Sudan
Una catastrofe disumana
di Edoardo Puglielli
La crisi che attraversa il Darfur
è forse la più tragica dei nostri tempi.
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Dopo un periodo di
transizione sostanzialmente pacifico, nel 1983 riprende una
nuova fase del conflitto quando Nimeiri, per contrastare le
crescenti tensioni con la Libia, impone la legge marziale
nel Paese, riduce l’autonomia precedentemente concessa
alle regioni del sud, alle cui popolazioni tenta anche di
estendere la legge coranica (shariah).
Alcune divisioni dell’Esercito dislocate nelle regioni
meridionali si ribellano e una di esse, agli ordini di John
Garang, diventa la matrice del Sudan People’s Liberation
Army (SPLA); contro le forze governative viene scelta la lotta
armata.
Nell’aprile del 1985 una cruenta rivolta popolare scoppia
a Khartoum: un sanguinoso colpo di stato porta alla caduta
di Nimeiri.
I ribelli iniziano a ricevere finanziamenti da amministrazioni
o gruppi armati di Paesi vicini e lontani, fra cui Uganda,
Eritrea, Israele e Stati Uniti. Questi ultimi pochi anni prima
erano impegnati ad addestrare Osama Bin Laden e i suoi seguaci
per uccidere i sovietici, inviando loro, tramite la CIA, 3
miliardi di dollari. Nel 1982 fornivano miliardi a Saddam
Hussein per armi destinate ad uccidere gli iraniani; nel 1983
inviavano segretamente armi all’Iran per uccidere gli
irakeni (1).
Dopo un anno di dominio militare, Sadeq el-Mahdi, leader del
partito Umma, costituisce un governo civile di coalizione;
non riesce però ad affrontare i gravi problemi del
paese e a far cessare la guerriglia.
Nel giugno del 1989 un nuovo colpo di stato militare, guidato
da Omar Hassan El-Bashir, rovescia il governo e inizia una
cruenta repressione dell'opposizione politica. Il nuovo governo
è costituito da un gruppo militare dominato dal Fronte
nazionale islamico del Sudan (NIF), organizzazione fondamentalista
il cui braccio politico è il Partito del congresso
nazionale.
Il conflitto si concentra soprattutto nel sud dove provoca
milioni di vittime, costringendo una sproporzionata percentuale
di abitanti ad abbandonare le case per cercare rifugio nei
campi profughi, anche fuori dei confini nazionali specie in
Uganda e in Kenya.
Nello stesso tempo l'esodo della popolazione e lo svolgimento
delle operazioni militari limitano fortemente, e talvolta
bloccano, lo sviluppo economico dell'intera regione (2).
Nei primi anni Novanta si aggiungono i problemi generati da
un'ondata di profughi etiopi.
Durante i conflitti entrambe le fazioni in lotta si rendono
colpevoli di gravissime violazioni dei diritti umani: lo SPLA,
sostenuto dagli USA, è accusato di avere arruolato
molti bambini costringendoli a militare nei propri ranghi
con la forza e di avere gestito gli aiuti umanitari in maniera
monopolistica, negandoli in diverse circostanze alla popolazione
aggravando così il problema frequente della carestia.
Il regime di Khartoum è invece accusato di avere deportato
al nord come schiavi un gran numero di persone e di avere
ordinato alle forze governative, in particolare all’aviazione,
di condurre azioni contro obiettivi civili, anche con l'utilizzo
di armi “non convenzionali” come i gas letali,
provocando stragi indiscriminate.
Nel 1995 il regime sudanese è accusato di complicità
con i terroristi che avevano attentato alla vita del presidente
egiziano Hosni Mubarak.
Le elezioni svoltesi nel marzo del 1996 riconfermano al potere
El-Bashir, mentre il leader islamico Hassan Tourabi è
nominato presidente del Parlamento.
Concedendo asilo politico a molti integralisti, il Sudan diventa
uno dei centri di riferimento per il fondamentalismo islamico
e, per Dipartimento di Stato statunitense, entra a far parte
dei sette "Stati canaglia" accusati di sostenere
il terrorismo internazionale. L’Iraq intanto invadeva
il Kuwait con armi provenienti dagli USA che, a loro volta,
nel 1991, entravano in Iraq e insediavano di nuovo il dittatore
del Kuwait.
Tra il 1992 e il 1996, espulso dall’Arabia Saudita,
Osama Bin Laden si trasferisce in Sudan. Qui stabilisce un
patto di interesse con il governo di El-Bashir, impegnato
nello sfruttamento intensivo dei ricchi giacimenti petroliferi
del Sudan meridionale. Le raffinerie ci sono, mancano le infrastrutture:
oleodotti, strade, ponti e aeroporti. Osama interviene con
i suoi capitali e le sue imprese di costruzioni. Realizza
una grande strada, la Thaadi Road (“strada rivoluzionaria”)
che collega la capitale Khartoum a Port Sudan, nel Mar Rosso.
La strada è davvero rivoluzionaria per il governo sudanese
perché consente il supporto della costruzione degli
oleodotti che trasportano il greggio dai giacimenti della
regione interna di Bahr el Gazal al porto.
Osama prende come terza moglie una nipote di Hassan Tourabi.
Ufficialmente Osama è stato pagato dal governo sudanese
con la cessione della Conceria di Khartoum. In realtà
Bin Laden viaggia con passaporto diplomatico sudanese, usa
le ambasciate sudanesi come basi d'appoggio di tutto il mondo
e versa propri capitali nelle banche di Khartoum. Mette in
piedi anche una finanziaria, la Taba Investment Fund, utilizzata
per riciclare la valuta sudanese in dollari e sterline.
Nel 1996 il governo del Sudan cede a pressioni interne e chiede
ad Osama di lasciare il Paese. Lui si sposta in Afghanistan
(l'Arabia Saudita non lo riaccoglie e, anzi, lo priva della
cittadinanza) ma lascia in Sudan uomini fidati e grossi interessi
economici.
I giacimenti petroliferi si trovano quasi tutti nel Sud, dove
infuria la guerra civile. Spesso i ribelli dello SPLA attaccano
i pozzi. Nel gennaio 2000 Amnesty International denuncia la
presenza di "strani mujaheddin" afgani, malesi e
filippini a guardia dei giacimenti petroliferi sudanesi.
Nord Sudan 1996/97
All'inizio del 1997 l'opposizione sudanese annuncia con orgoglio
di aver portato la guerra nel Nord Sudan: in realtà,
la guerra era presente nel Nord dal luglio 1985.
