più marginali, ovvero con minori possibilità
di guadagno, per poi essere trasferite, se si rivelano affidabili,
nelle città, luoghi più redditizi. È
stato notato anche il passaggio delle prostitute più
anziane, quelle con cinque-sei anni di permanenza, alla prostituzione
negli hotel, un mutamento stimolato dall’intensificazione
delle retate nelle strade negli ultimi anni.
La sottrazione del passaporto è un modo per assoggettare
queste donne, dato che senza documenti validi, senza il visto
per turismo di chi è entrata legalmente, al primo incontro
con la polizia non hanno altra prospettiva che un disonorevole
rimpatrio.
La sottomissione delle nigeriane è comunque per lo
più volontaria: hanno infatti accettato di rimborsare
il loan (il famoso rito vudù cui si sottopongono
è la formalizzazione del loro impegno) e dunque girano
liberamente per l’Italia, a differenza delle donne dell’Est
che sono sottoposte a un controllo strettissimo, in cui il
riscontro sulle somme guadagnate avviene contando i preservativi
rimasti a fine serata, un vero e proprio incentivo a venire
incontro alle richieste dei clienti e lavorare senza condom
per tenere dei soldi da parte.
Sia che sappiano di dover pagare un debito, sia che il conto
venga loro presentato una volta arrivate in Italia, e anche
quando (come in genere accade) accettano di rimborsarlo attraverso
la prostituzione, le nigeriane e le donne di altra nazionalità
che si trovano in tale situazione generalmente ignorano le
condizioni di estremo disagio del lavoro in strada in Italia.
Queste sono modalità diversissime da quelle del Paese
di origine, dove il commercio del sesso è integrato
nel tessuto sociale e si svolge in bar e alberghetti dove
è previsto l’intrattenimento dei clienti e non
solo il rapporto sessuale. Invece dello scenario consueto,
si trovano a battere in strada, in luoghi spesso isolati e
pericolosi, poco vestite in qualunque condizione atmosferica,
con orari lunghissimi e praticamente senza giorni di riposo:
-
In molti Paesi una prostituta può sopravvivere servendo
uno o due clienti al giorno in lavori che includono bere,
ballare e conversare; in alternativa il lavoro può
significare «avere una relazione» con un cliente
per una settimana o più. Per questa lavoratrice,
passare dodici ore al giorno seminuda in una vetrina o sulla
soglia di una porta, servendo fino a venti clienti con nessun
contatto, o pochissimo, che non sia sessuale può
essere un grave choc.
Gli orari di lavoro in strada sono veramente estenuanti.
Nella ricerca di Roversi le intervistate hanno dichiarato
di scendere in strada ogni giorno dalle sei alle otto ore,
cioè dalle 8 o 9 di sera alle 3 o 5 di mattina, mentre
alcune dichiaravano anche dieci ore di permanenza. Gli unici
rallentamenti in questo ritmo quotidiano avvenivano dopo le
operazioni di polizia: per qualche giorno non lavoravano.
Le lunghe ore di lavoro caratterizzano entrambi i modelli
di sfruttamento, sia la pura costrizione sia il desiderio
di liberarsi dal debito il prima possibile.
Porpora Marcasciano, nel corso di un seminario di operatori
di ong che fanno lavoro di strada, ha dato la definizione
più pregnante del cambiamento che il mondo della prostituzione
ha subìto nell’ultimo decennio: «Ora c’è
una massa di persone senza dignità ed extraterritoriali,
perché non entrano nel tessuto sociale. Salta agli
occhi questo muro invisibile tra queste donne e ciò
che le circonda».
Dalla prostituta di strada come figura familiare, conosciuta
per nome (o meglio, per pseudonimo: l’adozione di un
nome falso fa parte delle strategie di distanziamento dal
ruolo di prostituta), «siamo passate a una massa di
persone che non hanno più nome».
