Radici cristiane? Prego, si accomodi
Dagli al prete nero!
Tempi duri, per i cristiani d’Europa: mentre gli zii
d’America (lo dice il ragionamento stesso) se la passano
assai bene, nel vecchio continente c’è un’aria
di persecuzione che nemmeno Nerone. Li perseguitano un po’
tutti, bisogna dirlo. E dire che loro, i cristiani, fanno l’impossibile
per farsi benvolere come dimostra, tanto per fare un esempio,
la recente legge sulla procreazione assistita da loro ispirata,
lodata financo da un mangiapreti come Rutelli.
Così, tra un episodio di intolleranza e una prevaricazione
(si pensi all’annosa questione del crocifisso nelle scuole
pubbliche, o al fatto che la curia debba assumersi l’onere
di scegliere gli insegnanti di religione pagati dallo stato),
si è arrivati fino al gesto estremo compiuto, in due
tempi, dal parlamento europeo in spregio di quel filosofo di
Buttiglione Rocco, respinto in favore di Frattini al solo scopo
di aggiungere la beffa al danno.
I cristiani però, che di persecuzioni se ne intendono,
non sono stati colti di sorpresa.
Già dalle prime avvisaglie, infatti, hanno capito quanto
gli si stava tramando alle spalle e hanno avuto subito ben chiaro
dove si sarebbe andati a parare: sarà per colpa della
cultura illuministica, sarà per colpa dell’allargamento
a Est (dove, sotto sotto, sono ancora tutti un po’ comunisti)
l’Europa, di loro, non ne vuole più sapere. È
forse vero – lo ha detto anche Paolo Mieli – che
al giorno d’oggi i cristiani sono una minoranza. Si riconoscerà
però che non è questa una buona ragione per perseguitarli,
manco fossero Catari.
La persecuzione, tuttavia, non spaventa i cristiani più
di tanto. In fondo di santi morti nel proprio letto ce ne son
pochini e, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica:
“il martirio è la suprema testimonianza
resa alla verità della fede; il martire è un testimone
che arriva fino alla morte [...]. “Lasciate che diventi
pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso
di raggiungere Dio”” (art. 2473). Piuttosto, ciò
che i cristiani non sono abituati a subire è l’altrui
indifferenza, e verso di essa sono perciò disarmati.
Mi martirizzi? E io, alla faccia tua, raggiungerò dio.
Ma se mi lasci a far da tappezzeria, allora sì che vado
in bestia!
Così, mentre i cristiani hanno superato con relativa
facilità il trauma dello schiaffone a Buttiglione (che
non è Tommaso D’Aquino, in fondo, lo vedono anche
da soli), c’è un tarlo che continua a rodergli
nell’orgoglio, una talpa che gli scorrazza per l’amor
proprio: quelle radici cristiane che l’Europa snobba,
anzi, peggio ancora, ignora.
Recupero il Corriere della sera del 21 giugno e leggo
di Karol Wojtyla che, durante l’Angelus di domenica 20,
è tornato sul tema delle “radici cristiane dell’Europa”,
o meglio, sul fatto che il preambolo della Costituzione europea
non ne faccia menzione, come lui avrebbe invece fortemente voluto.
Wojtyla, pare divagando dal testo scritto, ha preso a parlare
in polacco e, fuori di sé dalla rabbia, ha gridato: “Ringrazio
la Polonia che nelle sedi europee ha difeso fedelmente le radici
cristiane del nostro Continente, dalle quali è cresciuta
la cultura e la civiltà della nostra epoca. Non si tagliano
le radici dalle quali si è nati!”.
Mai come in questo caso mi trovo d’accordo con lui, e
non solo per simpatia verso i perseguitati. Wojtyla ha ragione
da vendere, perché la memoria è una cosa seria,
forse la più seria di tutte. Quello che non capisco è
perché si arrabbi tanto. Comunque, nel mio piccolo, provo
ad accontentare l’anziano pontefice con un florilegio,
certo parziale, dei contributi che la Chiesa Cattolica e lui
stesso hanno fornito alla costruzione dell’Europa e, più
in generale, alla “cultura e alla civiltà della
nostra epoca”.
Contributi cattolici all’Europa
L’exploit del Vaticano nella politica internazionale
moderna è il “Non expedit” del 1874, che
consiste in un esplicito divieto per i cattolici italiani di
partecipare a qualsiasi titolo alla vita politica del Regno
d’Italia. I cattolici dovevano avere soltanto il papa
come sovrano e il diritto canonico come legge, pena la dannazione
dell’anima. Fu abolito nel 1919. Se fosse per le radici
cristiane, quindi, l’Italia non ci sarebbe stata, e l’Europa
avrebbe su per giù la forma del Sacro romano impero.
