La premessa
Nell’era della globalizzazione anche e soprattutto alimentare,
è necessario ritornare alla tavola proletaria –
là dove il capitale è debole, vulnerabile e privo
di fantasia – per restituire ai nostri cervelli quelle
sostanze essenziali, troppo spesso sacrificate sull’altare
del perbenismo e della concertazione alimentare.
Siamo consapevoli che su questo terreno lo scontro con le multinazionali
dei cibi transgenici e plastificati sarà durissimo, ma
siamo altrettanto convinti che questa battaglia si può
vincere, a patto che si ritorni, tutti, alla cucina sociale.
Una cucina legata al nostro ambiente, fatta con i prodotti della
nostra terra, realizzata secondo l’antica tradizione eno-gastronomica
della tavola proletaria, che non accetta imposizioni dal capitale
alimentare.
Di più: la nostra cucina, con il suo ricco apporto nutrizionale,
è in grado di alimentare – come già ha dimostrato
in passato – anche le generazioni presenti e future, a
differenza delle mode alimentari imposte dalle multinazionali
che notoriamente avvelenano, inquinano e saccheggiano. Intendiamo
inoltre la cucina principalmente come luogo della socialità
e della comunicazione, dello scambio e della creatività,
insomma, della contaminazione culturale.
Il luogo
Il convegno sulle cucine del popolo si è tenuto a Massenzatico,
nella terra di Camillo Prampolini, perché in quella frazione
è stata costruita, nel 1893, la prima Casa del Popolo
italiana.
In quel luogo magico, dove materialmente si è tenuto
il convegno, le nostre sorelle e i nostri fratelli del passato
edificarono mattone su mattone il primo spazio di trasformazione
sociale del movimento operaio e contadino.
Non è caduta a caso, quindi, la scelta del Teatro Artigiano
di Massenzatico, costruito e ridislocato sulle fondamenta di
quella Casa del Popolo che per prima irradiò un futuro
di uguaglianza e di libertà, di sorellanza e fratellanza.
Da quella Casa del Popolo partì un’indicazione
per tutto il movimento di emancipazione sociale tesa a trasformare
gli assetti societari in senso orizzontale e solidarista, che
vedeva operai, contadini e sfruttati muoversi direttamente in
prima persona nella costruzione di un’altra società.
Il richiamo al passato è d’obbligo, nel proposito
di comprendere il futuro più prossimo e la tentazione
di porre domande alla storia in quel luogo così significativo
è stata fortissima.
Anche per questa ragione, per potere e per poterci interrogare
sui luoghi topici della nostra storia, di quella delle nostre
madri e dei nostri padri, delle nostre nonne e dei nostri nonni,
siamo approdati a Massenzatico.
Infatti, abbiamo vissuto insieme, in tantissimi, una giornata
indimenticabile di riflessione e confronto sulla cucina sociale,
che tanta parte ha avuto nella formazione degli spiriti liberi
che hanno animato, fin dagli albori del movimento operaio, i
sogni di libertà e d’eguaglianza.
La tecnica
Il convegno è stato preparato nel tempo, con pazienza,
cercando di coinvolgere tutte le esperienze della sinistra reggiana
in un rapporto leale, paritetico e rispettoso delle diversità,
nella misura in cui le cucine sociali appartengono a tutte le
tendenze del movimento operaio.
La giornata è stata completamente autogestita e autofinanziata,
articolata
dal basso in modo orizzontale, senza funzionari e dirigenti,
dimostrando l’alto valore aggiunto dell’azione militante
senza gerarchie. Una settantina di compagne e compagni si sono
impegnati per svariati giorni consultandosi quasi tutte le sere
in assemblee aperte a tutto il movimento reggiano.
Il logo
Forchette in alto e forchette a pugno chiuso, un nastro rosso
a unirle; bandiere rosse e bandiere rosso-nere sventolanti di
vitalità. Immagini e segni che hanno anticipato il clima
e il rapporto di un incontro fatto di comunanza e mescolanza,
dove tutti si sono sentiti avvolti dalla grande casa del popolo.
È piaciuto tantissimo il manifesto realizzato da Pablo
Echaurren, artista in libertà e, soprattutto, artista
delle libertà, capace di interpretare i sogni e i desideri
del movimento come nessun altro, “un manifesto che ormai
tutti cercano per farne l’icona nuova di un socialismo
antico”.
L’evento
Si è parlato di storia, di tradizioni perdute, di un
tempo nel quale l’attività politica più
genuina era pianificata a tavola. La cucina sociale, quindi,
come momento d’aggregazione, ma anche come specchio e
auspicio di una società solidarista.
Già il programma intenso e coinvolgente della giornata
aveva creato grandi aspettative che certo non sono andate deluse.
Le idee di base per la discussione – fra convivio popolare,
gastronomia storica, assaggi naturali, relazioni scientifiche
e performance artistiche dove le parti ‘teorica’
e ‘pratica’ si sono dimostrate inscindibili –
sono state quelle di una parte del movimento reggiano, fautrice
del ritorno alla tavola proletaria ingiustamente sacrificata
“sull’altare del perbenismo e della concertazione
alimentare”, e la proposta De.Co. (le Denominazioni Comunali)
di Luigi Veronelli, sostenitore entusiasta dell’iniziativa
ma assente per motivi di salute (auguri fratello e compagno!).
