Orrore,
orrore, orrore. Che altro dire dopo quanto è successo
in Ossezia, in quel primo, tragico, giorno di scuola. Possiamo
ancora commentare, analizzare, capire le ragioni, i torti,
le speranze, le delusioni, le ingiustizie, di un popolo, di
povera gente che viene manipolata da uno Stato (la Russia)
o da un contro-stato (il terrorismo)?
Non è facile, in questi frangenti, mantenere la calma,
preservare la lucidità, alimentare la speranza.
Ma abbiamo il dovere morale di provarci.
Che cosa sia successo realmente, quale sia stata la dinamica
dei fatti, poco importa di fronte all’esito finale.
La morte, la violenza, il terrore, sono davanti agli occhi
di noi tutti. Nessuno può far finta di non aver visto,
nessuno può esimersi dal pensare, riflettere, non possiamo
tacere, nessun alibi, nessuna giustificazione.
Può forse la pur sacrosanta e giusta rivendicazione
di libertà e di autonomia del popolo ceceno trovare
espressione in un simile terrore, può l’inaudita
violenza messa in atto giustificarsi, o anche solo aggrapparsi,
alla causa di queste genti logorate da una dittatura statale
che reprime ogni anelito di vera libertà?
No, senza se e senza ma. No, no, no!
Allora, almeno per una volta, nessun distinguo, nessuna spiegazione
pur sottile, può anche solo attenuare il nostro sgomento,
la nostra rabbia per quanto è successo in questa scuola,
ma anche per tutto ciò che avviene in tante, troppe,
parti del mondo, in guerre vere e proprie, in paesi sistematicamente
dimenticati come il Ruanda, in tante e troppe realtà
nelle quali sempre più non sono gli eserciti a contrapporsi,
soldati che uccidono e muoiono (e già tutto questo
basterebbe per far sentire tutta la nostra indignazione),
bensì sono i civili (grandi e piccoli) ad essere le
vittime inermi, pedine senza valore di uno sporco sistema
che si regge specularmene sulla contrapposizione tra la politica
degli stati e quella dei terroristi.
Considerazioni ineludibili
Ma alcune domande irrompono prepotentemente
e meritano una risposta. Soprattutto una questione mi pare
debba essere affrontata, non tanto perché il modo con
cui viene continuamente posta sia corretto, quanto perché
ci permette di svolgere alcune considerazioni ineludibili
e necessarie.
La domanda è questa: l’Islam è compatibile
con la democrazia? Come ho già detto questo quesito
è mal posto, perché rincorre una più
o meno esplicita tesi, secondo la quale nel mondo contemporaneo
vi sarebbe un evidente scontro tra due civiltà, quella
islamica e quella occidentale.
Tralasciando la grossolanità di questa tesi, la superficialità
di queste argomentazioni, in realtà tutto ciò
si rivela sempre più come un tentativo di ideologizzare,
alimentando sentimenti come la paura, l’insicurezza,
la religiosità, uno scontro che ha ben altri significati.
Esiste un problema però che va analizzato con serenità
e laicità. Si tratta di quel processo di secolarizzazione
attraverso il quale altre espressioni religiose hanno progressivamente
separato, anche se mai veramente compiutamente, potere religioso
da potere politico.
Questo processo storico ha notevolmente attenuato questa identificazione,
sviluppando una certa laicità dei comportamenti sociali,
separando le scelte storiche da quelle esistenziali e religiose.
In altre parole, con punte più evolute e altre più
tradizionali, gli uomini e le donne che confessano un credo
religioso, sia in occidente che in oriente, a partire soprattutto
dalla rivoluzione protestante per quanto riguarda il continente
europeo, hanno rivendicato una sempre maggiore autonomia di
scelta quando si trattava di problemi sociali.
Questo processo è molto più lento nei paesi
che tradizionalmente sono di religione islamica. Perché?
Inoltre occorre registrare un altro fatto che ci riguarda
più da vicino. L’anarchismo si è sviluppato
in contesti culturali, sociali, geografici diversi tra loro,
ma mai, per quanto ne so, in questi paesi. Perché?
I paesi musulmani considerati più aperti, sono quelli
che hanno aperto più in fretta le porte alla globalizzazione
economica, ma la realtà di queste società, nella
sua struttura essenziale, in termini di sviluppo della libertà
di pensiero e di azione, è diversa da quella delle
società più chiuse?
Esiste quindi una relazione tra religione musulmana, società
islamica e possibilità di libertà?
Non credo possibile accettare le risposte di certi nostri
intellettuali che, con vero spirito ideologico al servizio
del Potere, hanno chiuso la questione con la teoria dell’inevitabile
scontro di civiltà o con quella della superiorità
dell’una sull’altra, con le inevitabili conseguenze
che ciò comporta.