Saltiamo al 1984 e incontriamo Paul Marcinkus, cardinale al
vertice dello IOR (Istituto di Opere Religiose), una potente
banca coinvolta nelle inchieste sul crollo del Banco Ambrosiano
e, ça va sans dire, nella catena di delitti
e di suicidi dubbi che a questo si accompagnò. Un bel
giorno, i magistrati milanesi decidono di interrogare l’arcivescovo,
il quale oppone però un diritto di immunità. C’è
infatti un articolo del trattato del Laterano (che disciplina
i rapporti tra Italia e Città del Vaticano) che stabilisce
“la non ingerenza negli affari degli enti centrali della
Chiesa” (art. 11), e a quello Marcinkus si appella. I
giudici presentano un ricorso che la Corte di Cassazione respinge:
il trattato garantisce agli alti prelati le stesse immunità
dei diplomatici esteri. A questo punto, Wojtyla potrebbe però
ordinare a Marcinkus di presentarsi in aula, ma non lo fa. È
evidente che le radici cristiane non prevedono il mandato di
cattura europeo.
Contributi di Wojtyla alla cultura e alla civiltà
della nostra epoca
Se il papa è il vicario di Cristo, è ovvio che
debba andare più dagli ammalati che dai sani. E Wojtyla
ci va, eccome. Eccolo allora contribuire alla cultura e alla
civiltà della nostra epoca a Santiago del Cile nell’aprile
del 1987, in visita pastorale dal generale Augusto Pinochet
dove, come commenta un sito della destra cilena ricco di fotografie
(http://anticomunismo.8m.com/tata4.html),
“due grandi leader anticomunisti si incontrano”.
La più celebre immagine di queste giornate è la
foto scattata il 6 aprile, quando generale e papa si affacciano
assieme da un balcone della Moneda, il palazzo presidenziale
nel quale perì Salvador Allende (presidente del Cile
democraticamente eletto) durante il sanguinario colpo di stato
dell’11 settembre 1973, che portò al potere lo
stesso Pinochet.
Pinochet, come si usa, gli presenta la moglie. Wojtyla, se ne
ricorda e per le nozze d’argento gli manda gli auguri,
con una sobria lettera autografa. Infine, quando Pinochet è
catturato in Inghilterra su mandato internazionale spiccato
dal giudice spagnolo Baltasàr Garzon con l’imputazione
di tortura ed omicidio di cittadini spagnoli (1999), Wojtyla
stesso si preoccupa di far giungere alla Camera dei Lord la
propria preferenza perché questa non concedesse l’estradizione
dell’ex dittatore in Spagna, dove i giudici lo attendevano
con le manette pronte. Per il caso “dell’ammalato”
Pinochet, il papa manifesta un vero e proprio accanimento terapeutico
dato che, sempre nel 1999, rivolge una plateale richiesta di
perdono per i crimini da lui commessi, alla quale le Madres
de Plaza de Mayo (l’associazione delle madri delle vittime
del regime argentino) rispondono con una lettera dove si augurano
che, da morto, Wojtyla non riceva il perdono di Dio e vada all’inferno
(Buenos Aires, 23 febbraio 1999).
Facciamo un passo indietro ma rimaniamo nella cattolicissima
America Latina, dove Wojtyla imperversa. Eccolo infatti, nel
1980, accorrere in aiuto della giunta militare di San Salvador,
minacciata dalle omelie dell’arcivescovo Oscar Romero.
La tesi statunitense, sostenuta dal presidente Jimmy Carter
(ora premio Nobel per la pace), è che la giunta militare
salvadoregna fosse in realtà un debole governo democratico,
strapazzato tra le violenze dell’estrema destra e dell’estrema
sinistra. Le cose non stavano esattamente così, dal momento
che la stessa giunta aveva preso il potere con un colpo di stato
il 15 ottobre 1979, favorita dall’amministrazione Carter
che vedeva nel governo precedente del Salvador, relativamente
democratico e riformista, un ostacolo alle proprie politiche
commerciali e all’egemonia politica sul Centro america.
Secondo fonti ecclesiastiche, dal gennaio 1980 al mese di maggio
dello stesso anno il governo salvadoregno uccise 1844 civili
(alla fine dell’anno arrivarono a circa 10mila). Per Carter,
tutte queste uccisioni erano da addebitare alle citate frange
violente degli opposti estremismi, e ciò giustificava
i generosi aiuti militari che gli Stati Uniti fornivano al governo
“di centro”, impegnato in una faticosa “costruzione
democratica”. Il vescovo Romero non la pensava così,
e il 17 febbraio 1980 scrisse una lunga lettera a Carter nella
quale chiedeva di cessare l’erogazione degli aiuti in
favore della giunta, che descriveva per il regime sanguinario
che era e alla quale attribuiva tutte le responsabilità
per la situazione di terrore e per le uccisioni degli avversari
politici. Carter andò su tutte le furie ed inviò
un messo presso il papa, affinché egli stesso mettesse
a tacere Romero. Nel mese di marzo del 1980 durante l’omelia
domenicale, il vescovo esortò i militari a cessare di
uccidere i propri connazionali, denunciando così in maniera
eclatante le responsabilità del regime. Wojtyla non appoggiò
le posizioni di Romero, ma anzi richiamò a Roma il superiore
dei gesuiti del Centro America. Il 24 marzo 1980 Romero fu assassinato
mentre diceva messa nella cattedrale di El Salvador, colpito
al cuore da una fucilata proveniente dal fondo della chiesa.
