The
great Santa Barbara oil slick
Ho sognato che John Fahey è venuto a trovarmi, l’altra
notte. L’ho visto che se ne stava in piedi accanto al
mio letto, i vestiti indossati da qualche giorno, spettinato,
barba lunga e gli occhi sporchi.
Era proprio come l’avevo visto l’ultima volta:
in occasione di un suo concerto a Venezia fuggì dal
manager e dalla crew per parlare, bere un paio di birre proibite
e mangiare una pizza in compagnia di un paio di ragazzi sconosciuti,
ed io ero uno dei due.
Allora avevo solo vent’anni e lui era un mito rimasto
vittima dei rovesci della fortuna: la stessa persona applaudita
alla Carnegie Hall e celebrata al Grammy Award come l’anello
di congiunzione tra la musica popolare e quella d’estrazione
colta era stata imbrogliata dai padroni del vapore con una
manciata di spiccioli e si era ridotta a sopravvivere in un
motel di infimo ordine. Quando erano finiti i soldi, si era
dovuto arrangiare per strada a pernottare in una vecchia auto.
Mi raccontò con la bocca piena di pizza che era costretto
a suonare in giro – talvolta agli angoli delle strade
– per pagare vecchi debiti, il cibo e l’alcool
e le medicine di tutti i giorni. Rieccolo ora proprio qui,
nel bel mezzo del mio sogno.
Marco – mi chiama sibilando il mio nome tra i denti
ingialliti e toccandomi con le dita macchiate di tabacco –
svegliati. Dobbiamo andare. Muoviti, dai.
Nel sogno io mi vedo che lo guardo sapendo già tutto:
è proprio lui, so perché è venuto qui.
Do un’occhiata alla sveglia: è vero, è
tardi. Dobbiamo andare.
Mi alzo facendo piano per non svegliare Lucia e le bambine,
infilo gli stessi jeans neri di ieri e la stessa t-shirt nera,
traballo verso il bagno per lavarmi faccia e denti ma mi accorgo
che lui è già lì in piedi in mezzo alla
porta aperta che mi fa segno di seguirlo.
Ha con sé una vecchia Martin opaca e un po’ ammaccata,
e una borsa piena di fogli con dentro anche una mezza bottiglia
di bourbon: Marco, è tardi, dobbiamo andare –
insiste. Neanche il tempo di un caffè, mastico una
mezza bestemmia assieme a una brooklyn mentre infilo i piedi
nei sandali e quasi mi ammazzo perdendo l’equilibrio.
Mi infilo in tasca il portafoglio, e finalmente chiudo piano
la porta di casa dietro di me.
Lui è già giù in strada che mi aspetta.
Camminiamo lentamente – so che non può fare grossi
sforzi, gli hanno trovato addosso un sacco di rogne –
fino alla stazione senza incontrare nessuno, neanche un gatto.
È buio come fa buio alle quattro e mezza del mattino
di una mattina di luglio, e nell’aria c’è
solo il rumore dei nostri passi e del suo respiro. Ci fermiamo
un paio di volte, solo per un momento, senza dirci niente.
La stazione è ancora chiusa, aprirà alle sei,
solo noi due accanto ai binari.
John rolla del tabacco che ha tirato fuori dalla borsa e si
accende una sigaretta.
Finalmente riesco a mettere in croce due pensieri e a dirgli
qualcosa di sensato, o almeno così mi sembra: John,
che cazzo ci fai qui, sei morto a febbraio... Mi viene in
mente Joan Baez, cui era successo lo stesso con Joe Hill (un
immigrato scandinavo in America, le sue canzoni incitavano
all’agitazione, alla protesta sociale e al sabotaggio
nelle fabbriche nei primi anni del secolo: venne imprigionato
ed assassinato legalmente dopo un processo farsa, e raccontano
che fu lui stesso a ordinare al plotone di aprire il fuoco),
e non posso fare a meno di sorridere mentre per scherzo gli
accenno I dreamed I saw John Fahey last night, alive as
you and me... Anche John sorride: I never died, mi dice,
proprio come nel sogno di Joan Baez.
Sorride di traverso, con la cicca che gli penzola tra le labbra
serrate. Ma John Fahey non è Joe Hill, anche se hanno
usato entrambi gli stessi attrezzi – la chitarra –
e fatto quasi lo stesso mestiere scomodo. Joe a scrivere canzoni
proibite e a cantarle nelle fabbriche e nelle periferie delle
città industriali, John scappato da una famiglia che
odiava, s’era messo a fare il radical nella scena new
folk californiana degli anni Sessanta e poi – eccolo,
il sovversivo, il rompiballe – a inveire contro chi
della protesta aveva fatto un mestiere redditizio.