Uno dei problemi dibattuti al seminario era appunto quello
di riuscire a creare un punto di contatto: «Per loro
tutto è estraneo, tutto è ostile». Le
trans invece, è stato notato dalla responsabile dell’unità
di strada della Lila, sono più intraprendenti, più
difficilmente si trovano in una simile condizione di smarrimento:
«Le trans conoscono di più la città, sono
più sicure. Le migranti albanesi dicono: io non so
dove sto».
Sessismo diffuso
Il fatto di mantenere le ragazze in una situazione di ignoranza
è parte della violenza fisica, psicologica, economica
esercitata su di loro, che comincia con il sessismo diffuso
nei Paesi di provenienza, molto più feroce di quello
italiano ed esasperato dalle crisi economiche.
Gli operatori di Milano notano che nelle situazioni più
miserevoli si trovano le albanesi sfruttate da fidanzati e
mariti, mentre le ragazze ucraine e moldave riescono a cavarsela
meglio: queste ultime, conferma una mediatrice culturale moldava,
provengono da società in cui le donne hanno ruoli più
importanti.
Lo sono sicuramente se confrontati con quelli cui la cultura
tradizionale albanese relega il sesso femminile. Secondo il
Kanun, il codice tribale albanese che è ancora in vigore
nelle montagne del Nord, la donna è completamente priva
di personalità giuridica. Si legge all’articolo
29 che «finché si trova in casa del marito è
considerata un piccolo otre che sopporta pesi e fatiche».
In questa legge tradizionale è codificata l’inferiorità
spirituale e biologica della donna, con il disprezzo che ne
consegue.
Il fatto che le albanesi sopportino più spesso rapporti
di sfruttamento, che frequentemente sono mescolati all’affettività,
è una spia di quanto questi rapporti in patria siano
normali. «Questa sarebbe schiavitù? E, se lo
è, in cosa differisce da altri centinaia di migliaia,
se non milioni, di rapporti affettivi, tra uomini e donne,
‘normalmente’ simili a questi, che finiscono anch’essi
col matrimonio?» domanda Maylinda, ragazza di vita albanese,
a proposito delle relazioni, che appunto sovente sfociano
nel matrimonio, tra le ragazze che condividono la sua vita
e «i loro presunti padroni», come chiama i fidanzati-sfruttatori.
Il tipo di scelta che devono fare le albanesi viene esemplificato
in modo chiarissimo nella sua lunga intervista (sicuramente
romanzata ma esemplare):
-
Nessuna delle altre ragazze dell’Est, albanesi comprese,
che battono e che non legano con i propri uomini e che tantomeno
li sposano, dopo qualche mese, una volta imparato il mestiere
e visti i guadagni, anche se rapite, comprate, vendute e
maltrattate, vorrebbe tornare indietro. Nessuna. Indietro
dove, poi? A una vita di miseria e di sfruttamento spesso
peggiore della strada? A tornare di nuovo a carico della
famiglia?.
- Per
di più una ragazza non più vergine è
una donna perduta, per la quale il ritorno in famiglia è
impossibile: farebbe ricadere il suo disonore su tutti i
parenti.
Anche negli altri Paesi dell’Est vi è una diffusione
della violenza fisica degli uomini contro le donne che va
molto al di là del livello pur grave del problema in
Italia. Dalle interviste a donne moldave, ucraine, russe effettuate
da Roversi a Modena emerge che la violenza fisica dei genitori
nei confronti dei figli e dei mariti nei confronti delle mogli
«sembra essere la modalità di relazione interpersonale
preponderante».
