Dove va il mondo? Classica
domanda che, stimolata dalla miriade d’informazioni mediatiche
e non che ci sommergono quotidianamente, di tanto in tanto affiora
alla mente intrisa di un coacervo di emozioni: preoccupazione,
speranza, senso d’impotenza e di solitudine intellettuale,
voglia di risorgere, depressione, ecc. Nella sua formulazione
il concetto di mondo è estremamente lato, capace di comprendere
un sacco di cose di vastissima portata, come l’intero
genere umano e la stessa fisicità del pianeta, ma anche
le tensioni legate al pensiero e all’immaginario individuale.
In ogni caso l’approccio è sempre antropocentrico,
nel senso che s’impone una lettura tipica ed esclusiva
del genere umano, con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità,
all’interno di dimensioni intellettuali ed immaginative
solo ad esso comprensibili. Per cui il centro del problema,
o se preferite dei problemi, posto dalla domanda è e
non può essere altro che il nostro destino (quello che
temiamo e quello che desideriamo).
Ognuno risponde in base alle sue propensioni, ai suoi desideri,
alla propria storia, alla propria interpretazione del mondo.
In ogni caso, anche quando c’illudiamo di aver trovato
una risposta, in cuor nostro sappiamo perfettamente che non
è possibile rispondere, perché non è possibile
sapere quale sarà il cammino futuro che tutti ci riguarda.
Ugualmente la domanda ha senso, innanzitutto perché proviene
dalle viscere, poi perché ci stimola enormemente a riflettere
sullo stato delle cose e sulle possibilità o non possibilità
d’intervenire e di tentare di essere presenti e protagonisti.
Alla ricerca della comprensione di dove potrebbe andare il mondo,
consapevoli che non c’è e non ci può essere,
fortunatamente, un percorso univoco e maledettamente ineludibile,
mentre esistono sempre più possibilità di direzione,
perché sono molteplici le tensioni, i desideri ed i bisogni
spesso contrapposti che pullulano nel cammino arzigogolato e
travagliato del genere umano, si cerca allora d’identificare
delle linee di tendenza particolarmente rilevanti, capaci di
dare un senso di marcia al cammino che, nolenti o volenti, ci
coinvolge.
Momenti apparentemente scollegati
Motivato istintivamente da questa spinta propulsiva capace
di mettere a nudo la mia perspicacia, nel tentativo d’intuire
la direzione del cammino che stiamo percorrendo ho soffermato
la riflessione personale su tre momenti, apparentemente scollegati
tra loro, che mi sembrano però indicativi della fase
e dell’epoca che stiamo attraversando.
O, perlomeno, sono capaci d’indurmi a pensare sul cosa
stia succedendo, nel senso di spiegarmi, appunto, dove va il
mondo.
Il primo prende spunto da un articolo di Rodotà su “La
Repubblica” *. Affronta il problema
della modificazione elettronica del corpo, che a suo
dire, e mi trova del tutto consenziente, …è
già nella concreta realtà che viviamo e non si
trova soltanto nelle opere di fantasia… L’articolo
è molto dosato e utile. Informa e pone problematiche,
rifiutando di lasciarsi andare a fantasie su catastrofici futuri
ambientati in lande di desolazione antiumana. Allo stesso tempo
mette in guardia con fermezza dai pericoli insiti in quella
che …è già concreta realtà…
Ci fa capire che siamo pienamente calati in una vigilia di possibili
cambiamenti strutturali della stessa natura del corpo che, …modificato
tecnologicamente, diverrebbe per ciò post-umano?
Oggi sono operativi, in alcuni casi già operanti, chip
e sensori che, introdotti nel corpo e collegati a un computer,
sono in grado di fornire in ogni momento informazioni sullo
stato di chi ne è portatore.
Naturalmente le prime motivazioni addotte per una tale introduzione
sono direttamente legate alla ricerca sul miglioramento dello
stato di salute individuale, per malattie come il diabete, le
cardiopatie, o l’HIV, che fa sempre bella figura perché
mostra di agire per il “bene” collettivo.