John
Fahey
Sono contento di rivederlo dopo tanto tempo. Per me John
era stato una scoperta dell’università: un musicista
prezioso che ascoltavo devotamente, cibo difficile per le
orecchie mentre i miei coetanei impazzivano per la febbre
del sabato sera. John è la personificazione dello spirito
più puro della musica alternativa americana, sinonimo
di ricerca ed innovazione ed allo stesso tempo di profondo
rispetto per le radici, resistenza alla commercializzazione,
assoluta mancanza di compromessi.
Musica “alternativa” quindi nel vecchio senso
attribuito a questa parola, cioè “musica contro”:
questo lo ha imposto come figura di culto nella folk music
scene e gli ha portato col tempo una certa popolarità,
ma a costo di emarginazione, dolore e disastri di relazione,
salute ed amore. John inventò nei primi anni Sessanta
una nuova musica, mai sentita prima d’allora, amalgamando
con tecniche d’improvvisazione e la leggerezza del suo
fingerpicking virtuosistico la profondità delle radici
del blues, del bluegrass e del country and western con le
lacrime, sudore e sangue del canto popolare…
Smettila con ’ste cazzate – mi interrompe leggendomi
nel pensiero. Non credo che il mio contributo alla musica
sia poi così importante. Sospira, rosicchiando e succhiandosi
il pollice come fa un bambino bisognoso d’affetto: tante
delle mie vecchie cose sono così imbarazzanti, quand’ero
giovane ero così presuntuoso e stupido...
Cerco di interromperlo, lui si infastidisce di frustrazione.
Va bene, lo ammetto – si scalda fissandomi con gli occhi
stanchi, il nervosismo che affiora traducendosi in un accenno
appena di nistagmo. Ho scritto della roba buona, tutte quelle
accordature strane che ti piacciono tanto. Ma apri gli occhi,
cristo santo. È roba kitsch, Marco: quelle musiche
sono mescolanze di emozioni senza un contesto preciso, non
c’è un minimo di discorso dietro che le tenga
in piedi. Ecco perché penso che facciano schifo, e
ti dico che sei un coglione, tu, a spendere soldi per quella
roba vecchia…
John
Fahey
Lo interrompe un colpo cattivo di tosse misto al rumore improvviso
del treno che arriva da lontano, dietro la curva della collina:
è ancora presto, nessun annuncio di voce sintetica,
ma tutt’e due sappiamo che questo è il treno
giusto. Ancora un minuto. Il treno arriva e si ferma. Saliamo,
seconda classe. Me ne sto zitto, faccio un po’ l’offeso:
non ho voglia di sentire ancora i suoi rimproveri e dentro
di me l’ho già mandato affanculo. Chiudo la porta
metallica dietro di me, uno scossone e il treno riparte.
Nel nostro scompartimento non c’è nessuno ma
si sente che c’è qualcuno, qualche porta più
avanti, che discute. Sembra che litighino, una scenata di
un lui a una lei o di una lei a un lui non si capisce bene.
Ci sistemiamo, John da una parte, io dall’altra.
John prende in mano la chitarra, io resto a guardarlo finché
lui inizia a suonare, s’interrompe subito e sistema
l’accordatura, poi guardo fuori del finestrino. Mi attira
la luce delle lampadine fuori delle case, a illuminare le
porte chiuse. Ed ecco che improvvisamente il vecchio inizia
a suonare, e cuce assieme alcune delle vecchie cose, forse
musiche di cui aveva parlato male appena qualche minuto prima,
sul binario.
Suona “Special rider blues” e “Jesus is
a dying bedmaker” (due pezzi rimasti sepolti in qualche
archivio per quasi trent’anni: aveva raccolto quasi
un’ora e mezza di musica per il suo album “America”
del 1971, ma John si fece persuadere dai discografici che
nessuno avrebbe mai acquistato un album doppio di sola chitarra
acustica, così ne tagliò la metà), poi
accenna a “Keep your lamps trimmed and burning”
facendo il verso a Jorma Kaukonen, per poi sorprendermi alle
spalle... Ta-ra-ra-boom-de-ay!