Non c'è facile accesso ai Monti Nuba dalle frontiere
internazionali. Le forze dello SPLA in quell'area sono isolate.
Raramente vengono rifornite di armi, e gli ufficiali non hanno
avuto promozioni per molti anni. Inoltre, nel dicembre 1995,
l'Alto Comando dello SPLA ha richiamato tutti gli ufficiali
anziani (dal grado di primo luogotenente in su) ai quartieri
generali del Sud. Dato il tragico isolamento dei Monti Nuba,
ci sono voluti mesi per alcuni di loro per tornare, lasciando
così truppe di 6000 uomini sotto il comando di luogotenenti
in seconda per diversi mesi e senza ufficiali per molto più
tempo.
All'inizio del 1996, in risposta alla minaccia militare da
parte delle forze di opposizione nel Sudan dell’Est
(Nilo Blu, Kassala e regione del Mar Rosso), il governo sudanese
decide di concentrare lì le proprie forze. Si ritira
da alcune zone del Sud, mantenendo però il controllo
sulle città principali, i pozzi di petrolio e la strada
del Nilo verso Malakal.
Con questa mossa cerca di tenere la principali forze dello
SPLA a sud del “nono parallelo” (3),
con l’intento di assestare un colpo definitivo alle
forze ribelli a Nord di quella linea (4)
per poi concentrarsi sulla minaccia proveniente da Est.
Il governo conta sul fatto di poter neutralizzare la minaccia
posta dalle principali forze dello SPLA nel Sud soprattutto
dando sostegno a gruppi secessionisti e promuovendo ulteriori
divisioni fra i ribelli. Spera inoltre che l’insistenza
di John Garang, a che i suoi rivali politici interni si riunifichino
secondo le sue proposte, rimanderebbe qualsiasi assestamento
interno al movimento nel Sud.
Questa aspettativa è giustificata e, nell'aprile 1996,
il governo firma una Carta con il Movimento per l'Indipendenza
del Sud Sudan e il gruppo dello SPLA del Bahr el Ghazal. Dietro
il linguaggio elevato, questo è di fatto un patto di
difesa: le concessioni politiche del governo sono di facciata
e ipotetiche (verranno rinnegate nel giugno 1997).
Anche se il governo perde vaste aree dell'Equatoria e del
Bhar el Ghazal, il suo obiettivo di guerra rimane intatto:
mantenere le principali forze dello SPLA a sud del nono parallelo.
Nella zona “di transizione” (fra il nono e il
dodicesimo parallelo a nord) il governo lancia grandi offensive,
ripetutamente, nella zona meridionale del Nilo Blu e nel Kordofan
del Sud, e anche alcuni attacchi contro le forze dello SPLA-United
nella zona settentrionale dell'Alto Nilo (5).
I ribelli non sono comunque pronti per raggiungere un accordo.
Nel frattempo l'offensiva procede, catturando aree strategiche
nel Kordofan del Sud e alcune parti delle aree controllate
dall'SPLA-United nell'Alto Nilo. Si svolgono pesanti combattimenti
nel sud del Nilo Blu ma le forze dello SPLA non vengono fatte
indietreggiare dall'area.
A questo punto il teatro principale degli scontri diviene
il Sudan dell'Est, con fronti di guerra nella zona meridionale
del Nilo Blu, a Kassala e nella regione del Mar Rosso. Le
forze di opposizione nel Sudan dell'Est non vengono sconfitte,
ma il governo riesce ad utilizzare le forze del SSLM (Southern
Sudan Liberation Movement) come reparto di assalto nei suoi
attacchi contro le posizioni dello SPLA nel sud del Nilo Blu,
conservando le proprie principali forze del Nord per il fronte
orientale.
Entro metà 1997 il governo non riesce sconfiggere le
forze di opposizione ad Est e, piuttosto che sprecare le proprie
risorse militari in futili attacchi, si concentra nel contenimento
di un’ulteriore espansione dell'opposizione, mantenendo
le forze principali a difesa delle grandi città. Questo
gli garantisce sufficiente forza militare per intraprendere
offensive nel Sud Kordofan e altrove.
La guerra continua
La strategia del governo sudanese nei Monti Nuba è
quella di commettere crimini contro le persone e le proprietà
dei civili, usando il terrore e l'impoverimento per tentare
di obbligarli alla sottomissione. Questa strategia raggiunge
la sua conclusione attraverso un largo impiego di comuni criminali,
riconosciuti poi come membri delle forze di governo.
Ripetutamente, a distanza di pochi anni, il governo dichiara
la vittoria sullo SPLA nella zona occidentale dei Monti Nuba.
Questa affermazione non è mai confutata perché
le informazioni indipendenti non sono disponibili. Ma nel
maggio del 1992 le affermazioni governative di aver ripulito
Tullishi dai ribelli risultarono infondate dato che una piccola
forza di meno di un migliaio di combattenti dello SPLA resistettero
ad un attacco governativo di quattro mesi portato da oltre
30.000, soldati supportati dall'artiglieria e dagli aerei.
Nel 1997, simili affermazioni governative di aver resa sicura
l'intera area, sono prese con scetticismo. I rapporti sui
combattimenti nella parte occidentale dei Monti Nuba sono
incompleti e richiedono una verifica.
Fame e sfollati
La sofferenza inflitta dalle forze militari sudanesi in termini
di assassinii e distruzioni è poi accompagnata dalla
fame che segue lo spostamento forzato della popolazione. L'area
di Debi-Tabari-Regifi Um Dulu è una delle più
fertili dei Monti Nuba: ora è deserta. Gli agricoltori
che fino a poco tempo fa producevano abbastanza cibo per sfamare
le famiglie ed anche gli sfollati, ora sono al limite della
miseria. Gli allevatori sono alla ricerca disperata di pascoli.
Gli sfollati sono ridotti a costruirsi ripari minimi con erba
e legni; molta gente invece vive in caverne o sotto speroni
di roccia. A dispetto delle accuse e delle pressioni internazionali,
il governo del Sudan mantiene uno stretto embargo sull’area
non controllata dei Monti Nuba.
Nel 1996 si insistette perché i Monti Nuba fossero
inclusi nei soccorsi delle Nazioni Unite. Questa raccomandazione
non è mai stata seguita.
La regione dei monti Nuba è stata assente nel trattato
di pace dell'aprile del 1997.