Nelle società dell’Est Europa è fallita
la via all’emancipazione femminile attraverso il lavoro,
nonostante gli sforzi fatti verso questo traguardo dai partiti
socialisti: anche Ehnver Hoxa cercò di migliorare la
posizione sociale delle donne albanesi permettendo loro di
studiare e di lavorare fuori casa. Il tempo ha rivelato che
si trattò in definitiva solamente di una «doppia
presenza», di un doppio sfruttamento che non ha portato
mutamenti sostanziali di status. Le interviste a prostitute
svolte a Genova hanno dato questo quadro del Paese balcanico:
-
Così, se nelle campagne e sui monti i maltrattamenti
e la fatica sono il quotidiano, nelle città, comunque,
le donne non possono recarsi al lavoro con vestiti «succinti»
(gonne al ginocchio, vestiti privi di maniche...) e possono
truccarsi soltanto a patto di accettare di essere immediatamente
considerate «di facili costumi».
- L’educazione
sessuale non esiste, i rapporti prematrimoniali ritenuti
immorali, la prostituzione e quanto in occidente va sotto
la definizione di «industria del sesso» assolutamente
sconosciuti.
Casini negli
orfanotrofi
Ovviamente non è vero che la prostituzione in Albania
non esiste: «La domanda è internazionale, uomini
d’affari, funzionari di agenzie internazionali e militari,
che si rivolgono alle studentesse. Gli albanesi non hanno
altrettanti soldi e quindi vanno con le rom, che sono in fondo
alla scala sociale. Sono stati scoperti anche casini dentro
gli orfanotrofi», racconta un operatore dell’ics,
che conferma anche l’emarginazione di coloro delle quali
si sa che si sono prostituite in Italia: per loro vi sono
speciali case di accoglienza in tre città.
Gli standard di moralità per le albanesi sono strettissimi:
-
Una donna è una puttana se beve una birra al bar
o fuma. Al bar ci va se accompagnata da un uomo. A Valona
c’è un unico caso di studentesse che vivono
tra loro lontano dalle famiglie, mentre a Tirana ce ne sono
di più. Nelle campagne i matrimoni sono combinati,
c’è un controllo feroce sulle ragazze. Addirittura
ho sentito una leader delle donne dire di chi diventa prostituta
che è perché la famiglia non la tutela, non
se ne prende cura [intervista a un operatore dell’Ics].
A onor del vero, la proibizione dei bar per le donne non
è affatto sparita in Italia: ancora una decina di anni
fa, per esempio, nei paesi vicino ai quali si trova il campus
dell’Università della Calabria, alle ragazze
non era consentito andare al bar e le studentesse venivano
viste come ragazze di malaffare. Vi era, scrive Renate Siebert,
un’«ostilità diffusa del territorio
circostante, il quale, anche dopo tanti anni, si ostina a
rimandare alle studentesse un’immagine di estranee,
di ragazze facili, di ‘puttane’. Non possiamo
uscire dall’ambito universitario, perché siamo
considerate... quando usciamo per andare a fare la spesa ci
guardano come se fossimo delle bestie rare».
Ma tornando ai Paesi dell’Est, non solo in nessuno di
questi ha attecchito un movimento neo-femminista forte (né
vi è stata la rivoluzione culturale del Sessantotto)
ma non sono mai accadute mobilitazioni delle stesse prostitute:
sicuramente non in Albania, Paese comunque economicamente
arretrato e con uno stile di vita da società tradizionale,
ma nemmeno nei Paesi più industrializzati dell’ex
blocco sovietico, e ciò a causa della repressione fortissima
sulla prostituzione e delle restrizioni alla libertà
di espressione e organizzazione politica nei regimi del socialismo
reale. Tuttavia ci sono delle differenze: le donne moldave
in particolare sono per cultura più forti e determinate,
e negoziano con maggior successo i rapporti con i protettori.
Il sociologo Sandro Segre ha indagato i processi di costruzione
e di percezione dello status di prostituta da parte delle
donne straniere che esercitano questo mestiere a Genova, trovando
differenze nello status che le diverse comunità attribuiscono
alle lavoratrici del sesso:
-
Le prostitute nigeriane, marocchine e forse anche quelle
di altre nazionalità sono stigmatizzate ed ostracizzate
dai connazionali che vivono in Italia e sanno della loro
attività. L’ostracismo verso le nigeriane non
impedisce tuttavia la loro partecipazione ad attività,
come feste, organizzate da connazionali, mentre non si registra
ostracismo da parte di connazionali verso prostitute ecuadoriane
e forse altre latino-americane.
