Pedro il
maleducato
(cosa dicono due donne de La mala educacion, un
film “di soli uomini”)
– E allora, che ne pensi?
Partendo per Bologna la Elena m’ha strappato la promessa
di andarci anche da sola, io che odio andare al cinema da sola!
Del resto, ne siamo o no innamorate perse?
– Tanto poi passano tutti su Sky! – protestavo io
– Ma vuoi mettere il grande schermo? Il ventre accogliente
della sala? I cuori ignoti che battono all’unisono col
tuo? – replicava lei.
Ci sono andata, da sola.
Scendendo dopo l’ultimo titolo di coda le scale del “Massimo”,
storico cinema leccese moltiplicato come i pani ed i pesci in
multisala, provo a chiamarla sul cellulare, che in quel momento
squilla: anche lei l’ha appena visto.
– E allora, che ne pensi?
– Che buona educazione le ho dato! – mi
compiaccio tra me e me.
O dio dio, che ne penso? Dico de La Mala Educacion,
l’ultima fatica di Almodòvar sbarcata in Italia
sei mesi dopo la sua prima spagnola (forse perché il
fratello Augustin, distributore dei suoi film, aveva dichiarato
che non l’avrebbe mai ceduto a società controllate
da Berlusconi?)
Ebbene, ’sto film m’ha spiazzata. Credevo di tuffarmi
in uno scintillante luna park ed emergo nel sancta sanctorum
dell’ottava arte. Ero pronta a partire per il Paese dei
Balocchi e me ne torno a casa pensosa e malinconica. Volevo
divertirmi e mi ritrovo ad imparare. Intendiamoci. È
sempre l’impenitente e impunito Pedro, il ragazzaccio
irriverente e irridente, l’enfant terrible del
cinema europeo. Lui fa sempre divertire.
Gli è che stavolta ha deciso di mostrarci anche l’altra
faccia della luna.
Abbiamo letto che questo sarebbe un film contro la chiesa e
contro i preti, tutti pedofili e assassini, che è cupo
e cupamente maschile, che è eccessivo e non credibile,
che farebbe – addirittura! – il gioco degli omofobi.
A noi non è parso. A noi è parsa l’opera
di un geniale cineasta, un film sul concepimento di un film,
con attori che recitano sul set come nella vita, una “visita”
all’interno del processo creativo – non a caso “La
visita” è il titolo del racconto che nel film ridarà
al personaggio – regista l’ispirazione perduta –,
un tracimare, appunto, del cinema nella vita, una sapiente manipolazione
del linguaggio cinematografico, un metaromanzo autobiografico.
Innanzitutto per la storia. Nella Spagna dei primi anni ’80
un attor giovane, bello e spiantato, si presenta all’altrettanto
giovane ma già discretamente noto regista, Enrique, in
evidente crisi creativa – lo vediamo infatti cercare spunti
tra le notizie estreme dei giornali (“donna allo zoo abbraccia
un coccodrillo e se ne fa divorare”) – dichiarando
di essere il suo antico compagno di collegio, dai salesiani,
nonché il suo primo grande amore, Ignacio.
Da quel tempo smarrito ha tratto un racconto di cui Enrique
si innamora subito, tanto da farne la sceneggiatura del suo
prossimo film: la storia che cercava tra le più strane
storie, come se queste fossero per lui l’autentica vita,
la trova invece nella stessa sua vita, anche se a raccontargliela
è uno sconosciuto (più volte Enrique affermerà
di non riconoscere nell’Ignacio adulto colui che tanto
aveva amato da bambino).
Però ne subisce il fascino e cede alla pretesa di quello
di esserne il protagonista…Da qui si dipana una trama
complessa e intricata, “più difficile da raccontare
che da vedere” (parola di Almodòvar). Ma c’è
anche che questa storia non viene mostrata veristicamente, bensì
quasi sempre raccontata o rappresentata o filmata, tant’è
che quando il regista ci ficca dentro intarsi di storia “vera”,
tendiamo a confonderli con la finzione.