In mattinata le “comunicazioni con assaggi”, incontri
con i produttori, brillanti esposizioni di vivande e bevande
dal gusto vagamente rivoluzionario, se non altro perché
“rivoluzionaria è la qualità”. E allora
i molti appassionati hanno potuto approfondire, in modo dinamico
e godereccio, la lavorazione e gli infiniti usi del maiale,
i processi di invecchiamento di aceto balsamico e lambrusco,
fino a riscoprire un pezzo tanto pregiato quanto raro come il
grana (parmigiano reggiano) di vacca rossa, e ancora erbe estinte
e liquori proletari.
Nel pomeriggio il momento delle relazioni. Al Teatro Artigiano
di Massenzatico hanno trovato spazio le riletture, in chiave
eno-gastronomica del passato rivoluzionario italiano.
Dalla resistenza al fascismo, agli scioperi dei minatori del
Valdarno, dalle avanguardie artistiche e letterarie, alle mense
comuniste, dalla cucina sociale della via Emilia alla tavola
degli internazionalisti, che cosa mangiavano coloro che si sono
battuti con miracolosa dedizione. Dove mangiavano? Cosa mangiavano?
E come mangiavano?
Risposte curiose, dissacranti e mai banali. Storie di scioperi
per il cibo, di esperienze fatte di solidarietà e di
spirito comunitario, di strozzapreti dal gusto anticlericale.
Delle virtù libertarie del lambrusco, l’unico vino
al mondo con cui sono stati battezzati dei bambini; storie di
compagni, come Aurelio Chessa, che faceva del suo naturale dono
per la cucina, un autentico veicolo di attivismo politico.
I numeri
I compagni di Massenzatico, tanti e generosi, si sono prodigati
oltremisura per la riuscita dell’iniziativa.
Ben nove cuoche, sempre del paese, dimostrando un altissimo
livello professionale, si sono impegnate per due settimane nella
preparazione del Veglionissimo Rosso con un menù ripreso
da un’omologa festa socialista del 1903.
Alla fine, commosse, hanno incassato il “premio”:
un’autentica ovazione dei 350 commensali presenti. Il
menù ha ripreso la più coerente tradizione sociale
reggiana: antipasti formati da erbazzone, ciccioli, salame e
gnocco fritto, cappelletti in brodo, bolliti di gallina e di
manzo, salse di campagna, torta di riso e zuppa inglese, liquori
proletari e tanto, tantissimo lambrusco.
L’evento ha avuto una copertura mediatica eccezionale
ed un successo di partecipazione oltre ogni previsione: nel
corso della giornata circa un migliaio di persone hanno visitato
l’esposizione di produzioni eno-gastronomiche e hanno
seguito il convegno.
Purtroppo ben 500 richieste di partecipazione non sono state
esaudite a causa del veloce esaurimento dei posti in prenotazione.
Sono state bevute 600 bottiglie di lambrusco, consumati 40 chili
di cappelletti, un quintale di torte, un quintale di carne fra
gallina e manzo per i bolliti, 1000 pezzi di gnocco fritto e
30 sfoglie di erbazzone; si sono vendute 150 punte di grana
di vacca rossa.
La rezdora
Nel suo intervento a braccio, la compagna rezdora, al secolo
Priama Gelati, ha parlato delle cucine degli ultimi, fatte di
e con poco – eppure sempre compatibili e nutritive, che
hanno accompagnato la sua vita intensa.
Il suo è stato definito un intervento di classe in tutti
i sensi, degno di una persona e di un ruolo di grande valore
umano e politico. La nostra rezdora ha spaziato dalla cucina
della resistenza a quella dell’emigrazione del dopoguerra,
da quella degli asili – i famosi asili di Reggio degli
anni 60 – alla cucina popolare condita sempre con buonsenso
alimentare e prodotti resistenti.
Le sue considerazioni politiche sono state condivise da una
vasta platea; il suo modo di ragionare, con il cuore in mano,
ha emozionato e coinvolto tutti i presenti.
Le indicazioni
Dalla giornata emerge che questa avventura è appena
iniziata. In effetti, il rapporto fra cibo e movimenti, cucina
e socialismo, rappresenta un formidabile strumento di interpretazione
dell’attuale contesto politico mondiale.
Si preannuncia così un futuro convegno – questa
volta internazionale – sulle cucine delle rivoluzioni
(bolscevica, spartachista, zapatista, anarchista, ordinovista,
sindacalista) con due riflessioni: una sulla cucine della Prima
Internazionale (Marx e Bakunin), l’altra sulla cucina
della Comune di Parigi; la costituzione di un Centro Studi sulle
Cucine Sociali deputato a raccogliere, valorizzare e produrre
materiali sulla tavola proletaria, in raccordo con studiosi,
ricercatori e docenti universitari; l’allestimento di
un archivio/biblioteca sulla cucina sociale e militante, con
relativo catalogo bibliografico; la valorizzazione degli interventi
al convegno con la pubblicazione degli atti da parte del Centro
Studi.
