Per quanto uno si
sforzi, le immagini della terribile strage di Beslan ricorrono
prepotentemente ad incipit di qualunque discorso ci si appresti
a fare.
Sappiamo bene che ovunque, nel mondo, la vita di innocenti
è minacciata da guerre e carestie di diversa natura,
eppure le facce stravolte di quei bambini che, usciti da casa
per festeggiare il primo giorno di scuola, si trovano immessi
in un tunnel dell’orrore da uomini e donne in lugubri
tute nere e a volto coperto, determinati a uccidere e a far
saltare l’intero edificio scolastico con tutto il carico
umano che lo occupa, tolgono anche al commentatore più
freddo la voglia di analizzare l’evento, di collocarlo
nel contesto che lo ha prodotto.
A mio sommesso parere, ignominie come queste non possono trovare
giustificazioni di sorta e gli autori non possono invocare
ragioni a sostegno delle loro imprese.
Di più: ammesso che azioni di questo genere abbiano
motivazioni ammissibili sul piano storico e dell’attualità,
il loro compiersi non porta certo acqua al mulino di chi le
compie. A me sembra, però, che la strage dell’edificio
scolastico di Beslan sintetizzi emblematicamente la cruda
realtà di un’epoca che sta smarrendo irreversibilmente
il senso dell’umano.
La pietà non alberga più in nessun angolo del
globo ed è difficile capire se a togliere senso alla
logica del confronto, del dialogo e della solidarietà
tra gli uomini sia un’improvvisa follia che mette tutti
contro tutti per istanze di supremazia e di dominio, oppure
un diffuso, profondo senso di disperazione, di lucida e rassegnata
convinzione che non vi siano soluzioni di sorta per tutti
i mali del mondo, quindi occorre perseguire con ogni mezzo,
anche il più efferato, le condizioni della propria
sopravvivenza.
Ed è una devastante condizione psicologica, questa,
che toglie senso ad ogni progetto e relega nel limbo delle
infauste memorie ogni ideologia che abbia prodotto forme istituzionali
di aggregazione politica, di gestione delle risorse e di assetto
sociale. Ed è obiettivamente difficile arginare questa
pericolosissima deriva, perché dovunque si volga lo
sguardo si intercettano scenari di condizioni esistenziali
insostenibili che non trovano quasi mai soluzioni adeguate
a lenirne gli effetti.
Nessuna soluzione accettabile
Ad eccezione delle aree dove dominano regimi rigidamente
dirigisti, nei quali si sceglie una volta per tutte la strada
di progetti orientati alla autoriproduzione del sistema (Cina
e Russia in prima fila), o dove le condizioni dei popoli sono
tali da impedire qualunque impegno teorico-progettuale che
non sia esclusivamente connesso alla quotidiana sopravvivenza
(ampie zone dell’Africa e dell’Asia, ma non solo),
in tutto il resto del mondo, specie in quello più economicamente
progredito, si tenta di venire a capo di matasse sempre più
ingarbugliate, senza che si scorgano all’orizzonte soluzioni
accettabili.
Se ci soffermiamo per un momento sulla saggistica economico-politica
americana, naturalmente quella seriamente impegnata, lontana
dalle suggestioni della stretta attualità, il primo
elemento che si evidenzia è il giudizio di estrema
precarietà degli attuali equilibri che ancora reggono
il mondo. La deriva imperiale che caratterizza la corrente
neocon abbandona i canoni consueti dell’analisi dell’esistente
per immergersi nell’onirica visione di un’America
emula della Roma imperiale.
In una intervista rilasciata a Corey Rubin, autorevole Professore
Associato di Scienze Politiche al Brooklyn College di New
York, William F. Buckley e Irving Kristo, due “teste
d’uovo” della destra statunitense, sostengono
che l’economia di mercato, con tutte le sue varianti
ed aggiustamenti, “...è una delle ideologie più
antipolitiche della storia... si tratta di una concezione
troppo fragile perchè su di essa si possa fondare un
ordine nazionale, per non parlare di un impero globale”.
Per i due “teorici” occorre che la nazione militarmente
più potente, cioè l’America, imponga la
sua legge, con le buone o con le cattive, che alla sua responsabilità
sia ascritto il compito di normalizzare l’intero ordine
mondiale.