Dato che la guerra in questi luoghi è lontana dai confini
di altri paesi e non crea profughi, i Nuba rimangono assenti
dall'agenda internazionale. Le agenzie delle Nazioni Unite
sembrano aver dovuto trascurare il problema per non andar
contro molti interessi istituzionali stabiliti, come per esempio
mantenere gli accessi umanitari nel Sud o fornire programmi
di sviluppo nel Nord. Solo alcune organizzazioni umanitarie,
per i diritti umani e religiosi, sono state pronte ad assistere
la popolazione nuba. (...).
Petrolio: le ricerche
L’Italia, con l’Eni, fu tra i primi paesi ad
effettuare ricerche nel paese. Dopo quelle negli anni ’30
della Shell e negli anni ’50 di Mobil e Total, fu l’italiana
AGIP ad avviare le ricerche nella seconda metà degli
anni ’50. L’AGIP Sudan, proprio nel 1999 (nel
momento in cui cominciavano ad emergere i primi risultati)
viene venduta a compagnie private dell’Africa orientale.
Oggi l’Italia è il terzo acquirente di petrolio
sudanese.
Il Paese viaggia alla media di un debito estero pari a 16
miliardi di dollari l'anno. Avrebbe dovuto versare quasi 60
milioni di dollari al Fondo monetario internazionale che,
nel 1993, taglia al Sudan i finanziamenti.
All'inizio del 1999 viene terminato l'oleodotto (1.600 chilometri)
che collega l’area dei giacimenti con Port Sudan. Il
30 agosto 1999 (quando l'oleodotto entra in funzione) il Fondo
monetario internazionale promuove il Sudan da Paese “inaffidabile”
ad “affidabile” (6).
Entrano in gioco grossi capitali stranieri.
Il 30 agosto parte la prima petroliera con 600 mila barili
di greggio. Destinazione: la raffineria della Royal Duth Shell
di Singapore. Il Sudan può esportare 450 mila barili
al giorno e garantirsi un'autonomia energetica per 15 anni.
Un affare enorme, che El-Bashir sfrutta anche per reprimere
le popolazioni del Sud.
Il maggiore investitore estero nella costruzione dell'oleodotto
è la China National Petroleum Corporation; la Cina
è anche il principale fornitore di armi del Sudan.
Il
Sudan ha cominciato ad esportare petrolio nel 1999. L'anno
scorso, questa esportazione ha fruttato 1,2 miliardi di dollari.
Nel 2005, saranno 2 miliardi di dollari. Il più grande
acquirente del petrolio sudanese è la Repubblica popolare
cinese. Ecco la vera ragione della preoccupazione americana
(7).
I dissidi etnico-religiosi transitano in secondo ordine rispetto
al controllo delle risorse produttive, specie quelle petrolifere,
che peraltro, nel 2000, hanno acquisito ulteriore importanza
per la scoperta di altri consistenti giacimenti.
Se le cospicue ricchezze del sud hanno costituito nel passato
un fortissimo richiamo per la classe dirigente del Paese,
oggi sono diventate il vero motivo della guerra civile.
Nell’Alto Nilo Occidentale si verificano scontri tra
le diverse forze governative, per stabilire chi siano le responsabili
della sicurezza dei campi petroliferi. I combattimenti causano
l’ennesima ondata di profughi e la sospensione delle
prospezioni petrolifere. Nel maggio 1999 l’oleodotto
viene attaccato e danneggiato dalle forze dell’opposizione
armata.
Il 30 agosto 1999 (giorno in cui la prima petroliera lascia
Port Sudan per Singapore) diventa una data storica. L'inizio
dello sfruttamento di più di 2 miliardi di barili.
La fine per le popolazioni delle aree petrolifere, costrette
a lasciare le loro terre per permettere alle compagnie di
lavorare indisturbate.
Così, quando la Shell inizia a trasferire i primi 30.000
barili di petrolio, si fa ricorso agli elicotteri governativi
che, utilizzando le basi logistiche delle compagnie petrolifere
(8), uccidono e cacciano la popolazione.
Il governo sospende il permesso di atterraggio a tutti i voli
umanitari e, dando prova di notevole cinismo, sostiene la
tesi che le uccisioni e il massiccio esodo di popolazione
siano causa di conflitti tra gruppi etnici locali, su cui
non ha alcun controllo.
Petrolio: effetti collaterali
Le principali compagnie petrolifere straniere che partecipano
al Progetto petrolifero del Grande Nilo (una partnership da
1,4 miliardi di dollari) sono la canadese Talisman Energy,
la svedese IPC/Lundin, l’austriaca ÖMV (tutte private,
partecipano al 25%), e la China National Petroleum Corporation
(40%) la Malaysia's Oil Company Petronas (30%) e la sudanese
Sudapet (5%), di proprietà dei rispettivi governi.
La Talisman Energy (ritiratasi dal paese nella prima metà
del 2004) è oggi sotto accusa per complicità
con il governo integralista di Khartoum, violazioni dei diritti
umani, genocidio, pulizia etnica, schiavitù.
La
Talisman è in prima linea nella violazione dei diritti
umani in Sudan ed è tempo che sia riconosciuta responsabile
per il ruolo svolto nella brutale Jihad che sta uccidendo
il mio popolo (9).
Con
l'inizio dello sfruttamento del petrolio la guerra ha preso
una drastica svolta. E le responsabilità occidentali
sono grandi. A cominciare da quelle delle compagnie petrolifere.
Ma non solo. Prima era un conflitto tra poveri. Ora il governo
di Khartoum dispone di armi sempre più micidiali. Molte
sono state vendute dalla Cina in cambio delle concessioni.
Ma è la Russia che oggi sta fornendo gli elicotteri
e gli armamenti più sofisticati, che vengono usati
per colpire la popolazione civile, per allontanarla dalle
aree petrolifere e da quelle in cui si stanno facendo nuove
prospezioni (10).
La guerra prosegue per tutto il 1999 nel sud e nell’est
del Paese. In un conflitto dove le regole di guerra vengono
sistematicamente violate, i civili costretti a lasciare i
villaggi sono le principali vittime. Tra queste, soprattutto
le donne e i bambini finiscono per essere assassinati, sottoposti
a stupri, saccheggi e sequestri e ridotti in stato di schiavitù.
I bambini vengono costretti ad arruolarsi nelle varie milizie.
Nessuno viene processato per questi crimini.
Nel dicembre 1999 El-Bashir scioglie il Parlamento del fondamentalista
El-Tourabi privandolo di ogni potere e proclama lo stato d’emergenza.
Viene nominato un nuovo governo ma la guerra civile non sembra
prossima ad una soluzione.