Ma già una discoteca di Barcellona, attraverso un chip
impiantato in clienti consenzienti, permette loro di entrare
e consumare senza problemi perché pagano attraverso operazioni
elettroniche di identificazione a distanza. Negli USA sono già
in commercio armi che permettono di sparare solo al possessore,
identificato sempre da un chip installato.
In Messico viene controllato l’accesso a un centro di
documentazione importate dopo aver installato microchip nel
braccio di un procuratore generale e di 160 suoi dipendenti.
Questi sono solo alcuni esempi di una realtà in movimento,
destinata a mio avviso ad avere un aumento esponenziale in un
lasso di tempo non troppo lungo.
Ma già, c’informa sempre Rodotà, il premier
britannico Blair propone di voler …etichettare e controllare
via satellite i cinquemila più pericolosi criminali inglesi,…
ai quali, …pur avendo scontato la pena, cancellerebbe
la libertà di circolazione e tutte le connesse forme
di autonomia individuale…
Con un salto, direi scontato, si passa con gran noncuranza dal
problema della salute a quello della sicurezza, che in troppi
casi sta diventando quello di una paura accuratamente costruita
ed alimentata per accrescere i controlli ed arrivare ad una
società della sorveglianza.
E chi ci assicura, aggiungo io, che un domani, sottolineo già
possibile, tutto questo bel po’ po’ di tecnologie
operanti ed operative non venga tranquillamente usato per nullificare
dissidenze ritenute troppo pericolose per i poteri costituiti?
I microchip per modificare i comportamenti individuali a distanza
ci sono già, come quelli in grado non solo di segnalare
lo stato di una persona, ma di introdurre informazioni e di
indurre e stimolare. È facile e conseguente capire come
simili intromissioni nel corpo, destinate in breve ad essere
perfezionate e ad aumentare la loro sofisticazione, pongono
un problema urgente ed estremamente rilevante: mettono in
discussione l’autonomia stessa della persona e potenzialmente
rappresentano strumenti di efferato controllo, in grado di esercitare
un potere assolutista da parte di chi lo detiene.
Verso il collasso
Il secondo momento prende spunto dalla conferenza ONU sul clima,
svoltasi a Buenos Aires nella metà di dicembre 2004,
dal rapporto mondiale Living Planet 2004 del WWF uscito
in contemporanea alla conferenza ONU e dal rapporto annuale
del WWI (la più importante organizzazione internazionale
di studio e ricerca ambientale). Tutt’e tre sono in sintonia
perfetta nel denunciare lo stato delle cose dal punto di vista
della tendenza ecologica. Tutt’e tre sono strutture ufficiali
riconosciute dalle istituzioni governative, quindi parlano la
lingua di chi ha in mano le sorti del pianeta. Tutt’e
tre ci sbattono in faccia una sequela ininterrotta di dati ufficiali,
non interpretabili diversamente, che mostrano come stiamo marciando
a vele spiegate verso il collasso e una futura prossima generale
catastrofe. Tutt’e tre sono in sintonia e confermano le
conclusioni apocalittiche sul futuro del pianeta del rapporto
Swartz Randall, che fu commissionato dal Pentagono
(altra istituzione ufficiale), tuttora top-secret, ma le cui
conclusioni sono state rivelate da Foster, uno dei massimi esperti
militari USA e docente presso il College of the Armed Forces.
Per avere un’idea delle succulente previsioni che ci regalano
i gestori del mondo, veniamo per esempio informati che dal 1968
ad oggi mentre il terrorismo ha ucciso in tutto 24.000 persone
le catastrofi ambientali ne hanno sterminate 240.000 all’anno.
