Qual è il
problema? Parlo del problema politico, inteso nel suo senso
originario: la gestione della polis. Dove polis,
parola greca che inerisce a tutto ciò che si riferisce
alla città considerata come il luogo di tutti i cittadini
liberi, è metafora di società, considerata in
senso esteso nel suo insieme e nella sua complessità.
Il problema politico sostanziale è dunque quello di
trovare il modo e le soluzioni per condurre, nella maniera
più adeguata, il quotidiano che riguarda tutti i componenti
dell’insieme sociale di riferimento. Questo intendimento,
e non altro, è e deve essere il fondamento alla base
di ogni scelta inerente le problematiche della politica.
Ma per parlare del particolare del giorno per giorno bisogna
prima aver ben presente quale sia e debba essere lo scopo
fondamentale cui quel giorno per giorno necessariamente si
riferisce. Se non lo si facesse, parleremmo di politica come
di qualcosa sospeso nel limbo di un presente di cui non comprenderemmo
bene il senso, facilmente ridotta a chiacchiericcio ciaculante
sulla mondanità dei vari politici, di cui si parla
già a sufficienza nella stampa alla moda e in quel
mercato delle parole che è la televisione. L’immersione
nel dibattito politico ufficiale di ogni giorno è oggi
perlomeno deprimente, fatto com’è di esclusiva
attenzione alle reiterate squallide logiche dell’universo
concentrazionario delle coalizioni parlamentari.
Non a caso, più leggo i quotidiani e ascolto i TG ed
i dibattiti televisivi e più ho voglia di ricondurre
la riflessione politica alle tensioni ideali, alle origini
teoriche di ricerca per tentare di realizzare una società
fondata su autentici principi di libertà, avulsa da
ogni forma di sfruttamento ed oppressione. Perché senza
questa riflessione mi sfugge anche la comprensione del presente
che sono costretto a vivere.
Operazioni di apparati potenti
Il giorno dopo il secondo dibattito televisivo tra Bush e
Kerry nell’ambito della campagna elettorale per la presidenza
USA, Ilvo Diamanti su “La Repubblica” ci rendeva
uno spaccato molto efficace della rappresentazione della politica,
verso cui tentano di condurci, di fatto ci stanno già
ampiamente conducendo, i diversi leader coinvolti ed i vari
opinion-maker. “Gli USA offrono uno specchio di
ciò che potremmo (e alcuni vorrebbero) diventare. Una
democrazia “personalizzata” e maggioritaria, in
cui le differenze di posizione e di opinione politica sono
riassunte dalla figura del presidente e, prima ancora, del
candidato. Un modello che ha la sua rappresentazione simbolica
– e politica – più efficace, in questi
giorni, nei faccia a faccia tra Bush e Kerry.”
(1)
Al di là dei riferimenti agli specifici accadimenti
americani, ciò che ha grande risalto in questo ragionamento
di Diamanti è
la personalizzazione di una democrazia maggioritaria, verso
la quale si sta tendendo, sia nel senso che alcuni vorrebbero
che succedesse, sia nel senso che rappresenta la tensione
diffusa prevalente.
Ciò che non dice è che la personalizzazione
di cui parla non è riconducibile semplicemente alla
identificazione massificata della persona leader, come si
potrebbe intendere, mentre è un fenomeno molto più
complesso e artificiale, in quanto, in America senz’altro,
corrisponde ad una vera e propria edificazione d’immagine
mediatica.
Non si tratta cioè dell’emergere di personalità
spontaneamente carismatiche, dotate di forti capacità
di comunicazione e di originarie doti intellettuali in grado
di sedurre grandi quantità di persone.
Bensì ci troviamo di fronte ad operazioni di apparati
potenti, studiate e pianificate a tavolino, che artificialmente
mettono in piedi protagonisti costruiti corrispondenti ai
messaggi che vogliono veicolare, impersonati nell’immagine
propinata ad hoc dei personaggi di turno, in questo caso Bush
o Kerry.