A chi giova la guerra
Nel 2002-2003 il petrolio è la prima fonte per l’export
sudanese. Attualmente il valore dell’esportazione annua
ha superato il miliardo di dollari. I proventi petroliferi
sono tra le principali risorse del governo per le sue politiche
di rafforzamento di sistemi militari.
Alenia Marconi Systems, paritetica tra la britannica Bae Systems
e l’italiana Finmeccanica, fornisce all’autorità
di aviazione civile sudanese attrezzatura radar nell’ambito
di un programma di implementazione del sistema radar civile.
Dopo la fornitura della strumentazione per l’aeroporto
civile della capitale, la seconda fase prevede l’installazione
di radar di sorveglianza e controllo del traffico aereo in
aeroporti del nord, del centro e del sud come Port Sudan,
El Obeid, Juba. Quest’ultima località, che ospita
un aeroporto internazionale, è in piena zona di conflitto,
quindi con un traffico prevalentemente commerciale e di aiuti
internazionali ma, soprattutto, militare. Nella vendita di
questo tipo di tecnologie l’Italia si preoccupa poco
del doppio uso – civile o militare – che ne può
essere fatto, nonostante una legge che regola l’esportazione
di prodotti ad elevata tecnologia imponga controlli sull’effettiva
destinazione d’uso. In questo caso però, il governo
italiano non ha ritenuto opportuno effettuare contestazioni,
nonostante la posizione non certo trasparente del governo
sudanese in materia di armi.
Non c’è dubbio che il petrolio – o meglio,
a chi appartiene e chi ci guadagna – sia la nuova causa
di questo vecchio disastro. Il governo sudanese è riuscito
facilmente a rompere il precedente isolamento internazionale
ed ha potuto lanciare una campagna militare per “bonificare”
una vasta area intorno ai campi petroliferi, così da
garantire la sicurezza delle nuove prospezioni.
Il petrolio costituisce il 70% delle esportazioni e concorre
a bilanciare gli altri settori produttivi ma il Paese ha anche
un forte indebitamento dovuto alle spese militari che, oltre
ad assorbire gli introiti della maggiore risorsa sudanese,
impediscono anche di stanziare fondi in investimenti di natura
sociale.
Accanto all’aumento degli sforzi militari nel sud e
nell’est del Paese, il governo sudanese ha intensificato
anche la repressione politica, ponendo agli arresti presunti
oppositori (giornalisti, avvocati ed esponenti politici),
sottoponendo ad intimidazioni e torture studenti e attivisti
per i diritti umani e sopprimendo alcune testate giornalistiche.
Anche le organizzazioni non governative impegnate a portare
soccorso alle popolazioni sudanesi hanno incontrato seri problemi:
il capo dell’Ufficio Programmi dell’UNICEF, Hamid
el-Basher Ibrahim, è stato arrestato nella sua abitazione,
dalla quale sono stati prelevati il fax, il telefono e il
computer. L’arresto dell’uomo, successivamente
rilasciato senza alcuna accusa, è da mettere in relazione
a un rapporto pubblicato dall’UNICEF sulla schiavitù
nella zona di Wau, nel quale l’esercito e le PDF venivano
accusati di sequestro e stupro di donne e bambini.
Particolarmente vessate sono le donne, che nel Sudan centrale
e anche nella capitale Khartoum, subiscono gravi limitazioni
della loro libertà di movimento. L’Atto sull’Ordine
Pubblico del 1992 impedisce alle donne che vogliono vendere
i loro prodotti di circolare dalle 5 della sera alla stessa
ora della mattina successiva. I passaporti per le donne che
vogliono viaggiare all’estero sono emessi solo dietro
permesso scritto di un tutore di sesso maschile. La violenza
all’interno dei nuclei familiari – in cui i parenti
maschi hanno un controllo totale sul corpo, i figli e i beni
delle donne – si riproduce senza sosta.
A Khartoum 24 studenti e studentesse sono stati arrestati
e condannati dal Tribunale per l’Ordine Pubblico a 40
frustate e a una multa per aver commesso atti indecenti e
immorali e aver indossato abiti che “hanno causato reazioni
negative nel pubblico”. Gli studenti stavano prendendo
parte a un pic-nic organizzato col permesso dell’Università:
le ragazze indossavano abiti occidentali (camicie, magliette
e pantaloni) e tenevano per mano i loro colleghi mentre ballavano
una danza tradizionale.
Il 30 novembre 2003 (dopo due decenni di indifferenza da parte
della comunità internazionale) sono stati ripresi in
Kenya i colloqui tra il Governo di Khartoum e i ribelli del
Sudan People's Liberation Army (SPLA) per porre fine alla
guerra civile. I colloqui di pace, fra alterni e discontinui
risultati, hanno portato ad un cessate-il-fuoco che dovrebbe
preludere ad una pace definitiva, per cui, dopo sei anni di
“transizione”, il sud del Paese dovrà raggiungere
una larga autonomia da Khartoum.
Le trattative sono supportate dal-l'IGAD (Inter-Governmental
Authority for Developement), che abbraccia diversi Paesi confinanti,
oltre anche agli USA. Proprio l'intervento del governo americano,
anche se non certamente mirato per questioni umanitarie, è
stato determinante nel raggiungimento di una intesa di massima:
Washington ha, infatti, promesso enormi finanziamenti alle
parti in cambio di un accordo di pace, che dovrebbe portare
ad un significativo aumento della produzione di petrolio.
Darfur: grave crisi umanitaria
Mentre a sud sembra faticosamente aprirsi uno spiraglio di
pace, nuovi timori sorgono per le crescenti violenze nella
provincia del Darfur, regione desertica situata nel nord-ovest
del Paese, ed abitata per lo più da tribù islamico-animiste
nomadi. Negli ultimi anni quest’area è stata
al centro di una campagna di repressione da parte del regime,
che ha cercato di stabilirne il controllo utilizzando il pugno
di ferro, tramite rastrellamenti, arresti e condanne a morte
di oppositori, oltre ad abusi sulla popolazione civile da
parte dell'esercito stesso o di squadre paramilitari.
Alcune delle etnie locali più rappresentate (fra cui
i Fur e i Masalit), sostenute dallo SPLA, hanno cominciato
una nuova campagna di lotta armata contro il governo che,
a sua volta, ha reagito rifiutando qualsiasi soluzione negoziale
e replicando agli attacchi. I gruppi ribelli accusano il governo
d’averli estromessi dalle trattative di pace e di sostenere
le milizie arabe Janjaweed (“uomini a cavallo”,
miliziani al soldo del governo centrale), responsabili di
violenze contro la popolazione nera in Darfur.