Oppure che entro poche decine d’anni i vari stati si affronteranno
militarmente, con le devastazioni apocalittiche ormai arcinote,
per l’accesso alle derrate alimentari sempre più
scarse, all’acqua, sempre più bene prezioso, e
all’energia, propinandoci un futuro prossimo di stati
perennemente in guerra tra loro per la sopravvivenza. Oppure
ancora si calcola che entro il 2050, e sono sempre calcoli per
difetto, ci potrebbero essere 150 milioni di persone in fuga
da terre rese inabitabili dai cambiamenti climatici; già
è possibile notare che alluvioni e siccità sono
raddoppiati, di quantità e intensità, negli ultimi
dieci anni, generando sconvolgimenti profondi, tali che il numero
dei rifugiati ambientali supera i 25 milioni, più dei
rifugiati politici. Per completare, aggiungo solo che secondo
il Living Planet del WWF, che misura l'impatto dell'uomo
sugli ecosistemi del pianeta, consumiamo il 20% in più
delle risorse naturali disponibili, mentre le specie animali
collassano letteralmente (è ovvio che non consumiamo
tutti allo stesso modo: c’è chi vive in una spudorata
superabbondanza contro miliardi di esseri umani che muoiono
di fame e stenti).
Questi sono solo alcuni dei dati previsionali, forniti direttamente
dagli organi ufficiali in un certo senso collegati in modo istituzionale
ai responsabili delle sorti del pianeta, ma già sufficienti
per rendere l’idea di che cosa ci sta aspettando. È
il caso di dire che già da tempo non ci sono più
alibi. Sanno e sappiamo quali sono le cause, le origini e le
conseguenze delle scelte irresponsabili che sono alla base della
conduzione delle cose del mondo. Non oso dire saggezza, ma semplicemente
intelligenza, un minimo accorta, suggerirebbe di invertire al
più presto la rotta, di bloccare questo dichiarato e
consapevole folle sfascio, per cogliere i residui di speranza
per uscirne. Eppure, al contrario, per l’ennesima volta
i capi di stato e i gestori che ci sovrastano decidono bellamente
che non ci sono le condizioni per trovare la maniera di cambiare.
Non c’è accordo nemmeno per tentare di applicare
finalmente il famoso accordo di Kyoto, misura del resto del
tutto insufficiente, dal momento che limiterebbe le emissioni
inquinanti solo del 5%, mentre secondo i climatologi ci vorrebbe
almeno il 70%.
Non possono farlo, perché il sistema economico e produttivo
di cui siamo schiavi non si può permettere di rinunciare
ad essere quello che è e vuole essere. Anche intuitivamente
ci si rende conto della sostanziale stupidità di un simile
ragionamento, dal momento che i costi per tentare di rimediare
di volta in volta all’abnorme enormità dei danni
che conseguono dal mantenimento del modello di sviluppo, di
produzione e di consumo vigenti sono molto maggiori dei profitti
che se ne ricavano. Ma i profitti si accumulano solo in pochissime
tasche, quindi fanno una gran buona riuscita, mentre i danni
vengono paritariamente ed equamente distribuiti, anche se a
sentirne fino in fondo le conseguenze è solo la gran
massa di sempre dei reietti e dei non abbienti.
Sintomatica ed eclatante in questo senso la presa di posizione
dell’attuale ministro per l’ambiente di casa nostra,
Altero Matteoli, che al convegno internazionale sul clima a
Buenos Aires ha dichiarato che dopo il 2012, quando scadrà
la prima fase di applicazione del protocollo di Kyoto, se USA,
Cina, India e gli altri paesi che non vi aderiscono continueranno
a non aderire, anche l’Italia se ne dichiarerà
fuori perché non se lo potrà più permettere
economicamente. Così i nostri governanti, in accordo
con gli industriali, i finanzieri e le lobbies dei
lucratori sull’inquinamento progressivo, non si possono
permettere di tentare di por rimedio alla catastrofe dichiarata,
a questo punto anche annunciata e attesa, da loro stessi consapevolmente
organizzata e messa in opera.