Ma esiste un problema per noi ineludibile. Può, e se
si, in che modo, crescere un progetto di libertà, così
come noi la intendiamo, in un mondo che nei suoi presupposti
fondamentali, non permette agli uomini e soprattutto alle
donne, di scegliere al di fuori della fede religiosa, interpretata
e predicata secondo una tradizione rigidamente gerarchica,
oppure di esprimere comportamenti diversi da quelli codificati?
I problemi sono logicamente complessi e investono questioni
geo-politiche, economiche, culturali, storiche, religiose,
ecc., ma occupiamoci qui di una piccola parte di questa complessità,
pur senza perdere di vista l’insieme ma, nello stesso
tempo, limitando la nostra analisi ad alcuni elementi.
Relativismo o universalismo?
E qui non abbiamo che due apparenti alternative:
o siamo convinti che ogni cultura esprima una concezione della
libertà propria e che questa debba essere non solo
rispettata ma anche difesa e sostenuta (relativismo culturale),
anche quando palesemente in contrasto con quella idea di libertà
che noi abbiamo fin qui faticosamente definito, oppure pensiamo
che esistano dei valori universali, imprescindibili per ogni
contesto sociale umano, che trascendono tutte le relative
situazioni, e che debbano essere difesi e soprattutto sviluppati
laddove non esistono ancora.
Il problema di queste due opzioni è che ambedue non
consentono, alla fine, alcuna vera via d’uscita, nel
senso che entrambe contengono i germi del possibile totalitarismo.
Infatti se noi abbracciamo la teoria del relativismo culturale,
nel momento in cui accettiamo che il concetto di libertà
sia relativo, e sicuramente lo è, non possiamo che,
se desideriamo che ogni essere umano sia libero da ogni forma
di dominio, soccombere, giustificandola, ad una specifica
cultura. Se invece pensiamo che vi siano dei valori universali
a-temporali e a-spaziali e che questi siano quelli del mondo
in cui viviamo, e desideriamo sempre vedere gli esseri umani
liberi, faremo di tutto perché questi nostri principi
diventino di tutti.
Detta così la soluzione non appare che quella di scegliere
tra le due opzioni e ciò è quello che tutti,
a destra e a manca, vogliono costringerci a fare. Ma si sa
che gli anarchici sono irrequieti e insoddisfatti per natura.
E allora dobbiamo trovare come uscirne. Quella che può
sembrare ambiguità, per i cultori della logica da pensiero
unico, talvolta è in realtà una forza che garantisce
ad un argomentare libertario di cercare e quasi sempre di
trovare altre strade, altre soluzioni, senza accettare di
essere schiacciati dentro una logica dualistica rigida.
Valori forti e definiti
Se pensiamo alla nostra storia, al difficile
equilibrio di volta in volta ricercato rispetto a questioni
cruciali come il rapporto coerente tra mezzi e fini, all’uso
della violenza, alla coesistenza quotidiana dentro un sistema
di sfruttamento e di oppressione, alla convivenza stretta
con altri esseri umani così profondamente diversi,
non possiamo che riscontrare come, pur dentro dei valori forti
e definiti, irrinunciabili e universali, la nostra azione
sia stata e sia tuttora nutrita di queste “ambiguità”.
Ma è indispensabile, come ben diceva Paul Goodman,
tracciare il limite, definire di volta in volta alcuni paletti,
oltre i quali non è proprio possibile andare, pena
l’automatica sconfessione dei presupposti fondanti la
nostra idea.
Quindi sia i fanatici religiosi della coerenza, che i pragmatici
degli affari e delle convenienze, non appartengono al nostro
mondo; noi, molto più modestamente, riconosciamo le
nostre debolezze, conviviamo con esse, nella convinzione che
queste siano proprio la nostra forza. Perciò dobbiamo
tracciare il limite sia rispetto al relativismo che all’universalismo
culturale, soppesarli e praticarli fintantoché non
diventano rassegnazione o imposizione. È certamente
difficile, ma non impossibile nella vita quotidiana, perché
attraverso il confronto vero, magari duro, ma sincero, è
possibile tracciare sempre questo limite, rifiutare o accettare,
difendere o combattere, ogni situazione reale. Può
sembrare questo un anarchismo minore, o forse addirittura
un non anarchismo. Preferisco correre questo rischio, piuttosto
che consegnare il mio cervello a qualche cosa che sta fuori
di me. E poi siamo così certi che i valori dell’anarchismo
siano valori universali? O che la nostra idea possa essere
accettata sempre e comunque in ogni tempo e in ogni spazio?
Di sicuro so che non possiamo imporla, mai.