Amnesty International (11) si è
recata nel Darfur. I suoi ricercatori raccolgono numerose
testimonianze su massicce violazioni dei diritti umani compiute
dai Janjaweed, aiutati dalle truppe regolari dell’esercito
sudanese che, attraverso l’aviazione, lancia bombardamenti
indiscriminati contro i villaggi. Le testimonianze confermano
l’esistenza di un sistema di uccisioni illegali, stupri,
sequestri, incendi di villaggi ed espulsione della popolazione
civile; notizie di uomini uccisi all’interno delle moschee,
giovani donne stuprate di fronte ai mariti, donne anziane
bruciate vive all’interno delle loro abitazioni: crimini
commessi con l’intento di umiliare la popolazione civile
e distruggere la vita comunitaria.
I governi della comunità internazionale, l’Unione
Africana, l’Unione Europea e la Lega Araba condannano
all’unisono le violazioni dei diritti umani nel Darfur.
Tuttavia, queste parole non si sono tradotte in azioni concrete:
la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore
del prossimo attacco dei Janjaweed. I profughi interni sono
in pericolo e con l’incubo della carestia; quelli che
sono riusciti ad entrare in Ciad rimangono a rischio sia per
l’insicurezza della frontiera che per l’insufficienza
degli aiuti umanitari.
Il giudizio di Human Rights Watch e dell’Alto commissariato
delle Nazioni Unite è unanime: il governo sudanese
è responsabile di genocidio e di crimini contro l’umanità.
(…).
Il conflitto che da oltre un anno e mezzo sconvolge la provincia
del Darfur e le comunità d’accoglienza dei rifugiati
sudanesi in Ciad orientale, ha prodotto una delle più
gravi crisi umanitarie del continente, caratterizzata da scontri
persistenti, diffuse violazioni dei diritti umani e da un
massiccio sfollamento di popolazioni.
I 2/3 delle popolazioni colpite sono costituiti da donne e
bambini, ridotte in condizioni di vita disastrose ed esposte
al costante pericolo di malattie, abusi e violenze. I tassi
di mortalità tra le popolazioni sfollate sono fino
a 10 volte superiori ai livelli registrati per il resto della
popolazione sudanese e hanno di gran lunga superato la soglia
di riferimento sulla cui base le agenzie umanitarie definiscono
le situazioni di crisi: un decesso al giorno ogni 10.000 persone.
Ogni mese tra le 6.000 e le 10.000 persone muoiono per le
conseguenze del conflitto: tra questi, migliaia di bambini
che, ogni mese, perdono la vita a causa di malattie che potrebbero
essere prevenute o curate, per le conseguenze delle violenze
inferte loro o per le insostenibili condizioni di vita a cui
sono costretti nei campi di accoglienza.
Nonostante le pressioni esercitate dalla comunità internazionale
la situazione di crisi non accenna ad affievolirsi. Lo scorso
30 agosto, alla scadenza del periodo indicato dal Consiglio
di Sicurezza dell’ONU perché Khartoum desse prova
concreta del proprio impegno nel disarmo delle milizie Janjaweed
o, in alternativa, si preparasse a subire la possibilità
di sanzioni e di un intervento internazionale, si sono registrati
nuovi attacchi dell’esercito regolare a danno di civili,
confermati sia dagli osservatori ONU sia da quelli dell’Unione
Africana presenti nel Darfur. Il 18 settembre, il Consiglio
di Sicurezza ha approvato una nuova risoluzione in cui si
minacciano sanzioni a danno dell’industria petrolifera
sudanese, se il Governo di Khartoum non provvederà
concretamente alla protezione delle popolazioni civili.
L'emergenza nei tre stati del Darfur
Il 31 agosto, il Governo di Khartoum e il principale gruppo
ribelle del Sud Sudan, il Sudan People’s Lieberation
Army (SPLA), hanno prolungato di 3 mesi il cessate il fuoco
in atto nel quadro degli accordi di pace firmati lo scorso
6 giugno, con i quali si tenta di porre fine al conflitto
tra Nord e Sud del paese.
Gli accordi di pace, però, non interessano la regione
occidentale del Darfur, dove la situazione umanitaria rimane
drammatica e in costante peggioramento.
La provincia sudanese del Darfur si estende su una superficie
paragonabile a quella della Francia ed è suddivisa
nei 3 Stati del Darfur settentrionale, meridionale e occidentale,
la cui popolazione – 6,7 milioni di abitanti –
rappresenta il 20% del totale della popolazione del Sudan.
Nel febbraio 2003, tre gruppi a base etnica africana hanno
preso le armi contro il Governo di Khartoum, costituendo 2
diverse formazioni ribelli, il Sudan Liberation Movement/Army
e il Justice and Equality Movement (JEM).
Obiettivo dei ribelli è contrapporsi agli attacchi
sferrati contro i villaggi africani dalle Janjaweed, armate
dal governo centrale.
La guerra civile che ne è scaturita ha prodotto la
più grave crisi umanitaria dal 1998, caratterizzata
da gravissime violazioni dei diritti umani, da violenze efferate
a danno dei civili e dalla distruzione e il saccheggio di
interi villaggi d’etnia africana.
Il conflitto è proseguito nonostante l’accordo
di cessate il fuoco. Aerei governativi hanno bombardato case
nel Darfur, uccidendo decine di civili, mentre le milizie
Janjaweed hanno attaccato villaggi, uccidendo deliberatamente
civili, bruciando le case e facendo razzia del bestiame e
di altre proprietà. Come risultato, centinaia di migliaia
di persone si sono rifugiate nelle città della zona
o hanno varcato il confine con il Ciad.
Le autorità governative hanno commesso numerose violazioni
dei diritti umani in risposta al conflitto. Decine di persone
sono state arrestate e tenute in isolamento prolungato dalle
forze di sicurezza nazionale, dalla sicurezza militare e dalla
polizia. Nei centri della sicurezza militare nel Darfur la
tortura è sistematica, comprese percosse e scosse elettriche.
I detenuti trattenuti per reati come furto, omicidio o banditismo
hanno subito processi sommari e iniqui. Centinaia di prigionieri
sono stati rilasciati dal governo e dallo SPLA dopo il cessate
il fuoco di settembre, ma gli arresti e la carcerazione di
persone sospettate di collegamenti con gruppi di opposizione
armata continuano.
Tra giugno e settembre, le città di al-Tina, Kornoy
e Kutum, nel Darfur settentrionale, e i villaggi limitrofi
sono stati ripetutamente bombardati da aerei governativi.