Anche in quel caso, Wojtyla non andò oltre la manifestazione
di un formale dolore. Evidentemente, tra i compiti di chi deve
accorrere presso gli “ammalati” rientra anche quello
di fregarsene dei “sani”, quando non addirittura
quello di prenderli a calci.
Un grande papa, un accorato appello
Al posto di Wojtyla, bisogna ammetterlo, non molti avrebbero
fatto altrettanto. Non è da tutti, infatti, insistere
perché si inserisca nel preambolo di un documento ufficiale
(un trattato internazionale, per di più) l’elenco
degli episodi criminali dei quali si è direttamente responsabili,
o le dimostrazioni che quel documento è contrario alle
intenzioni dell’organizzazione che si governa. Giunto,
verosimilmente, ai limiti naturali del proprio pontificato,
non solo il vicario di Cristo ha assunto su di sé tutti
i peccati del mondo, ma vuole, anzi pretende, che di essi sia
fatto formale inventario, come in un autodafé,
quella confessione pubblica dei condannati che molti suoi predecessori
tanto apprezzavano. Da laico, per così dire, non stimo
Wojtyla. Ma se provo a immaginarmi cristiano, di fronte al suo
sdegno dell’Angelus del 20 giugno non posso che
cadere in ginocchio. E mi viene dal cuore dire: accontentatelo,
smettete di ignorare i cristiani e scrivete sulla costituzione
europea tutto quello che hanno fatto quando non erano una minoranza,
anche a costo di dovervi aggiungere dieci, cento, mille pagine.
Persio Tincani
Passera e la finanza etica
Che ci faceva Corrado Passera, presidente di Banca Intesa,
alla Giornata nazionale della finanza etica, lo scorso 20 novembre
a Bologna? Domanda più che legittima, specie da parte
di chi rammenti che il gigantesco gruppo bancario è stato
oggetto di una recente campagna di pressione denominata Manca
Intesa. I gruppi promotori contestavano i disinvolti finanziamenti
al commercio d'armi e la partecipazione a un devastante progetto
di oleodotto da Baku (Azerbaigian) a Ceyhan (Turchia) via Tbilisi
(Georgia). Passera è stato invitato proprio per i segnali
d'attenzione mostrati verso la campagna. Ha promesso che non
finanzierà più il commercio d'armi e che lascerà
il progetto d'oleodotto. Banca Intesa sta attuando queste promesse,
anche se tutto avverrà gradualmente. Lo stesso presidente
ha precisato, durante la tavola rotonda alla Giornata bolognese,
che potrebbero rimanere finanziamenti indiretti al commercio
d'armi, ma che in questo caso saranno resi noti sul sito dell'istituto.
Ad ogni modo Passera è stato in qualche modo 'premiato'
per queste decisioni con l'invito a discutere con interlocutori
di prim'ordine, come il presidente di Banca Etica Fabio Salviato
e il procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, nell'ambito del
principale evento nazionale organizzato dal movimento della
finanza alternativa. Dal suo punto di vista è stato un
bel successo, che in qualche modo lo ripaga delle scelte compiute
e gli permette di correggere un'immagine deturpata dalla campagna
Manca Intesa. La scelta compiuta dagli organizzatori, naturalmente,
è molto discutibile. L'invito può essere visto
come un intelligente gesto d'apertura di fronte ai risultati
raggiunti dalla campagna, ma anche come un'eccessiva concessione
a un manager e a un gruppo che sono ancora lontani dal tenere
comportamenti accettabili sul piano politico e sociale.
Va comunque riconosciuto che si è trattato solo dell'invito
a un dibattito, e non di un abbraccio, per cui diversità
e distinzioni di ruolo sono rimasti ben chiari a tutti. Tant'è
che alla fine, più che l'invito in sé, è
stato l'andamento del dibattito a suscitare dubbi e sconcerto.
Passera ha esordito con un'affermazione in apparenza amichevole
e importante. Quando il moderatore gli ha dato la parola accennando
al piccolo spazio che la finanza etica si è guadagnata
in questi anni in Italia, Passera ha esclamato che "tutta
la finanza, e non solo una piccola parte, deve essere etica"
e da lì è partito con l'elenco di quanto Banca
Etica già sta facendo in questa direzione, passando dall'oleodotto
al miliardo di euro stanziato per finanziamenti agevolati alla
ricerca sulla base di un accordo con imprese e università.
Né Vigna né, purtroppo, Salviato, hanno incalzato
a dovere Passera, così nessuno ha messo in rilievo l'ambiguità
dell'affermazione iniziale del presidente di Banca Intesa. La
sua idea che tutta la finanza debba (e possa) essere etica è
un evidente artificio retorico, che nasconde un equivoco, lo
stesso sul quale lavorano le maggiori banche italiane quando
propongono fondi etici, libretti etici, investimenti etici,
tutte sigle che nascondono nella totalità dei casi semplici
operazioni di carità o normali strumenti finanziari solo
un po' abbelliti con una mano superficiale di vernice "socialmente
responsabile" .