E questo ci fa uscire dal cinema sconcertati, rimuginanti e
faticosamente tesi a ricomporre il diabolico puzzle.
Poi per i protagonisti. Non sono quelli che sembrano, si invertono
e rimescolano di continuo. Ignacio, il narratore autobiografico,
non è Ignacio, è un altro, e quando è davvero
Ignacio ci rifiutiamo quasi di riconoscerlo, perché ci
piaceva molto di più quello falso, cioè l’attore.
Intendiamo l’attore per antonomasia, pronto a tutto, a
fingersi un altro per farsi ricevere dal regista famoso, “a
farsi penetrare” pur di avere la parte, ad uccidere il
fratello per poterne “recitare” la vita, nella realtà
come sulla scena.
Questo attore è una perfetta “dark lady”,
alla Barbara Stanwick, quella del wilderiano La fiamma del
peccato, come lascia intendere lo stesso Almodòvar
inquadrandone en passant la locandina: una femme fatale, cattiva
e perversa per sua natura. Situazioni e personaggi giocano una
partita di continui rimandi, rimbalzando disinvoltamente tra
verità e finzione.
Un’immagine emblematica riassume tutto il senso del film:
un filo di sangue divide in due il bellissimo volto di un bambino
e lo spacca per sempre, aprendo davanti a noi come un sipario,
mostrandoci l’irreparabile frattura tra l’infanzia
e l’età adulta, e l’altra, non meno lacerante
e drammatica, tra la vita e l’arte (il volto spaccato
di Ignacio bambino lascia emergere le due facce della sola realtà
che ad Almodòvar interessi: il regista e l’attore).
E i bambini? L’infanzia violata? I preti criminali? Pura
metafora. Mai bambini e preti ci vengono mostrati nel vero collegio,
ma sempre sul set, noi non conosciamo il loro vero aspetto,
ma quello degli attori che li interpretano. I due preti stuprano,
prevaricano, assassinano perché sono due criminali, braccio
e mente della violenza del forte sul debole, dell’adulto
sul bambino, del potere sulla libertà.
Eppur sempre mediati attraverso la messa in scena filmica: solo
a set dismesso vedremo infatti il vero volto di don Manolo,
mentre sullo sfondo si rilassano gli attori che interpretavano
lui e lo sgherro. O meglio, conta sì che siano preti,
ma solo in quanto maschere atroci del potere che è atroce
di per sé, qualunque veste indossi.
Insomma, è questo un film che non conosce davvero la
parola “fine”. Persino le didascalie in coda sembrano
proiettare la vita dei personaggi oltre la pellicola, nel loro
stesso futuro, in ispecie l’ultima ove, con autobiografico
colpo di coda, Almodòvar ci informa che Enrique (il regista)
“continua a fare cinema con la stessa PASSIONE”.
Maria Teresa Crespini
Maria Elena Lega
L’America vista
da Nadia
Recensisco in ritardo il Quaderno di San Francisco
di Nadia Agustoni (Gazebo, 2004, cp 374, 50100 Firenze, www.edizionigazebo.com).
Sì: il titolo ci ricorda i poeti della beat generation,
... se il viaggiatore ha il taccuino, il poeta ha il quaderno,
magari tenuto nella tasca di un’ampia giacca, al riparo
dalla pioggia e dal vento improvviso delle grandi città.
E ho detto – buongiorno – in italiano/A Ferlinghetti,
che ha detto – buongiorno – in italiano. Così
è possibile incontrare un poeta la mattina a San Francisco,
come una presenza diversa, qualcosa incastonato nel caos di
rincorse di una metropoli americana, qualcosa che ci ricorda
tempi in cui il grido contro la guerra era più forte,
ed era più semplice comunicare seduti in mezzo alla gente,
con un quaderno in mano.