Dotto acume clericale
Il terzo momento prende spunto dal discorso pronunciato dal
cardinale Tettamanzi il 7 dicembre 2004 nel tradizionale messaggio
alla città di Milano per sant’Ambrogio, incentrato
sul problema della solidarietà sociale. Lo ritengo rilevante
perché mi sembra contenga alcune novità rispetto
al tradizionale porsi ecclesiastico ispirato dalla dottrina
sociale della Chiesa. Non si limita ad invitare i cittadini
a sentirsi solidali con tutti ed a rendere operative pratiche
di solidarietà. Va oltre e, con dotto acume clericale,
spazia nel e invade il campo della politica, col preciso proposito
di dettare legge e stabilirne l’etica.
Per Tettamanzi la solidarietà rappresenta una questione
sociale di tale ampiezza e importanza, che le istituzioni non
possono che assumerla e rifletterla. Solidarietà è
ristabilire le eguaglianze: il dovere di chi governa,
in quanto è propria di chi governa la città una
particolare responsabilità per assicurare il vincolo
solidaristico in seno alla società.
Chi ha una responsabilità istituzionale deve rendere
possibile l'estrinsecarsi di questo vincolo nella vita cittadina,
a tutti i livelli, in tutti i campi, nelle situazioni più
diverse. Per lui è giunto il tempo che le forze culturali,
sociali, economiche, politiche, finanziarie della città
si incontrino attorno a dei “tavoli di discussione”
per una riflessione seria e per un grande progetto che riguardi
la “sostenibilità del vivere” per tutti.
La solidarietà, continua il cardinale, è il presupposto
e l'anima della democrazia, che è partecipazione, capacità
per tutti di fare scelte e di prendere parte, in forme diverse,
alla vita sociale.
E sottolinea che non è un caso che la nostra costituzione
sia fondamentalmente solidaristica. La solidarietà è
così anche un modo per rispettare la costituzione, il
suo spirito profondo, la sua forza,
la sua ispirazione, quasi il suo “desiderio” di
essere per tutti patto amato e condiviso.
Il commento corale che ne han fatto tutti, politici e commentatori
compresi, è che la novità di questa riflessione
stia nell'aver spostato l'attenzione da comportamenti solidaristici
nei confronti del debole, troppo spesso pensati esclusivamente
come un dovere di soccorrere chi ha meno oppure, secondo accezioni
correnti, come il surrogato laico della carità, ad una
visione più ampia di ciò che i legami di solidarietà
presuppongono per la vita civile nel suo complesso.
Per noi invece la sua vera rilevanza sta nell’invito alla
classe politica, affinché assuma un codice morale di
solidarietà sociale nell’esercizio della sua funzione
di governo. C’è nelle sue parole un’esplicita
esortazione affinché si pervenga ad un vero e proprio
abbraccio, non solo simbolico, tra i cittadini, i governati,
e i dirigenti politici, i governanti.
La decisionalità dall’alto deve permanere, ma se
vuol continuare ad assolvere il suo compito deve trovare il
modo di essere supportata e sostenuta da coloro per i quali
e sui quali decide. In questo auspicato accordo tra governanti
e governati identifica come fondamentale una redistribuzione
delle ricchezze e dei beni per rispettare la dignità
di ognuno.
Probabilmente abbiamo così l’annuncio della nuova
visione politica che sta mettendo in campo la Chiesa, che assomiglia
molto ad una riproposizione di forme di pianificazione redistributiva
istituzionale in chiave aggiornata. Consapevole però
che l’esempio cui giocoforza si richiamano tutte le pianificazioni,
l’esperienza sovietica, non è stato certamente
esaltante, introduce l’elemento forte della partecipazione
popolare.
In questo modo si aggancia direttamente alle teorie emergenti
del nuovo riformismo della democrazia partecipativa, arricchendole
con l’etica del solidarismo cattolico.
In questo modo tenta di ridare forza e pathos ai poteri governativi
da tempo in declino, sempre più logori e staccati dai
bisogni e dai sentimenti delle persone. Purtroppo per le passioni
del nostro cardinale, la solidarietà quando sussiste
è sempre e non può che essere opera autogestita
dei diretti interessati, guarda caso storicamente sempre in
contrasto coi poteri costituiti, i quali invece, per loro stessa
natura, tendono a sostituirla con decreti e leggi, se non addirittura
imposizioni.