Il movimento della finanza etica ha raggiungo risultati importanti
ed è solo nella fase iniziale del suo cammino. Ma l'inquinamento,
anche semantico, del suo messaggio da parte di soggetti esterni
è piuttosto evidente. Come fa il risparmiatore a distinguere
fra tante proposte che si dichiarano etiche? Come si fa a capire
qual è la vera alternativa finanziaria? Su questo terreno
il movimento dell'altra finanza avrà molto da lavorare.
E dovrà agire su più terreni. Sia su quello –
proprio di Banca Etica – del confronto con gli altri attori
del mercato, e quindi con l'offerta di proposte di risparmio,
d'investimento e d'impiego del denaro che possano dare del filo
da torcere a un sistema bancario vorace e iniquo. Sia sul terreno,
più arduo ma di grande spessore, della costruzione di
un modo di concepire e utilizzare il denaro davvero alternativo:
è il campo d'azione delle Mag, del microcredito, delle
cooperative che raccolgono risparmio fra i soci.
In tutti questi anni di lotta al neoliberismo, abbiamo capito
che la formazione di una cultura alternativa al pensiero unico
capitalista è un'esigenza fortissima, che deve accompagnare
la costruzione di spezzoni di un'altra economia. Lungo questo
percorso è importante agire e parlare con il massimo
di chiarezza e trasparenza, respingendo tutti i tentativi di
inquinare le acque e di far credere che tutta la finanza possa
essere etica se solo qualche "buon" manager lo vorrà.
La finanza etica, intesa in questo modo, sarebbe così
annacquata da perdere ogni sapore e ogni motivo d'interesse
per chi è cosciente della natura rapace e distruttiva
dell'apparato economico e finanziario che domina il mondo. A
Corrado Passera potremmo anche riconoscere la buona volontà
e la capacità di ascoltare gli avversari, ma niente di
più.
Lorenzo Guadagnucci
Dallo sciamano allo showman
Splendida terra la Valle Camonica: uno spettacolare concentrato
di monti, vallate, torrenti e un fiume, l’Oglio, a tagliarla
in due fette prima di tuffarsi nel Lago D’Iseo, apparente
avamposto per chi giunge da sud. E ne arriva di gente durante
tutto l’anno. Le terme sono note in tutto il Paese e i
parchi naturali dell’Adamello e dello Stelvio fanno da
giusto corollario agli ospiti e ai villeggianti più curiosi
se decidono, in una delle possibili escursioni, di visitare
le incisioni rupestri: oltre 10.000 configurazioni che hanno
alimentato misteriose leggende di antiche figure e riti sciamanici.
Parte proprio da qui il festival della canzone umoristica (Festival
della canzone umoristica d’autore, 2a edizione, Valle
Camonica, luglio-settembre 2004) dove Nini Giacomelli, ideatrice
della manifestazione, ad un’intenzionalità più
spirituale ha associato parecchie note di spirito facendo così
nascere Dallo sciamano allo showman. Quest’anno
la direzione artistica è stata affidata ad una figura
di grande autorevolezza, Sergio Bardotti, affiancata dagli organizzatori
del Club Tenco che hanno contribuito non poco all’innalzamento
qualitativo della manifestazione. Durante il periodo estivo
si sono previsti diversi appuntamenti nelle località
di Borno, Bienno, Ponte di Legno e Breno che hanno fatto quasi
da introduzione al festival vero e proprio che si è tenuto
a Darfo Boario Terme a metà settembre.
Nicola
Arigliano e Flavio Oreglio (foto di Stefano Starace)
Qui si sono dati appuntamento Enzo Jannacci e Nanni Svampa,
Osvaldo Ardenghi e il gruppo degli Oz (Orkestra Zbylenka), quartetto
formato da Gilberto Tarocco, Sandro Di Pisa, Giuseppe Boron
e Fabio KoRyu Calabrò. Oppure, sempre in tema specificamente
umoristico, gli Opus Est, Beppe Altissimo, Francesco Baccini,
Leonardo Manera, Flavio Oreglio, I Nuovi Cedrini, Vittorio Viviani,
Andrea Di Marco, Bibi Bertelli, Quellilì. Di contorno,
la mostra fotografica di Roberto Coggiola con commenti curati
da Sergio Sacchi, “Lo Shomano”, portata in dote
dal Premio Tenco e che si mostrerà anche nelle serate
finali di settembre come pure quella della pittrice Marina Sassi
sui nativi-americani. Poi una serie di incontri/convegni cui
partecipano oltre ai già citati anche Enrico de Angelis
e Vincenzo Mollica. Ovviamente più nutrite le tre serate
conclusive con un’ulteriore mostra di Sergio Staino ed
una serie di incontri pubblici parecchio interessanti con studiosi,
antropologi, ricercatori, psichiatri e due veri sciamani: David
Carson, scrittore lakota, per parecchi anni vissuto nelle riserve
Cheyenne in Montana e Nadia Stepanova, presidente degli sciamani
buriati e membro del consiglio interreligioso dell’Unesco.