Se fosse in Italia, parleremmo di Prodi, o di D’Alema,
o di Berlusconi, o di qualsiasi altro leader nostrano. Trattandosi
degli USA, giustamente Diamanti rileva la concentrazione d’immagine
sui due candidati all’elezione della Casa Bianca che,
nella rappresentazione mediatica contrapposta, riassumono
le differenze di posizione e di opinione politica.
È un modo astuto per semplificare al massimo i termini
del dibattito, per ridurli a mero oggetto di fruizione-consumo
attraverso i media, ai fini, fra l’altro dichiarati
ed espliciti, di estorcere il consenso del popolo dei fruitori
in ascolto.
Il senso che ne scaturisce come risultante è la distruzione
della molteplicità delle idee e dei pensieri, le
differenze di posizione e di opinione politica, non a caso
riassunte dalla figura del presidente e, prima ancora, del
candidato.
La ricchezza culturale ed intellettuale non serve alla gestione
del comando, anzi risulta addirittura dannosa, in quanto aumenta
a dismisura l’imprevedibilità delle opinioni
e la complessità da gestire, quindi l’impossibilità
del controllo. Inoltre non è funzionale alla fruizione
mediatica, che richiede messaggi stereotipati e semplicistici
oltre a un’ipnotica concentrazione d’immagine.
La partecipazione democratica, tanto sbandierata, si riduce
così al mero momento del voto, nella massima parte
dei casi influenzato, se non addirittura indotto, dalla suggestione
d’immagine, non certo dalla riflessione delle e sulle
idee.
La perfezione della copia
Nel nostro bel paese le cose vanno in modo un po’ diverso,
anche se la tendenza in marcia è la stessa. A tutti
gli effetti è vero, come dice Diamanti, che gli
USA offrono uno specchio di ciò che potremmo (e alcuni
vorrebbero) diventare.
Per usare un eufemismo, tutto ciò qui da noi ha ancora
un sapore artigianale e non è riuscito ad involvere
ai livelli sofisticati della professionalità mediatica
statunitense.
Non tanto perché da parte degli addetti ai lavori non
lo si vorrebbe, quanto perché il clima culturale e
sociale di casa nostra ancora non lo permette. Abbiamo ancora
da scontare un’eredità di approcci, di pratiche
consolidate, di elaborazioni teoriche, di proiezioni immaginative,
di idee e ideali e di tensioni desideranti molto diversa da
quella dei nostri cugini del benessere d’oltreoceano.
Berlusconi è forse quello che più di ogni altro
è andato vicino alla perfezione della copia. Ma, a
differenza del modus operandi degli amici americani, non è
un protagonista costruito da un apparato che lo ha scelto.
Bensì, artigianalmente all’italiana, ha fatto
tutto da solo, vero e proprio “self-maker”.
Lui, padre e padrone di se stesso, patriarca insuperato delle
tivu commerciali, in Italia ovviamente, avendo a piena disposizione
proprietaria gli strumenti mediatici e utilitaristicamente
conoscendone molto bene l’uso per esperienza diretta,
avendo una gran bella considerazione di sé, ha deciso
che poteva e doveva lanciare la propria immagine, innovando
americanamente la politica italiana.
E così ha fatto, ottenendo ottimi risultati e lasciando
di primo acchito attoniti e interdetti gli avversari colti
di sorpresa.
A differenza dei giganti USA, è lui stesso che assume
il tutto e lo riassume in sé: è contemporaneamente
l’apparato, l’ideatore, il supervisore, il creatore
della propria personalità d’immagine mediatica,
il messaggio da veicolare.
A differenza dei suoi maestri però, la sua costruzione
ha un grave difetto, perché non ha ricambio e tutto
si riassume in lui. Se fallisce, fallisce anche la sua creazione
e deve essere completamente rifatta e ripensata, con probabile
grave danno d’immagine.