Conservazione e cambiamento
Dove sta andando allora il mondo? Ciò ch’io vedo
nella sostanza è il riproporsi della dicotomia tra conservazione
e cambiamento, nel senso che il bisogno affiorante di cambiamento
viene sistematicamente schiacciato e annichilito dalla forza
imperante della conservazione.
Mi riferisco alla cocciuta riproposizione del dominio come dato
di fatto continuamente riproponentesi, sostenuto dalla logica
che lo sostiene che dà la sua onnivora impronta al modo
di fare imperante, stimolato dal bisogno di dominare che ne
rappresenta la spinta pulsionale di fondo per cui c’è
e s’impone.
L’azione dominante del dominio, infatti, per la stessa
natura che lo contraddistingue, genera situazioni e condizioni
mal sopportabili, se non addirittura inaccettabili, per coloro
che lo subiscono, ingenerando in essi giocoforza bisogni e spinte
a modificare lo status cui sono costretti.
Di qui il sorgere, direi indotto ma anche spontaneo, del bisogno
di mutamento che tende a e contiene la spinta ad annullarne
gli effetti.
Ma il dominio, che accetta le modificazioni soltanto se risultano
funzionali alla conservazione della sua predominanza, impone
la sua reazione annichilendo le possibilità del cambiamento,
o annullandolo con la repressione o trasformandolo in qualcosa
che alla fin fine lo conserva. Così in questa fase vedo
il cammino del mondo indirizzato verso mutazioni indotte che
è capace di controllare e gestire solo in parte, una
parte sempre più minima, proprio perché si muove
spinto soprattutto dal bisogno di dominare.
Abbiamo tecnologie ad alta sofisticazione, progressivamente
sempre più perfettibili, capaci di agire in tutti i campi
del sapere e del fare umani, che contengono grosse possibilità
benefiche per la conduzione delle esistenze, ma che vengono
indirizzate verso le necessità di controllo sociale che
hanno i poteri dominanti per la loro conservazione, solleticati
come sono ad usarle per imporre grosse limitazioni all’autonomia
individuale dei dominati.
Abbiamo una situazione ecologica generalizzata sempre più
tendente alla catastrofe, per il vorace indefesso intendimento
di dominare la natura e di asservirla, quasi questa non fosse
altro che un nostro strumento invece di essere ciò che
effettivamente è: il luogo habitat della nostra possibilità
di esserci. Non riuscendo a sottrarsi al bisogno di dominare,
i poteri costituiti, pur di continuare a conservare il proprio
dominio, consapevolmente si rifiutano di porre rimedio ai disastri
che stanno sistematicamente mettendo in campo.
Abbiamo una Chiesa, storicamente esperta creatrice nell’arte
di dominare soprattutto le coscienze, che tenta l’abbraccio
“etico” tra dominati e dominanti, consapevole del
distacco crescente e sempre più incolmabile tra gli uni
e gli altri, probabilmente per continuare la sua endemica missione
di conservare le tradizioni gerarchiche su cui si sorregge e
la funzione del comando per ottenere l’obbedienza.
Di fronte a tutto ciò, l’azione, il pensiero e
le proposte degli anarchici tendono, com’è nella
loro natura e nel senso del loro esserci, a scardinare questa
come ogni altra logica conservatrice del senso e delle logiche
del dominio. Suggeriscono, e coi loro pochi mezzi tentano di
farlo, di prendere nelle proprie mani le sorti e la conduzione
dell’esistente, senza più lasciarlo nelle mani
dei conservatori di oggi né quelli di domani: dirigenti,
potenti e dominatori di ogni tipo, tecnocrati, burocrati, capitalisti
e finanzieri, gerarchie sacerdotali, partitiche, militari. Gli
esseri umani debbono trovare il modo di autogestirsi senza continuare
ad essere gestiti da minoranze dominanti.
Andrea Papi
* Tra chip e sensori arriva
il post-umano, Stefano Rodotà, “La Repubblica”,
lunedì 6 dicembre 2004.
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