Quest’ultima darà vita, con i volontari del posto,
ad un vero rito sciamanico. Piuttosto affollate le serate musicali
con l’attore/musicista Flavio Oreglio nella parte del
conduttore interessato. Nell’esordio, lo humor è
socialmente utile con i “giovani” Freddy, Andrea
Rivera e Fabrizio Casalino, più tranquillizzante con
i Quartettomanontroppo, audacemente corrosivo con i Serenauti:
Roberto Freak Antoni, Marco Carena, Pongo e Fabio KoRyu Calabrò,
ancora lui, per fortuna. Meno giovani e più certezze
dalla seconda serata: Carlo Fava (finalmente comincia a raccogliere
i frutti di una lunga semina), il consolidato Pierfrancesco
Poggi e il televisivo, e non sempre brillante, Max Tortora si
inchinano, come tutti, ad un magnifico Nicola Arigliano, grande
sciamano dello swing made in Italy. Ultima sera e ottime performance
nell’ordine di Giorgio Conte, perfetto gentiluomo e maestro
di musica, Andrea Di Marco, che i Cavalli Marci siano con te,
Vinicio Capossela, finalmente tornato ad essere lo sciamano/musicista
che più amiamo.
Stefano
Starace
Vinicio
Capossela (foto di Stefano Starace)
Dalla lotta al fascismo alla ricostruzione
“Virgilio Antonelli 1904/2004: un anarchico livornese
dalla lotta al fascismo alla ricostruzione” è il
titolo dell’iniziativa che si è svolta a Livorno
il 27 novembre u.s., in occasione dei cento anni dalla nascita
di Virgilio Antonelli, anarchico, perseguitato politico antifascista,
partigiano, organizzatore sindacale.
L’opera di Virgilio percorre momenti importanti della
storia del movimento operaio italiano e livornese in particolare,
la sua figura è rappresentativa dell’impegno anarchico
per la libertà e l’uguaglianza, contro la monarchia,
il fascismo, la guerra e il regime clerico-fascista che ha dominato
in Italia dopo la II guerra mondiale.
Durante il biennio rosso (1919-1920) Virgilio Antonelli aderisce
giovanissimo al gruppo Falange Ribelle, aderente all’UAI;
partecipa ai moti di piazza e, di fronte al nascente fascismo,
aderisce agli Arditi del Popolo.
Minacciato ripetutamente, è costretto a girare armato;
per la sua attività subisce carcere e confino dal 1923
al 1927 e, successivamente, dal 1931 al 1936. Durante il “soggiorno”
all’isola di Ventotene, partecipa alla rivolta dei confinati
contro i soprusi degli aguzzini fascisti.
Virgilio
Antonelli
Tornato a Livorno, partecipa alla riorganizzazione dell’anarchismo
nei primi anni di guerra; farà parte, dopo l’8
settembre, del primo comitato clandestino di liberazione per
la componente libertaria, seguendo l’attività militare.
Fra le azioni a cui partecipa, assieme ad altri anarchici livornesi
fra cui anche i fratelli Romolo ed Egisto, la liberazione di
32 ostaggi rastrellati dai tedeschi e trasportati a Bologna,
e la liberazione, durante un allarme aereo, dei deportati da
un vagone piombato diretto in campo di prigionia.
Dopo la liberazione, avvenuta il 19 luglio 1944, gli anarchici
livornesi partecipano attivamente alla ricostruzione della città,
delle fabbriche, del porto devastati dai bombardamenti. Virgilio
Antonelli partecipa alla costituzione del Consorzio cooperativistico
dei lavoratori del porto, organismo che dovrebbe superare la
vecchia organizzazione ereditata dal fascismo e gestire tutte
le attività portuali; svolge contemporaneamente attività
sindacale come coordinatore regionale della Federazione dei
lavoratori portuali.
La restaurazione capitalistica metterà fine al tentativo
di gestione operaia del porto, limitando l’autogestione
all’avviamento al lavoro dei facchini. Nello stesso tempo
il Partito Comunista metterà sotto controllo, a fini
elettorali, gli organismi di massa fra cui i sindacati: i non
allineati, e in primo luogo gli anarchici, saranno emarginati.
In questi anni è intenso anche l’impegno per favorire
la ripresa del movimento anarchico. Dopo la costituzione della
Federazione Anarchica Livornese, Virgilio partecipa al congresso
di Carrara del 1945, che costituirà la Federazione Anarchica
Italiana.
Negli anni successivi prenderà parte attiva alla campagna
contro il regime franchista spagnolo e collaborerà ad
“Umanità Nova”, occupandosi soprattutto dei
problemi dei lavoratori portuali.
Nel 1965 assume l’incarico della Commissione di Corrispondenza
della FAI. Costretto ad abbandonare l’impegno attivo per
motivi di salute, continuerà a seguire la vita della
Federazione ed “Umanità Nova” fino alla morte,
nel 1982.
L’iniziativa si è svolta nella sala del Centro
di documentazione sull’antifascismo e la resistenza (G.
C.), e vi hanno assistito un centinaio di persone. Hanno portato
i loro saluti la Commissione di Corrispondenza della FAI, l’amministrazione
comunale e l’Associazione Perseguitati Politici Antifascisti.
Altri messaggi sono arrivati, fra cui quelli della redazione
di “A” rivista anarchica. Dopo una breve introduzione,
i relatori hanno contribuito a chiarire i vari episodi della
vita di Virgilio.