Il centrosinistra ulivoniano invece, inseguendo la rotta berlusconiana
che l’aveva messo in grave difficoltà, pedestramente
ed in modo raffazzonato ha tentato di copiare pari pari gl’invidiati
americani.
Non potendo avere un clone di Berlusconi con l’impronta
ulivoniana, forse a malincuore, ha dovuto accettare di essere
un apparato, invero un po’ malconcio perché risultante
di una coalizione molto eterogenea e litigiosa.
Alle ultime elezioni politiche scelse così di sbattere
in faccia ai nostri fruitori mediatici una bella faccia rutelliana
dall’aspetto vagamente clintoniano e si lanciò
in una campagna elettorale d’immagine tutta basata sulla
denigrazione delle capacità e delle proposte dell’avversario.
Questi a sua volta si guardò bene dal scendere su un
tale terreno.
Si curò invece di pompare ben bene promesse faraoniche
e, soprattutto, di mostrare l’immagine onnipresente
ed onnicomprensiva di sé con dovizia di particolari
e scaltrezza mediatica, perché questo, non altri, era
il vero scopo che aveva senso propagandistico.
Il fatto è che in Italia, sempre di diversi anni indietro
rispetto ai cugini d’oltreoceano, i leader politici
incredibilmente riescono ad esser tali ancora per meriti propri.
In qualche modo riescono ad eccellere all’interno delle
forze politiche d’appartenenza perché si impegnano
personalmente, non perché vengono costruiti da professionisti
dell’immagine.
Il loro lancio attraverso i media avviene successivamente
alla conquista della posizione che sono riusciti ad assumere,
quindi va adattato, per cui non può che essere pieno
d’imperfezioni, almeno dal punto di vista dell’induzione
e della fruizione mediatica.
Nel bel paese di casa nostra la politica, non so per quanto
tempo ancora, continua ad avere il sapore di impegni personali,
anche se invero molto annacquati rispetto ai tempi non lontani
in cui era soprattutto ciò.
L’incantamento dei media
Comunque sia, siamo ormai immersi, temo forse irrimediabilmente,
nella logica e nel senso dell’incantamento gestito dalle
lobbies che hanno in mano il potere dei media. Il tempo del
confronto e del dibattito delle idee, parlo di idee forti
capaci di porsi a fondamento della costruzione sociale, sembra
finito come patrimonio estensibile all’insieme della
collettività. Oggi è il tempo della fruizione
di massa, del tutto indotta e condotta da professionisti ad
hoc, anche se per fortuna non sempre, e soprattutto non automaticamente,
riesce a raggiungere i propri obbiettivi soporiferi. La politica,
che in origine dovrebbe rappresentare il momento più
alto della comprensione del come dovrebbero andare le cose
della società e del perché vanno come vanno,
è al contrario incanalata solo nella gestione del consenso
al potere di turno, che, proprio nel conclamato trionfo della
democrazia, sorta nell’immaginario collettivo per far
assurgere il popolo a protagonista di se stesso, ha ormai
ampiamente scalzato, impedendole, le poche possibilità
di partecipazione dal basso che aveva al suo sorgere.
Siamo all’acme della visione schumpeteriana. Anzi, siamo
addirittura oltre. Nella prima metà del secolo scorso,
Schumpeter propose una dottrina della democrazia diversa da
quella propugnata dalla filosofia liberaldemocratica settecentesca,
motivando che la complessità delle attuali società
rende impossibile un esercizio democratico secondo i dettami
originari, attenti ad un’autentica sovranità
popolare.
Con grande chiarezza e determinazione affermò che l’unica
possibile partecipazione del popolo che avesse senso nella
democrazia non poteva essere che il voto, il cui unico e vero
scopo non può che essere quello di designare delle
leadership politiche in competizione tra loro. Per lui la
politica non può appartenere al popolo, ma è
compito e competenza esclusiva dei leader che, designati,
hanno il diritto-dovere di decidere per tutti.