Quando idee del genere hanno diritto di cittadinanza e permeano
la politica di un governo in carica (che non a caso ritiene
di potere imporre la propria idea di democrazia con le bombe,
oggi in un’area così problematicamente diversa
come il Medio Oriente, domani chissà dove), allora
è vero che ci troviamo in un mare di guai: la demenza
infantile di un Hitler o di un Mussolini ha sotterraneamente
percorso mezzo secolo per riemergere nello sguardo bovino
di un texano rincitrullito e dei suoi accoliti.
L’idea di un impero impossibile per esorcizzare un presente
ingovernabile. Del resto, l’America stessa è,
di fatto, una mostruosità economica: è certamente
la maggiore potenza militare, ma se i suoi creditori, per
assurdo, decidessero di rientrare dei soldi prestati, l’amministrazione
dovrebbe subito portare i libri contabili in tribunale e dichiarare
fallimento. E questo, badate, è un problema che, certamente
in termini meno drammatici, deve essere affrontato da chiunque
eventualmente succederà alla torva brigata di Bush.
Politico di basso profilo
Giungiamo così sull’altra sponda del fiume,
a quei democratici che sperano – ma è poco meno
di un sogno anche quello – di vincere le prossime elezioni
presidenziali.
Kerry, lo sappiamo tutti, non è un fulmine di guerra:
è un politico di basso profilo; se ha delle idee forti
sinora non le ha espresse e siccome nell’agone elettorale
americano le parole del candidato presidente non sono soltanto
le sue ma anche quelle elaborate dal suo entourage, mi pare
ci sia poco di che stare allegri.
Sull’evento drammatico della guerra in Iraq, il proposito
meritorio di rimettere l’intera questione all’ONU
e alla NATO trascura il piccolo particolare che, nelle condizioni
di assoluta ingovernabilità in cui il suo paese ha
ridotto quell’area, è assai difficile che gli
organismi interpellati si assumano una responsabilità
così gravosa.
Pacificare l’Iraq, rassicurare i paesi confinanti come
la Siria e l’Iran che l’Occidente intero non giuochi
con uno dei suoi soliti mazzi truccati, è impresa di
decenni, nel corso dei quali la comunità internazionale,
costituita prevalentemente dei paesi più ricchi, dovrebbe
sborsare tanti di quei soldi, per presidiare e ricostruire
materialmente e moralmente l’intero contesto, che, allo
stato, è difficile persino ipotizzare dove possa prenderli.
C’è il petrolio, è vero, ma bisogna pagarlo
e, per quel che riguarda l’Iraq occorre ricostruire
l’intero sistema estrattivo e distributivo. Allora?
Al di là dell’ideuzza molto yankee di lasciare
che altri paghino per i danni da noi procurati, non mi pare
che i democratici offrano soluzioni alternative praticabili.
E la stessa letteratura di riferimento, molto ricca e articolata
nel denunciare le gravi carenze dell’amministrazione
Bush e nell’argomentare sull’anacronismo di ogni
velleità imperialistica, appare smarrita nell’individuare
percorsi alternativi. In un recente saggio/dialogo con il
saggista polacco Adam Michnik, Jonathan Schell, noto esponente
mondiale del movimento antinucleare, nonché saggista
e columnist del “New Yorker”, si lasciava andare
in questa desolata considerazione: “...se la Arendt
ha ragione nell’affermare che il totalitarismo è
una costola presa dalla cassa toracica della civiltà
liberale moderna, c’è da temere la nascita di
altre mostruose creature.
Mi colpisce il fatto che nella civiltà occidentale
dominante, che è appena riuscita a sconfiggere l’ultimo
dei suoi grandi rivali totalitari, si risveglino subito gli
istinti imperialistici... L’Occidente liberale moderno
ha trionfato sui regimi totalitari, ma ora dobbiamo chiederci:
chi siamo? Cos’è questa civiltà? La crisi
di cui parlava la Arendt, temo, è già arrivata”.
È una considerazione per molti versi drammatica, che
spiega, da un canto, lo stallo della sinistra in Europa e
di Kerry negli Stati Uniti e, dall’altro, l’ossessivo
ricorso al rilancio della forza e della violenza della destra
in tutto il mondo e della risposta terroristica che nasce
in aree che avvertono la debolezza di un Occidente che le
ha dominate per secoli senza fornire loro né una sopravvivenza
decente né lo spazio per cercare autonomamente una
soluzione ai loro problemi.
I bambini innocenti della scuola di Beslan sono così
le vittime sacrificali di un pianeta che non trova vie d’uscita
e si spinge sino ad ingoiare i propri figli.