Segre ricava dalle interviste l’impressione di una
scarsa stigmatizzazione della prostituzione in Nigeria. Se
questo è vero – ma le mie fonti indicano il contrario
– ciò è probabilmente dovuto al successo
economico di chi ha fatto questa «carriera» in
Italia, non a una diretta e franca accettazione del commercio
del sesso.
Infatti coloro che vengono rimpatriate dalle forze dell’ordine
italiane sono schedate, esposte al pubblico ludibrio come
misura di prevenzione, sottoposte forzatamente a esami medici
e rinchiuse in carcere se risultano sieropositive.
Segre riferisce anche la pratica degli albanesi di divulgare
ai familiari in patria l’attività della giovane
per impedirne il ritorno.
Ha trovato che la stessa minaccia di perdita totale della
reputazione incombe sulle marocchine intervistate: «Per
le prostitute marocchine invece la forte stigmatizzazione
da parte dei connazionali, ed anzi di tutti i correligionari,
sia nella madrepatria sia in Italia, obbliga a una rigida
segmentazione dei pubblici di fronte ai quali è assunto
lo status di prostituta».
Questa stigmatizzazione delle lavoratrici del sesso da parte
dei musulmani si riflette anche nel frequentissimo rifiuto
da parte di chi si prostituisce di accettare come clienti
gli arabi (e spesso anche gli africani neri), sulla base del
fatto che sono violenti e pericolosi. Certamente è
questo il copione standard per interagire con una donna ai
loro occhi completamente priva di status sociale come la prostituta.
Brutale sfruttamento economico
Dalle fonti appare che la quasi totalità di chi lavora
in strada prima o poi subisce atti di violenza e rapine (peraltro
alcune prostitute non rifuggono dal derubare a loro volta
i clienti, se ne hanno l’occasione), anche se altre
testimonianze di operatori delle ong indicano che la violenza
più grande è quella che subiscono dagli sfruttatori,
lontano dalla strada.
Esiste anche una ragione strutturale per l’uso palese
della violenza nell’appropriarsi dei guadagni della
prostituzione di strada da parte di protettori o organizzatori
della stessa: il denaro deve essere letteralmente preso dalle
mani delle donne, cosa che rende molto evidente lo sfruttamento
economico e gli fa assumere forme più brutali di quanto
non accada in altri lavori in cui si è assunti alle
dipendenze di qualcuno e non si maneggia denaro.
Questa violenza è a volte evitata da patti stretti
con le organizzazioni criminali. Si tratta spesso di patti
leonini: alle donne dell’Est, scrive Mirta Da Pra Pocchiesa,
vengono promessi 1.000 euro al mese: «Una volta in Italia,
però, si rendono conto che è ben poco rispetto
ai guadagni che portano allo sfruttatore». Non mancano
le donne ingannate anche su questi accordi e che dei compensi
promessi non riescono a vedere una lira (euro? N.d.R.).
Infatti i contratti che stipulano con gli organizzatori della
prostituzione non possono essere garantiti in nessun modo.
Addirittura i proventi sequestrati agli sfruttatori non vengono
mai restituiti alle donne, per ragioni che riguardano la posizione
di chi si prostituisce di fronte alle leggi abolizioniste,
che non la considerano parte lesa dallo sfruttamento della
prostituzione e neppure vittima di un’estorsione (lo
vedremo meglio più avanti).