Le riscoperte
Dal convegno sono emersi e riemersi innumerevoli saperi, segreti,
tradizioni, ricette, comportamenti scomparsi, rimossi, dimenticati,
quali:
- il maiale, questo sì divino, come veniva chiamato
nel lontano passato dai contadini perché sfamava le
famiglie nonostante avversità e carestie;
- il lambrusco, vitigno ribelle fin dall’antichità,
buono sia per le cucine del popolo che per il battesimo laico
degli anarco-socialisti;
- i liquori proletari, nocino, laurino, pino, rossella e tanti
altri, prodotti dai poveri per sostituire le costose bevande
straniere;
- il ruolo centrale dei cappelletti, nella versione anarchica
– uno solo, in quella antifascista – tanti e in
quella socialista – in scodella con il lambrusco;
- le paste all’uovo fatte in casa, il cibo decisivo
per i pionieri del socialismo – i famosi internazionalisti
senzaterra e senzapatria;
- le erbe selvatiche, oggi dimenticate e sconosciute nonostante
il grande valore medico e nutrizionale;
- i dolci “perduti”, realizzati e consumati soprattutto
il primo maggio, unica “giornata” universalmente
riconosciuta dai lavoratori.
Si sono scoperti i luoghi, i contenitori, gli spazi delle cucine
sociali: case del popolo emiliane, cameracce romagnole, società
di mutuo soccorso, leghe di resistenza, osterie senza oste,
circoli operai, associazioni sindacali e di mestiere, cooperative
di consumo e distribuzione, le vere istituzioni del movimento
operaio, come dicevano i nostri vecchi compagni. Grande spazio
è stato dedicato alle mense comuniste, organizzate per
resistere quel famoso “minuto in più” del
padrone, diffuse in grande stile dai sindacalisti rivoluzionari
parmensi con lo storico sciopero del 1908 e riprese successivamente
fino al secondo dopoguerra inoltrato. In quello sciopero, durato
parecchi mesi, furono spostati centinaia e centinaia di bambini
in Toscana, dove furono allestite in varie città delle
mense comuniste; erano presenti al convegno compagni cavatori
di Gragnana (Carrara), dove, nel loro circolo E. Malatesta,
furono ospitati e sfamati i bambini dei contadini parmensi.
I consigli
Come dicevo all’inizio della presente riflessione, è
auspicabile un ritorno diretto, evitando inutili fermate perbeniste,
alla tavola rossa e proletaria. Una tavola, come ampiamente
dimostrato al convegno, tutta da riprendere e da proporre nel
suo vasto campo d’applicazione: alimentare e nutrizionale,
agricolo ed ecologico. La potenzialità straordinaria
risiede nella sua naturale semplicità, mettendo in relazione
coerente stomaco, cuore e cervello. Il suo rapporto con il socialismo
libertario si è dimostrato indissolubile: le grandi decisioni,
le grandi alleanze, le grandi scelte, si sono consumate spesso
a tavola, in un luogo probabilmente godibile e intrigante, stimolo
di rapporti sociali, politici e umani. La stessa cucina ricca
del padrone è frutto di un esproprio/mutuazione dalla
cucina povera dei lavoratori – nulla di nuovo anche in
questo orizzonte, sconfitti e piegati anche sul fronte del buon
gusto alimentare. A maggior ragione, se questo dato è
veritiero, bisogna invertire atteggiamenti e comportamenti,
innanzitutto a livello culturale, per riscoprire l’antico
ricettario resistente.
Le ipotesi di lavoro
Dal convegno di Massenzatico sono emerse alcune proposte, oltre
quella sulle De.Co. del compagno anarchenologo Luigi Veronelli,
che posso riassumere in:
- la costituzione di un’“intelligenza collettiva
alimentare”, priva di comando e di autorità,
in grado di sollecitare una significativa riflessione sull’uso
capitalistico del cibo e delle risorse nell’epoca della
guerra permanente;
- la valorizzazione di un consumo rivoluzionario – perciò
critico – che vada oltre la tipicità dei prodotti
imposta dai grandi interessi privati, puntando a recidere
ogni rapporto con il consumo-spazzatura del capitale planetario;
- il coordinamento delle attività agricole, individuali,
collettive e cooperative che si muovono in senso autogestionario,
pensando anche a nuovi modi di produzione e di distribuzione,
introducendo pratiche di scambio, banche del tempo alimentari,
forme di mutuo soccorso, casse di resistenza e di solidarietà;
- l’individuazione di spazi sociali, centri, osterie,
caffè letterari dove si possa bere e mangiare a prezzi
ragionevoli costruendo una rete di locali accoglienti e solidali,
capaci di dare vita a diversi rapporti personali e aggregativi;
- la realizzazione di eventi culturali legati alle cucine
sociali, tesi a scoprire la storia del movimento operaio e
contadino partendo dalla tavola, dal cibo e dal vino, per
reinterpretare la storia stessa in modo eclettico, confermando
che la rivoluzione sarà un gran pranzo di gala.
Massenzatico (mon amour)
Reggio Emilia.
La cuoca rosso-nera
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