“Il metodo democratico è lo strumento istituzionale
per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli
individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione
che ha per oggetto il voto popolare.” (2).
Rappresentò una vera e propria svolta nella propugnazione
democratica, al punto che non a caso è poi stato accolto
e raccolto da tutti gli “scienziati” della politica
successivi a lui e coralmente considerato un vero innovatore.
Per quel che mi riguarda, vivo una tale teorizzazione come
il rientro con il tappeto rosso ai piedi del Leviatano, non
monocratico come propugnava Hobbes, ma con lo stesso senso
e lo stesso ruolo di governare gerarchicamente e di decidere
dall’alto nell’esercizio del potere, questa volta
ancora più legittimato di quello del monarca hobbesiano
perché democraticamente eletto.
Ma, dicevo, nella fase che stiamo vivendo siamo addirittura
oltre. Del resto Schumpeter, che vedeva la democrazia come
un fatto essenzialmente procedurale ed aveva la preoccupazione
di ristabilire, usufruendo appunto della procedura democratica,
un comando gerarchico, guarda caso incarnato nelle leadership
designate elettoralmente, non poteva prevedere l’avvento
delle tecnologie mediatiche, non tanto come evento tecnicamente
tecnologico, ma soprattutto come evento di modificazione strutturale
del principio della conduzione democratica.
Qui siamo in tutto e per tutto all’interno dell’essenza
delle cose.
La leadership designata, che per Schumpeter non può
che essere la concreta protagonista, in realtà è
sempre meno la vera detentrice del comando, mentre tende ad
essere sempre di più mera facciata dell’induzione
mediatica, gestita dal potere occulto non appariscente degli
apparati, il quale invece è e rappresenta il vero detentore
non dichiarato della decisionalità politica.
Illusioni e allusioni indotte
Con questo andazzo preminente, si è così determinata
una separazione incolmabile tra gli addetti ai lavori, occulti
e non, che esercitano il potere ed il resto della società.
Si è cioè realizzata una situazione che nella
sostanza contraddice i termini e i principi su cui si fonda
il presupposto della democrazia dichiarata.
Come viene affrontato allora il problema politico sostanziale
che, come ho scritto all’inizio, consiste nel trovare
il modo e le soluzioni per condurre, nella maniera più
adeguata, il quotidiano che riguarda tutti i componenti dell’insieme
sociale di riferimento?
Non può che essere affrontato mascherando, attraverso
le illusioni e le allusioni indotte dal bombardamento mediatico,
quale sia il vero stato delle cose, che corrisponde appunto
all’estorsione costante del consenso elettorale dei
cittadini per ricevere l’auspicata designazione ad esercitare
il comando. Una volta ottenuta, l’esercizio del potere
si svolge completamente al di fuori sia del controllo sia
delle possibilità di partecipazione di tutti i sottoposti,
sia che abbiano espresso un voto oppure no.
Si riproduce insomma, in modo ampio e determinato, il divario
tra i detentori del potere reale ed i sudditi, che in Hobbes
dovevano obbedienza piena ed incondizionata al monarca rappresentante
l’unità del popolo secondo la giustificazione
di un presunto contratto sociale, di fatto inesistente.
Nella democrazia rappresentativa schumpeteriana non esiste
più il contratto a vita col sovrano, ma la designazione
elettorale alle leadership, cui vengono demandati gli stessi
compiti di esercitare il potere con le stesse motivazioni:
assicurare unità e sicurezza e garantire al popolo,
sempre suddito anche se ora in più è elettore,
il soddisfacimento dei bisogni, oggi burocraticamente definiti
servizi.