Marco Rossi ha illustrato la situazione politica a Livorno all’indomani
della prima guerra mondiale, il sovversivismo, di cui gli anarchici
erano gran parte, che animava le masse, l’opposizione
al fascismo che il regime non è mai riuscito completamente
a domare e che aveva una dimensione di massa.
Giorgio Sacchetti ha affrontato il periodo del confino, sottolineando
le continue e vessatorie persecuzioni messe in pratica dagli
aguzzini, che gli impedivano persino di corrispondere con la
madre e i familiari.
Tiziano Antonelli si è occupato dell’attività
sindacale, illustrando sia il tentativo di dare un’organizzazione
diversa al porto con il consorzio cooperativistico, sottolineandone
le potenzialità anticapitalistiche, sia l’attività
sindacale vera e propria, che ha visto Virgilio membro di punta
della corrente anarchica all’interno della Federazione
dei lavoratori portuali, attiva fino agli anni ’60.
Italino Rossi ha ripercorso gli anni dell’attività
nella FAI, ricordando come la Federazione Anarchica Livornese
propose la mozione sindacale approvata al Congresso di Carrara
del 1945, che darà vita, negli anni successivi, ai Comitati
di Difesa Sindacale di cui Virgilio Antonelli fu animatore.
Il relatore ha anche ripercorso il dibattito interno alla federazione
a cavallo degli anni ’50 e ’60 che ha visto Virgilio
protagonista.
La serata si è conclusa nel salone della Federazione
Anarchica Livornese, a cui hanno partecipato molti dei presenti
il pomeriggio.
La manifestazione è riuscita grazie al contributo e all’impegno
delle figlie, Alba e Lina, e degli altri compagni della Federazione
Anarchica Livornese.
L’incaricato
Virgilio
Antonelli
Non abbassare la guardia
Il 25 novembre, al processo contro Fabrizio Acanfora, (ne abbiamo
riferito sullo scorso numero)
la dirigenza di Trenitalia non si è presentata. Non si
è neppure preoccupata di fornire una giustificazione
della sua assenza e questo comportamento si commenta da sé.
A Roma, invece, c'erano decine di ferrovieri, di autoferrotranvieri,
di lavoratrici e lavoratori di altri comparti venuti a dimostrare
la propria solidarietà con il compagno Fabrizio Acanfora
e la propria indignazione per l'attacco portato al diritto di
espressione ed alle libertà sindacali in questo Paese.
Intanto continuano a giungere firme e messaggi di sostegno,
anche da molto lontano. Siamo molto colpiti da questa dimostrazione
di solidarietà e ringraziano quanti, in Italia ed all'estero,
hanno voluto contribuire a questa battaglia di civiltà
che, lo ricordiamo, è soltanto all'inizio.
Alle compagne ed ai compagni ricordiamo infatti che la repressione
nei posti di lavoro, in Italia, è molto forte e che non
riguarda i soli ferrovieri. Sarà necessaria quindi la
più ampia mobilitazione permanente, anche internazionale,
per respingere questo attacco e per creare le condizioni di
una ripresa reale delle lotte dei lavoratori.
Il nostro augurio è che quanti stanno partecipando alla
campagna di solidarietà con Fabrizio Acanfora non abbassino
la guardia, proseguano uniti nella lotta per salari, diritti,
democrazia sindacale. In questo senso andrà il nostro
impegno.
Genova, 27 novembre 2004
Comitato Fabriziounodinoi
Rete dei Ferrovieri in Lotta
Ma perché anche i cani?
Intervista con una animalista che ha partecipato alla manifestazione
antimilitarista di Mestre del 13 novembre 2004 (a cura di Virginia
Silvestri).
Se non sbaglio quel giorno le manifestazioni contro
il vertice NATO erano più di una…
Sì, erano almeno tre. Quella dei disobbedienti al Lido,
quella di Rifondazione Comunista e altri gruppi a Venezia (anche
con le barche) e quella di Mestre, organizzata da un coordinamento
antimilitarista di anarchici e libertari (Coordinamento Veneto
dei Senza Patria). Inutile dire che questi erano i più
“scoperti” non avendo assessori in Comune (come
Caccia dei Verdi e Cacciari di Rifondazione) a cui rivolgersi
per essere in qualche modo tutelati, garantiti nel poter esercitare
un diritto costituzionale senza essere preventivamente criminalizzati.
All’assemblea preparatoria si era prevista la partecipazione
di almeno duemila persone; invece alla fine eravamo circa quattrocento.
Il clima da subito era apparso molto pesante, intimidatorio.
Polizia e carabinieri erano due o tre volte il numero dei manifestanti
e avevano un atteggiamento alquanto duro, sebbene la manifestazione
fosse assolutamente pacifica. Tieni presente che erano almeno
dieci anni che non veniva organizzata una manifestazione del
genere a Mestre.
Ti risulta che ci fossero accordi preventivi sullo
svolgimento della manifestazione?