Durante il bombardamento di Kutum sono stati distrutti l’ospedale
e la prigione e sarebbero morte 42 persone, compresi pazienti,
guardie carcerarie e detenuti. Sono stati riferiti bombardamenti
indiscriminati anche durante il periodo del cessate il fuoco,
nel corso dei quali sono rimasti uccisi decine di civili.
Case e edifici pubblici sono stati distrutti.
SPLA e JEM hanno posto in pericolo la popolazione civile stanziando
le loro forze in zone civili. Sono state inoltre segnalati
saccheggi e torture da parte del JEM.
- Il 16 agosto, la Janjaweed ha attaccato
Garaday, un villaggio di circa 400 abitanti vicino alla città
di Silaya e, secondo quanto riferito, avrebbero ucciso circa
200 civili, alcuni nelle loro abitazioni, e picchiato e arrestato
altri. Tutti i superstiti sono fuggiti.
- Il 20 agosto il villaggio di Murli ha subito l’incursione
di milizie sostenute dal governo, nel corso della quale sono
rimaste uccise a colpi d’arma da fuoco o bruciate vive
nelle loro abitazioni, 82 persone. Murli è stato nuovamente
attaccato dalle milizie Janjaweed a settembre, in un giorno
di mercato, e 72 persone sono state uccise.
- Durante le incursioni delle Janjaweed contro i villaggi
sono state commessi atti di violenza contro le donne, comprese
violenze sessuali. Secondo quanto riferito, a Murli, tre ragazze,
di 10, 15 e 17 anni, sono state stuprate da appartenenti alla
Janjaweed mentre cercavano di fuggire dall’attacco.
Fonti riferiscono che due donne, dell’età di
20 e 25 anni, sono state stuprate da appartenenti alla Janjaweed
mentre raccoglievano legna nei pressi del villaggio.
- A settembre, sei persone sono state arrestate dal JEM come
spie e picchiate col calcio dei fucili. Appartenenti al JEM
hanno poi hanno versato nella bocca, nel naso e nelle orecchie
di due di loro una miscela di acido, peperoncino e benzina.
Nell’insieme, scontri tra truppe regolari, SPLA e altre
milizie continuano in tutti e tre gli Stati del Darfur, anche
se risultano più intensi nel Darfur settentrionale
e meridionale. La grave situazione di instabilità è
inoltre acuita dai ricorrenti scontri tra tribù di
origine araba ed africana, con numerosi villaggi dati alle
fiamme e un ingente numero di morti e feriti.
Situazione delle popolazione sfollate
Nonostante i colloqui di pace avviati alla fine di agosto
da Governo e ribelli ad Abuja, in Nigeria, sotto l’egida
dell’Unione Africana, la situazione delle popolazioni
sfollate nel Darfur rimane estremamente precaria: stupri e
violenze a danno di donne e bambine continuano impunemente;
il Governo di Khartoum insiste affinché gli sfollati
facciano ritorno alle rispettive terre di origine, senza che
vi siano le condizioni minime di sicurezza per il loro reinsediamento;
le milizie Janjaweed proseguono indisturbate a commettere
violenze ed abusi nelle aree intorno ai campi per sfollati.
Alla fine di agosto, gli sfollati registrati in 130 siti di
accoglienza – che vanno da campi che accolgono migliaia
di persone a edifici pubblici e scuole occupate – risultavano
1.227.460: 326.422 nel Darfur meridionale, 398.773 nel Darfur
settentrionale, 502.265 nel Darfur occidentale.
Nonostante le rassicurazioni del Governo sudanese circa l’accesso
degli aiuti umanitari alle popolazioni civili, durante il
mese di agosto numerosi sono stati gli ostacoli opposti alle
operazioni umanitarie.
Le difficoltà maggiori continuano a essere legate alla
prosecuzione degli scontri e ai frequenti atti di banditismo,
che rallentano, quando non impediscono, l’invio degli
aiuti e lo spostamento degli operatori umanitari.
Mortalità infantile
Nel Darfur i tassi di mortalità tra le popolazioni
sfollate sono fino a 10 volte superiori ai livelli registrati
per il resto della popolazione sudanese e hanno di gran lunga
superato il livello di riferimento usato dalle agenzie umanitarie
per indicare le situazioni di crisi umanitaria; 1 decesso
al giorno ogni 10.000 persone: nel Darfur settentrionale il
tasso di mortalità ha raggiunto il livello di 1,4 morti
al giorno ogni 10.000 persone, nel Darfur occidentale quello
del 2,9.
Sono le disastrose condizioni di vita nei campi di accoglienza
– con temperature che di notte scendono sotto lo zero,
scarso accesso ad acqua, cibo e generi di prima necessità,
carenza di servizi igienico-sanitari e condizioni igienico-ambientali
aggravate dagli effetti della stagione delle piogge –
a moltiplicare i pericoli di epidemie e malattie che, insieme
a tassi di malnutrizione infantile in costante aumento, hanno
prodotto un drammatico aumento dei tassi di mortalità
infantile.
La diarrea acuta è legata al 75% delle morti tra i
bambini; febbre, infezioni respiratorie acute e le ferite
prodotte durante gli attacchi ai villaggi rappresentano le
prime cause di mortalità infantile.
Finché gli attacchi alle popolazioni civili non cesseranno,
difficilmente sarà possibile fornire loro assistenza
e aiuti adeguati, invertendo la drammatica situazione attuale,
che vede migliaia di bambini morire ogni mese a causa di malattie
prevenibili o comunque curabili.
Darfur settentrionale: durante il mese di agosto, si sono
registrati nuovi attacchi delle milizie Janjaweed a danno
di villaggi abitati da popolazioni di origine africana. A
causa dei duri scontri tra forze governative e SPLA, diverse
aree rimangono inaccessibili agli aiuti.
Nonostante ciò, grazie a delicate trattative condotte
con i capi ribelli del SPLA, l’8 settembre l’UNICEF
ha potuto avviare, nelle aree sotto il loro controllo, la
vaccinazione di 150.000 bambini che non era stato possibile
vaccinare durante la campagna di vaccinazione di giugno-luglio.
Darfur meridionale: ai primi di agosto, diversi operatori
ONU hanno ricevuto informazioni su attacchi sferrati da milizie
di cammellieri, appoggiate da soldati in uniforme, a danno
di almeno 3 diversi villaggi con popolazione di origine africana.
Molti sfollati sono ancora sistemati in numerosi edifici pubblici,
dove si registrano infiltrazioni di Janjaweed, con il saccheggio
di beni e attacchi ai civili che vi sono accolti.