Si assiste cioè ad un cambiamento delle procedure e
ad una ridefinizione filosofica del senso, mentre si lascia
intatta la sostanza della conduzione politica, che corrisponde
all’esercizio del potere per mezzo del comando, non
più regalato alla volontà del sovrano, ma al
rito della delega elettiva, che alla fin fine esprime un’equivalente
imposizione, questa volta da parte del volere, non generale
ma degli eletti, che a colpi di leggi, per la parte trasparente
del loro operato, e di scelte non ufficiali, per la parte
occulta che sostiene il potere, mettono in pratica lo stesso
diritto del sovrano.
L’unica differenza sostanziale è che mentre il
sovrano doveva essere accettato in toto, qualunque fosse il
suo modo di comandare, e non poteva più essere sostituito
se non attraverso rivolte cruente, le leadership, dovendosi
conquistare il consenso per mezzo della competizione presa
in prestito dalla logica del mercato, teoricamente possono
essere sostituite.
Ma a ben vedere, una volta ottenuta la delega del potere,
la qualità del rapporto tra i decisori ed i sudditi
che devono subire le decisioni è identica nella sostanza,
in quanto coloro che decidono, nell’atto e nel momento
della decisione, non devono render conto che a se stessi,
anche se psicologicamente, non strutturalmente, possono essere
influenzati dalla cosiddetta opinione pubblica, che però
è mediaticamente addomesticata sempre di più.
La sostituzione della leadership per volontà degli
elettori, al di là di ciò che Schumpeter auspicava,
è soprattutto solo una possibilità teorica,
perché nei fatti risulta estremamente complicato renderla
effettiva, in quanto per farlo gioca un ruolo fondamentale
lo stato degli equilibri e dei giochi politici interni agli
apparati. In sostanza l’elettore non è veramente
protagonista di nulla, mentre esaurisce il suo compito partecipativo
nell’essere unicamente milionesima parte nella designazione
di chi poi avrà potere decisionale su tutti, esercitando
la propria volontà e non quella di coloro di cui dovrebbe
essere rappresentante.
Sconfiggere il dominio
Cosa bisogna fare allora per uscire da questa spirale dominante
che ci attanaglia? Bisognerebbe rivoluzionare il senso e la
volontà del nostro esserci politicamente.
A riflettere con cognizione ci si rende conto che alla fin
fine ci sono sostanzialmente due modi per intendere il pensare
ai fini della politica. Uno è quello vigente che stiamo
analizzando, che è tale perché determinato soprattutto
dalla preoccupazione di mantenere, al di là dei mutamenti
che avvengono e di quelli che incombono, la logica di un potere
per pochissimi, forti e prepotenti, che conservino la capacità
di imporsi all’enorme massa dei più che, messi
giocoforza in condizioni di debolezza, non possono e non debbono
contare.
L’altro è quello che è impedito ad essere
in atto, sia perché contrasta con quello vigente sia
perché se riuscisse ad inverarsi inevitabilmente lo
soppianterebbe. È un pensiero altro da ciò che
tuttora esiste, che invece di preoccuparsi di come mantenere
la logica di dominare le genti economicamente, politicamente
e militarmente, si pone nell’ottica di trovare la maniera
di sconfiggere il dominio in tutte le forme con cui può
manifestarsi, da quelle più assolutiste e totalitarie
a quelle all’apparenza più blande e democratiche.
È un pensiero che ragiona per riuscire a realizzare
società le cui forme politiche siano, finalmente, la
messa in opera di una volontà comune e diffusa di non
reggersi più per imporsi, per sfruttare, per dominare,
ma per convivere attraverso la solidarietà, la fratellanza
e la sorellanza tra uomini, donne e le altre specie viventi,
con lo scopo consapevole e dichiarato di vivere in società
fondate sulla libertà, la pace e la reciprocità,
dove i conflitti vengano risolti col confronto, anche aspro,
e non con la guerra e dove non si senta il bisogno di accumulare
ricchezze sulla pelle delle moltitudini assoggettate. È
un pensiero che in definitiva non può che essere anarchico,
perché fondato sul principio della libertà non
del dominio.