Da quanto mi è stato riferito i patti erano che ci avrebbero
“scortati” schierandosi in testa e in coda al corteo,
senza i “cordoni” laterali. Invece poi hanno continuamente
cercato di rinchiuderci completamente, anche dai lati. È
in questi frangenti che sono nate tensioni dato che i manifestanti
cercavano (con successo, devo dire) di impedire la formazione
dei cordoni. Le manganellate sono state date proprio a chi si
opponeva ai cordoni laterali, ad una vera e propria “blindatura”
del corteo. Verso la fine ha cominciato a diluviare e la tensione
è scemata.
Mi parlavi dei cani. Quanti ne hai visti?
Personalmente ne ho visti due (ma da testimonianze raccolte
successivamente i cani erano almeno cinque o sei), stazza da
pastore tedesco, uno di color bruno e un altro completamente
nero. Naturalmente erano al guinzaglio di due tutori dell’ordine
e hanno abbaiato con tutte le loro forze per tutto il corteo,
almeno per due ore.
Alla fine erano sgolati, sbavavano. Sinceramente mi hanno fatto
pena. Penso sia la cosa che mi ha colpito maggiormente perché
la considero una sofferenza imposta ai cani. Immagina come dovevano
sentirsi quelle povere bestie in mezzo alle grida, al baccano,
ai petardi…Anche se sono addestrati (ma sarebbe interessante
sapere come li addestrano…) le manifestazioni sono sicuramente
una situazione di stress, di paura… È comunque
una violenza contro i cani, contro la loro natura.
Probabilmente li esibiscono per spaventare le persone, per farle
desistere dal partecipare a certe manifestazioni. Ma mi chiedo
cosa accadrebbe se, in caso di disordini, il cane venisse liberato
o comunque usato contro i manifestanti. A mio avviso si pongono
due problemi: quello dell’incolumità dei manifestanti
e anche di quella dei cani stessi…
Il sabato successivo ci sono state le cariche a San
Polo d’Enza, davanti a “Morini” (dove altri
cani vengono allevati per i laboratori della vivisezione). Cosa
hai pensato?
Che, in qualche modo, quello che stavo vedendo era l’epilogo.
Anche se le due situazioni erano naturalmente diverse (e anche
i partecipanti) è indicativo che nei confronti di alcuni
settori dei movimenti (gli anarchici, gli animalisti, i no-global…,
diciamo i meno omologati) si applichi sempre il metodo sperimentato
nel luglio 2001 a Genova.
Virginia
Silvestri
Ricordando Marie-Christine, Beaumont e il CIRA
Il 13 dicembre scorso, a Losanna, è morta Marie-Christine
Mikhailo, storica fondatrice (con altri, tra cui la figlia Marianne
Enckell) del CIRA, il Centro Internazionale di Ricerche sull’Anarchismo
che da mezzo secolo rappresenta una delle “istituzioni”
e degli snodi umani e culturali del movimento anarchico a livello
mondiale.
I funerali si sono svolti venerdì 17, con la numerosa
e intensa partecipazione di amici, compagni, parenti provenienti
dalla Svizzera, dalla Francia e dall’Italia. Dopo, ci
si è ritrovati nella storica sede di rue Beaumont, dove
Marie-Christine viveva e dove ha sede il CIRA: in tanti abbiamo
ricordato spezzoni di umanità di una vita – quella
di Marie-Christine – che tante altre ha influenzato con
il sorriso, l’attività, la parola.
Alle compagne e ai compagni del CIRA, e in particolare a Marianne,
le condoglianze della nostra redazione.
Marie-Christine
Mikhailo in una foto di Jean Mayerat
Ho conosciuto Marie-Christine e Marianne una quindicina
d’anni fa, la prima volta che sono stato al CIRA, dopo
aver letto un articolo che mi aveva incuriosito su un quotidiano
locale che parlava dell’esistenza della biblioteca, senza,
peraltro, indicarne l’indirizzo (!).
Le due donne formavano una coppia straordinaria e in un certo
modo sorprendente per me, un adolescente che aveva in testa
una certa idea dell’anarchia. Pensavo di trovare un covo
di agitatori in una cantina buia, a onta del nome pomposo di
“Centro internazionale di ricerche sull’anarchia”,
mentre nei fatti fui accolto in modo cortese e amichevole nell’ex
fienile della magnifica dimora di Beaumont, generosamente messo
a disposizione da Marie-Christine, restaurato e trasformato
per ospitare la biblioteca da un’allegra brigata di compagni
di varia provenienza : una vicenda che ancora ignoravo del tutto.
Come non restare sorpreso e colpito da quelle due donne calme
e posate, madre e figlia, la prima che si era avvicinata all’anarchia
in età matura, la seconda fin da ragazza. Insieme costituivano
una sorta di memoria vivente, non solo conoscevano in modo eccellente
i fondi della biblioteca potevano vantare una cultura generale
straordinaria, ma anche perché padroneggiavano entrambe
un numero impressionante di lingue, alcune anche poco comuni.