Ah! Visioni romantiche spezzate dalla realtà di un paese
nel quale gli “Antagonisti” s’aggirano come
parodie di incubi, in un tutto che sembra uguale a se stesso.
Ma cos’è l’America? Stiamo parlando degli
Stati Uniti, un posto nel quale noi italiani a volte ci perdiamo.
Vedo la cinica pretesa di euforia dei turisti/E quel farsi
corpo degli Americani/Così futile e ignoto. Sì,
quello è proprio un – farsi corpo – che contrasta
con la mitezza, la frugalità, la ritrosia, e il muoversi
tra gli ingombri è difficile, occorre affrontare la metropoli
Con quell’aria egoista/Di chi deve vivere.
Così la nostra viaggiatrice si muove a fianco dell’Oceano,
di fronte alle grandi distese della città, e ne segna
i tempi, ne annota gli usi come un’antropologa e come
se lei stessa fosse sottoposta a una prova:
Il tempo va in fumo
E file di macchine e netturbini
Stanno sotto il cielo
In un crematorio costoso.
Di domenica è più facile la ruggine
Ma non è domenica
E pago un biglietto museo
Come se facessi un esame
(...).
Ma non c’è estraneità in questo viaggio,
anzi ricerca di essere medesime a chi vive lì da sempre,
in una città che Ha panchine ovunque, con gente che
si siede/Guarda il cielo e il cielo/Non va da nessuna parte,
è alto, troppo bello/E ha toccato la fine della paura.
In un paese che ci mette sempre davanti agli occhi la sua passione
per l’altezza, la sua opulenza e la sua aggressività,
e che ha esposte sempre in grande le regole del gioco della
vita:
Ok! Dall’alto la vista è migliore
Si è soddisfatti e gli assistenti sociali
Non verranno mai a fare domande
imbarazzanti.
(...).
Le parole della poeta sembrano tessere di un domino che si
può costruire da soli, che vanno a incastro comunque
tu le metta, ognuna con un piccolo ma compiuto senso. Così
certe impressioni fugaci (Ci sono visioni che come lumache/Mettono
il guscio...) stanno vicine a precise riflessioni che parlano
di politica, con uno stile tanto asciutto da sembrare inciso:
Tutti sono intransigenti, adempiono al dovere
Di avere qualcosa, una vanità, una malattia,
Soldi e infelicità qualunque.
(...).
E rapide impressioni che ci stupiscono con la loro individualità:
Germinando un nome lilla, ripetendo
me stessa, una sillaba sassosa ho per voce
e canicola nei timpani,
la realtà come debito
e una pena.
(...).
Alla fine del viaggio troviamo altre poesie con cui Nadia ridisegna
la sua interiorità, la “cifra” come si direbbe,
della sua personalità, nella quale galleggia l’impressione
fortissima della solitudine individuale, del senso dell’autosufficienza,
della volontà di essere giuste:
(...).
L’ordine è una solitudine corale
ma è questo paese di margini
che apre gli occhi
e mi fa ricordare che la bellezza
non ha destino.
Mi rimprovera una rosa.
Nelle sue quasi vene non teme niente
e se sa un po’ di peso
ha l’arte di ignorarlo.
A chi obbedisce
se non cade in errore?
(...).
Così riappare la poeta anarchica, mistica nella sua
essenzialità, che conosco da anni. Donna che sfida la
fatica per nuove prospettive, la viaggiatrice che ammette con
i suoi lettori che proprio il suo viaggio la consola dai suoi
crucci. Una lettura che consiglio a tutti, e non solo perché
si tratta di una amica. Lettura molto “slow” per
necessità e non per moda.
...Costruire città è gonfiare le geometrie
e rendere a migliaia di noi una vicinanza. Sfioro la memoria
come un percorso di guasti e rido di non avere vinto niente,
consolata da terra e solitudine.
Francesca Palazzi Arduini
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