Le condizioni delle popolazioni sfollate si sono ora aggravate
con l’inizio della stagione delle piogge, che ha reso
molte strade e sentieri impraticabili, ostacolando ulteriormente
l’invio degli aiuti umanitari. Aumentano inoltre le
preoccupazioni per la diffusione di malattie come la diarrea
acuta, il colera e la malaria, i cui rischi risultano maggiori
alla luce delle mutate condizioni climatiche e igienico sanitarie.
Darfur occidentale: durante il mese di agosto si sono registrati
nuovi attacchi e violenze nelle aree circostanti i campi per
sfollati.
Le agenzie dell’ONU hanno constatato un significativo
aumento di milizie Janjaweed intorno ai campi di accoglienza,
rendendo di conseguenza impossibile i movimenti al di fuori
dei campi stessi: la maggior parte delle violenze a danno
di civili avviene infatti presso i campi e le comunità
di accoglienza, soprattutto a danno di donne e bambine in
cerca di legna da ardere.
Le condizioni di vita degli sfollati restano drammatiche:
la maggior parte dei bambini e delle donne non dispone di
vestiario adeguato e incontra notevoli difficoltà d’accesso
all’acqua potabile.
Le principali malattie riscontrate tra la popolazione infantile
sono il morbillo, le infezioni respiratorie acute, le malattie
cutanee, le infezioni oculari e all’apparato uditivo,
tutte dovute alle pessime condizioni sanitarie, igieniche
ed abitative in cui versano gli sfollati.
Torture sistematiche
La tortura è praticata in modo sistematico dalle forze
di sicurezza nazionale e militare nel Darfur, oltre ad essere
applicata frequentemente altrove.
– Cinque persone, di etnia nuba,
di Dongola, sono state arrestate dalla sicurezza nazionale
a maggio, al termine di un incontro per discutere delle fasi
del rimpatrio dopo il processo di pace. Secondo quanto riferito,
le forze di sicurezza nazionale li hanno picchiati con violenza
e hanno versato loro addosso acido da batteria. Uno di loro,
Awad Ibrahim, è morto in custodia. A giugno, altri
due sono stati portati all’ospedale di Khartoum. Sono
stati rilasciati senza accuse a luglio. Non è stata
condotta alcuna indagine indipendente sulla tortura e la morte
di Awad Ibrahim.
– Quarantaquattro persone per lo più
di etnia ma’aliya sono state torturate a Aduma
nel Darfur meridionale dopo essere state arrestate a luglio
dalla polizia e dall’esercito, apparentemente per ottenere
informazioni o per costringerli a confessare di essere coinvolti
nell’uccisione di un uomo di etnia rizayqat.
Secondo quanto riferito, sono stati picchiati con violenza
con bastoni, tubi di plastica e con il calcio dei fucili.
Alcuni sarebbero stati torturati con scosse elettriche, a
uno di loro è stato inserito nell’ano un manganello
metallico. Un medico ha confermato che le lesioni erano compatibili
con le denunce. Dopo che la loro tortura aveva ottenuto ampia
pubblicità, le loro “confessioni” sono
state rifiutate da un Tribunale penale speciale a Nyala e
43 di loro sono stati rilasciati.
Tribunali speciali
Tribunali speciali nel Darfur settentrionale e occidentale
e Tribunali penali speciali nel Darfur meridionale hanno continuato
a comminare pesanti pene al termine di processi iniqui. Spesso
agli avvocati non è stato permesso di presentarsi se
non in qualità di “amici”, e le “confessioni”
estorte con la forza sono state di frequente acquisite agli
atti.
Trentotto persone sono state giudicate davanti al Tribunale
penale speciale di Nyala e 26, tra cui un minorenne, sono
state condannate a morte ad aprile, con l’accusa di
avere ucciso 35 persone e averne ferite altre 28 durante un’incursione
nel villaggio di Singita, nel Darfur.
Gli accusati sono stati tutti rappresentati da tre avvocati
ai quali non è stato concesso di consultare i loro
assistiti o la documentazione relativa fino a cinque giorni
prima dell’inizio del processo, a marzo.
I tre giudici, dei quali uno apparteneva alla polizia, uno
all’esercito e il terzo, presidente della corte, era
un civile, hanno permesso agli avvocati della difesa di porre
soltanto quattro domande a ciascun accusato e a ciascun testimone.
All’accusa è stato consentito di porre un numero
di domande illimitato. La sentenza di morte per il minorenne
è stata commutata in appello a 25 frustate a maggio.
La sentenza è stata eseguita immediatamente.
Restrizioni alla libertà di espressione
Nonostante le promesse in agosto che la censura sarebbe stata
tolta, la libertà di espressione ha continuato a essere
limitata.
Il “Khartoum Monitor”, un quotidiano in lingua
inglese, ha subito numerose sanzioni: ne è stata sospesa
la pubblicazione, sono state confiscate tutte le copie ed
è stato multato in diverse occasioni. Un giornalista
del quotidiano ha trascorso 18 giorni in carcere a marzo e
a maggio il direttore amministrativo è stato tratto
in stato di fermo per una notte e malmenato.
Difensori dei diritti umani hanno continuato a subire vessazioni
e talvolta sono stati arrestati. Ghazi Suleiman, presidente
del Gruppo sudanese per i diritti umani, è stato arrestato
a luglio e trattenuto nel carcere di Kober mentre l’associazione
stava per organizzare una cerimonia in occasione della Dichiarazione
di Khartoum con la quale veniva chiesto di porre fine alla
legge islamica e al governo monopartitico del Sudan.
Rifugiati sudanesi nel Ciad Orientale
Durante il mese di agosto si è registrato un intensificarsi
dei raid oltre confine delle milizie Janjaweed – a danno
dei rifugiati sudanesi in Ciad – e dei combattimenti
lungo la frontiera, mentre numerosi profughi sudanesi hanno
riferito che tanto i Janjaweed quanto l’esercito regolare
impediscono ai civili in fuga di varcare il confine con il
Ciad.
Le autorità del Ciad hanno dispiegato 5.000 soldati
lungo la frontiera, mentre un contingente militare francese
è stato schierato tra André e Birak, sempre
al confine con il Sudan: la situazione rimane tesa, facendo
temere un’internazionalizzazione del conflitto.