Ne ero rimasto intimidito e sorpreso e di questa prima visita
conservo solo un vago ricordo. Ciò nonostante, ritornai
regolarmente a Beaumont. Grazie alla biblioteca, alle sue conferenze,
ai video, agli incontri nella caffetteria, nacque così
una solida amicizia, cui contribuirono agli inviti spontanei
a cena di Marie-Christine e del suo affascinate compagno Stoyadin,
come pure certi lavoretti occasionali per sistemare la cantina
o svuotare il congelatore e, molti anni più tardi, la
cura dell’orto quando Stoyadin non aveva più nemmeno
la forza di piantarvi qualche cipolla.
Nel corso del tempo le spedizioni in biblioteca hanno favorito
numerosi incontri, di visitatori o visitatrici, amici del posto
o di famiglia, gente di ogni età e orientamento. Tra
i momenti particolarmente simpatici resta naturalmente la paella
cotta al fuoco di legna da Vicente e gustata in compagnia sul
retro della casa, all’ombra degli alberi da frutto del
giardino. Mi viene in mente in particolare quella volta in cui
qualcuno lanciava sguardi inquieti verso le case vicine, mentre
l’amico Bösiger raccontava con una voce stentorea
e vibrante delle azioni clandestine compiute nel corso degli
anni trenta a sostegno dei rivoluzionari spagnoli.
Di Marie-Christine conservo l'immagine di una donna generosa,
colta, sensibile, ospitale e aperta. Aveva sempre tempo per
scambiare due chiacchiere con i visitatori e le visitatrici
del CIRA e non era raro vederla, nella caffetteria, davanti
a un tè e a qualche biscotto, mentre raccontava una storia
o un aneddoto su qualche personaggio conosciuto o sulle vicende
del Centro o della casa di Beaumont e della pensione che vi
aveva tenuto per qualche anno. Con gli occhi scintillanti e
lo sguardo vivo, la sua conversazione era sempre interessante.
I racconti si concludevano in genere con qualche secondo di
silenzio, dopo di che Marie-Christine si rimetteva al lavoro.
Sempre indaffarata, nonostante l’età, ci teneva
a dare un suo contributo al funzionamento regolare del centro.
In particolare curava la corrispondenza e le piaceva usare una
carta intestata con l’immagine di una vecchietta con in
mano una bandiera anarchica, una sorta di ammiccamento autobiografico.
Anche molto tempo dopo il suo “pensionamento” ufficiale
dal CIRA, continuava a venire tutti i giorni in biblioteca,
quanto meno per sfogliare i giornali e le riviste appena uscite,
e spesso per fare molte altre cose.
Dopo due infarti che la lasciarono purtroppo gravemente menomata
nel 2002, si poteva ancora vedere nei suoi occhi quel lampo
d’intelligenza, quella sete di conoscenza, quando le si
offrivano i quotidiani locali. Per tante volte aveva dato il
via a discussioni e a riflessioni sugli avvenimenti che toccavano
il movimento libertario e si era interessata dei fatti del giorno
del territorio di Losanna.
Pur essendo di origine alto-borghese, Marie-Christine conduceva
un’esistenza molto modesta con il suo compagno, sempre
al lavoro, consumando pasti frugali con le verdure dell’orto,
accendendo la luce solo alla sera, non si sa se per un atto
di probità antinucleare o semplicemente per un’abitudine
legata ai tempi in cui l’elettricità non era penetrata
in tutti gli spazi della vita quotidiana. La porta di casa non
restava mai chiusa a chiave e a Marie-Christine piaceva ricordare
quella volta in cui un ladro colto sul fatto aveva preferito
darsi alla fuga senza accettare l’invito a pranzo che
gli era stato rivolto.
Nella bella stagione la sua tavola era rallegrata da bellissimi
mazzi di fiori. Marie-Christine adorava i fiori e i loro colori,
simboli della vita. Aveva invece orrore del sibilo lugubre delle
sirene della protezione civile che collaudava le proprie installazioni:
quel suono le ricordava i tempi orribili della guerra a distanza
di mezzo secolo.
Lascio a chi è più anziano di me il compito di
parlare del suo impegno per la causa della pace del rispetto
dei diritti umani all’interno di diverse associazioni,
come dell’aiuto che si era sentita di offrire ai disertori
della guerra d’Algeria, accontentandomi di raccontare
qualche fatto più recente cui ho assistito.
Forse qualcuno si ricorda ancora di averla scorta in campagna,
ormai quasi ottantenne, nel primo pomeriggio di un giorno di
novembre del 1993 (se non mi sbaglio), alla partenza di una
manifestazione non autorizzata a sostegno degli spazi autogestiti
del cantone di Losanna. Ed altri non si saranno dimenticati
i gustosi tortini che preparava per la tradizionale “abbuffata
del mercoledì” negli spazi occupati della Colline,
dove le capitava di mangiare intorno al forno a legna circondata
da qualche decina di punk e di cani. Per non parlare delle assemblee
generali e delle conferenze del CIRA, quando accoglieva i visitatori
e sussurrava all’orecchio di Stoyadin, che era diventato
sordo, un riassunto delle discussioni.
Con la sua scomparsa abbiamo perso una compagna di una gentilezza
e di una generosità infinite, perennemente impegnata
per gli altri, prima che gli anni e la malattia la sopraffacessero.
Chris
Marie-Christine
e Marianne, agosto 2002
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