I ricatti dei
poliziotti
Le ricerche e la mia stessa esperienza di uscite notturne
e pomeridiane nell’estate del 2001 a bordo del camper
Priscilla (Lila) e nell’inverno 2004 sull’unità
di strada Avenida (Caritas) concordano nel riferire testimonianze
di brutalità subite persino dalle forze dell’ordine
(e anche qui il disprezzo sociale per ciò che fa la
prostituta incide nel modo di trattare con lei) e ricatti
di poliziotti e carabinieri per ottenere prestazioni gratuite
o appropriarsi dei guadagni. Ma gli abusi avvengono anche
durante operazioni legali: «Mi hanno tenuta in questura
due giorni senza mangiare né bere, non ho potuto prendere
le medicine per il cuore e mi hanno preso dalla borsetta 300
euro e il cellulare. Sono stata in Bulgaria, in Turchia: nessuno
ti tratta così», racconta una donna rumena in
Italia con un visto turistico.
Il documento Verbale workshop clienti, distribuito
al convegno della Lila «I progetti per la tutela della
salute delle persone che si prostituiscono: le strategie di
collaborazione con le Forze dell’Ordine, i Clienti,
i Servizi Sanitari» (Milano, giugno 2001), riporta le
testimonianze di cinque nigeriane e due trans peruviane, che
denunciano pestaggi della polizia e distruzione dei preservativi.
Alla prima domanda che era stata loro posta: «Quali
sono i principali problemi che incontrate nel vostro lavoro?»,
la risposta è stata: «La polizia». Parla
una prostituta nigeriana:
-
Qualche volta mi è capitato di finire in mezzo alle
retate; è anche capitato che i poliziotti in cambio
di sesso gratis non ci hanno portato in Questura. Ci sono
perfino gli incaricati dell’elettricità e del
gas che quando vengono a casa per i controlli chiedono almeno
di palparti...
«È un enorme giro di denaro su cui tutti vogliono
mettere le mani», dice un operatore della Lila. Le clandestine
senza diritti sono alla mercé di tutti anche perché
spesso non sanno che la prostituzione in Italia non è
un atto contrario alla legge, e gli sfruttatori creano un clima
di sfiducia nei confronti dei clienti, della polizia (che spesso
nei Paesi di origine è ancora più brutale), di
tutti gli italiani e le italiane.
Solo in Italia, in Belgio e in Spagna, tra tutti i Paesi della
Ue, è stato posto un rimedio al fatto che i «clandestini»
non possono denunciare gli abusi che subiscono, dal momento
che verrebbero espulsi. Esiste infatti una via d’uscita
nel Testo unico sull’immigrazione (L. 286/98, art. 18):
affidarsi a una ong iscritta a un elenco ufficiale, rinunciare
a prostituirsi e intraprendere un «programma di assistenza
e integrazione sociale» (così nella legge) ottenendo
in cambio un permesso di soggiorno detto di protezione sociale,
che attualmente è stato concesso a più di 2.000
donne. Questa norma non riguarda solo il settore della prostituzione
ma tutte le «situazioni di violenza e di grave sfruttamento»,
benché sia di fatto utilizzata solo da ex prostitute.
Concludendo, rimane pur vero che anche oggi, non solo in passato,
la prostituta, anche straniera, può essere una figura
della libertà, anche se rappresenta una libertà
da ostracizzata. Questo scrive Carla Corso, ricordando i suoi
inizi:
-
Le prostitute per me erano persone capaci di conquistarsi
un’indipendenza economica, le consideravo emancipate
rispetto alle altre donne asfissiate dai loro ménages
casalinghi. Non erano dall’altra parte della barricata,
come le considerava la gente. Per me erano persone vincenti,
né vittime né donne da esorcizzare. Pia mi
appariva forte, sicura di sé e del suo lavoro...
e io, che dovevo fare? Stare lì come una scema ad
aspettare che lei tornasse con i soldi per tutt’e
due? No, lo trovavo ignobile.
Anche le straniere attraverso il denaro della prostituzione
si costruiscono un percorso di ascesa sociale:
- Io faccio
la prostituta perché fra un paio d’anni mi
rimetterò a studiare e non dovrò chiedere
niente a nessuno, sono una donna indipendente che non vuole
chiedere niente a nessuno.