Delle 190.000 persone rifugiatesi in Ciad, la maggior parte
sono donne e bambini, costretti a vivere in una situazione
di estrema difficoltà, per lo più in piccole
capanne di emergenza, in condizioni climatiche avverse e con
scarso accesso ad acqua, cibo e servizi essenziali. I civili
sudanesi continuano a oltrepassare il confine per sfuggire
ai brutali attacchi sferrati contro i loro villaggi, arrivando
in Ciad spesso con i soli indumenti che indossavano al momento
della fuga. Molti bambini sono stati testimoni di violenze
efferate commesse contro i loro familiari ed amici; la maggior
parte di loro non frequenta la scuola da mesi e il loro inserimento
scolastico in Ciad è ostacolato dalla diversa lingua
di insegnamento, dal momento che i programmi didattici in
Sudan sono in lingua araba, in Ciad in lingua francese.
Ostacoli agli aiuti
Gli aiuti ai civili sudanesi sono resi estremamente difficili
non solo dalle insufficienti condizioni di sicurezza lungo
il confine, ma anche dalla vastità dell’area
in cui si trovano le popolazioni rifugiate: oltre 600 km lungo
il confine tra Sudan e Ciad, in territori privi di strade
e spesso perfino di sentieri percorribili che, con l’arrivo
della stagione delle piogge, hanno finito per costituire un
ulteriore ostacolo all’accesso dei veicoli umanitari.
Durante il mese di agosto, la strada principale tra la capitale
N’Djamena e Abéche, nell’area orientale
in cui si trovano i campi profughi, è divenuta impraticabile
per le piogge e lo straripamento di alcuni fiumi, in un caso
isolando del tutto un campo profughi: per far fronte a tale
situazione, si pensa di costruire una piccola pista di atterraggio
per l’invio di piccoli aerei cargo; altri aiuti stanno
venendo inviati sfruttando i cargo messi a disposizione dai
militari francesi. Infine, una devastante invasione di locuste
– il fenomeno interessa la fascia di territorio del
Sahel che va dalla Mauritania al Ciad – ha colpito le
aree orientali del Ciad, tra cui quelle in cui si trovano
i profughi sudanesi, mettendo in serio pericolo le già
scarse riserve alimentari delle comunità di accoglienza,
con drammatiche conseguenze sullo stato nutrizionale dei bambini
rifugiati e di quelli delle comunità di accoglienza.
Ripercussione dell’afflusso di rifugiati
sulle comunità di accoglienza in Ciad
Dalla fine del 2003, il flusso di rifugiati sudanesi in Ciad
è divenuto insostenibile per i servizi di assistenza
delle regioni oltre confine, con gravi ripercussioni sulle
comunità locali delle aree di accoglienza – circa
460.000 persone – che necessitano anch’esse di
un’urgente assistenza umanitaria: le popolazioni delle
comunità di accoglienza sono state costrette a dividere
le proprie scorte alimentari e idriche con i civili sudanesi
e risultano fortemente impoverite dalla presenza dei rifugiati.
I già precari servizi sanitari della regione sono sottoposti
a una pressione insostenibile per l’enorme aumento dei
pazienti: nelle aree di accoglienza vi è una sola struttura
sanitaria sufficiente per non più di 10.000 persone.
In 2 distretti sanitari dell’area, la copertura vaccinale
contro difterite, tubercolosi e tetano non supera il 10% della
popolazione infantile; mancano i farmaci anti-AIDS e le autorità
locali non hanno organizzato alcuna campagna di prevenzione.
Per ciò che riguarda i servizi scolastici, le strutture
esistenti sono insufficienti, mancano insegnanti qualificati
e scarseggiano i materiali essenziali alle attività
didattiche. (…).
Edoardo Puglielli
Note
-
M. Moore, Bowling a Colombine, Dog eat dog films
production, USA, 2002
- Si
stima che dal 1983 al 2000, circa 2 milioni di Sudanesi abbiano
perso la vita e che almeno altri 4 milioni e mezzo, una cifra
mai riscontrata in altri paesi, risultino "profughi interni".
Più di 350.000 Sudanesi hanno ottenuto asilo politico
all’estero.
- Linea
che attraversa approssimativamente Malakal, Bentiu e Aweil.
- Sud
del Nilo Blu, nord dell'Alto Nilo e Sud Kordofan.
- Il
governo teme che se le forze principali dello SPLA nel Nilo
Blu e nel Kordofan del Sud iniziassero a cooperare con lo
SPLA-United, che si trova racchiuso fra le due zone, dovrebbe
affrontare due fronti di guerra simultaneamente nel Nord.
Due dei suoi altri obiettivi strategici, garantire la sicurezza
dei pozzi di petrolio nell'Alto Nilo ed essere nella posizione
di destabilizzare il confine Etiopico, sono pure messi in
pericolo dall'esistenza di tali fronti militari.
- Riserve
di petrolio: 631 milioni bbl, 1 bbl = 1 miliardo di barili,
1 barile = 159 litri, [Arabia saudita: 260 miliardi bbl, Venezuela:
64 miliardi bbl, Angola: 7 miliardi bbl.]. Riserve di gas:
100 miliardi di m_ [Arabia saudita: 6,3 trilioni di m_, Venezuela:
4,2 trilioni di m_, Angola: 80 miliardi di m_]. Partner di
esportazione: Repubblica popolare cinese (il 53%) Giappone
(il 13%). Partner di importazione: Repubblica popolare cinese
(il 20%) Arabia saudita (il 7,5%) India (il 5,6%) Gran Bretagna
(il 5,4%) Germania (il 5,4%) Indonesia (il 4,7%) Australia
(il 4%).
- Mohammed
Hassan, ex diplomatico dell’Etiopia, membro del Partito
Comunista del Sudan, intervista del 2004.
- Migliaia
di persone, si ritiene oltre 200.000, sono costrette alla
fuga, interi villaggi vengono rasi al suolo e il bestiame
eliminato.
- Dichiarazione
del pastore John Sudan Graduel.
- Intervista
rilasciata da monsignor Mazzolari, vescovo di Rumbek, in sud
Sudan.
- Amnesty
International chiede al governo del Sudan di: consentire il
dispiegamento di osservatori internazionali sui diritti umani
sotto i mandato dell’Alto commissario per i diritti
umani delle Nazioni Unite; impegnarsi pubblicamente a rispettare
in ogni circostanza i diritti umani e il diritto umanitario
nonché a garantire la tutela della vita e dei mezzi
di sussistenza della popolazione civile in ogni zona del paese;
assumersi la responsabilità per l’operato dei
Janjawid, smobilitare e smantellare queste milizie e garantire
che non saranno più in grado di compiere ulteriori
abusi.
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