Le conosco anch’io le canzoni di Joe Hill – mi
dice sorridendo strafottente. E quelle di Woody. Le so suonare
tutte. E me la cavo a cantare nonostante il fumo, l’alcool
e il cibo cinese che quegli stronzi di dottori non vogliono
che io mi ficchi in pancia per il diabete.
Perché questa roba vecchia, John? Suonami qualcosa
di nuovo – gli chiedo, facendogli il verso.
Non so – fa lui, improvvisamente triste. Sospira, curvandosi
sulla chitarra. È una sensazione confusa, o un arcobaleno
di sensazioni come questi pezzi di vecchi blues e inni religiosi,
che col tuo Joe Hill forse non c’entrano niente. O forse
sì, non so... È appena l’alba, eppure
mi sento stanco.
Chiude gli occhi e appoggia la testa allo schienale, respira
a fondo cercando un po’ d’ossigeno per scacciare
l’affollamento dei pensieri. Sembra stanco. Sembra triste.
Sembra che abbia addosso tutta la pesantezza del mondo. Smetto
di guardar fuori. Le case e i campi lì al di fuori
del finestrino hanno un’aria meno misteriosa e decisamente
meno interessante adesso che c’è un po’
di luce. Per strada le prime auto, gente che va a lavorare.
John ogni tanto riprende a toccare con la punta delle dita
le corde della sua chitarra come solo lui sa fare. Suona il
“Requiem per Mississippi John Hurt” e un tango
sconosciuto. La sua voce di vecchia tartaruga impastata di
malattia e stanchezza canta solo per me, mista al rumore del
treno. Tiene addosso gli occhiali scuri, proprio come una
volta: all’inizio si faceva chiamare Blind Joe Death
e si presentava ai concerti con un paio di occhiali neri e
si faceva accompagnare sul palco, facendo finta di essere
cieco.
Eccolo qui accanto a me, vecchio e sconfitto come può
esserlo una tigre, che guarda fuori e con la mano cerca a
tentoni la bottiglia di bourbon nella sua borsa. Beve un lungo
sorso, come nelle tante sue versioni del blues dei desperati.
Sono arrivato, Marco – mi fa John, alito di cane. Ho
un lavoro da fare, la chitarra tienila tu.
Una luce come di lampo si accende dietro le sue lenti scure,
che si toglie per un momento mostrandomi per l’ultima
volta gli occhi sporchi. Prende la sua borsa ed esce dallo
scompartimento. Traballa. Lo vedo allontanarsi lungo il corridoio,
a me manca il coraggio di fermarlo, manca la voce per dirgli
qualcosa, anche solo un grazie.
Il vecchio si avvicina alla porta. Scende. Senza voltarsi
indietro. Tutto quello che mi resta è un vuoto che
rimbomba in testa e nel cuore e una Martin ammaccata, e un
nodo che mi stringe la gola.
Il treno ha uno scossone, riprende lentamente il suo viaggio.
Mi sporgo dal finestrino e vedo John che si allontana sul
binario, passo strascicato. Lo vedo da dietro, il fumo della
sigaretta appena accesa gli avvolge la testa come una piccola
nuvola bianca. Lo si potrebbe scambiare per un vecchio vagabondo
qualsiasi con una sigaretta in bocca, invece è un fantasma
che non se ne andrà mai via da questo sogno.
John
Fahey
Nota: “The great Santa Barbara oil slick” è
un cd recentemente stampato dalla indie americana Water, che
contiene la registrazione del concerto di John Fahey al Matrix
di San Francisco del 14 febbraio 1968 più tre registrazioni
probabilmente riconducibili all’anno successivo. Un
lavoro prezioso, compiuto con enorme rispetto e dedizione.
Marco Pandin
Musica
a cui voler bene
E
questa puntata ha un sottotitolo bello chiaro: Sardegna.
Quattro segnalazioni quattro tutte da questa terra meravigliosa
e dura, come ogni amore che si rispetti. Mario Brai
è un musicista che conosco personalmente e col
quale, purtroppo fugacemente, ho suonato anni fa a Cagliari.
Mario canta, suona violino e chitarra ma soprattutto
sta dietro al progetto Marenostrum. Autore di 2 CD (almeno
credo) vorrei segnalare il suo lavoro perché
pochi musicisti hanno la sua potenza e la sua facilità
di comunicazione. Unitamente a un gruppo di musicisti
molto bravi, Brai ti porta proprio in mezzo alla musica
della sua gente, i Tabarkini, emigranti liguri, prima
in Tunisia e Carloforte poi, isola di San Pietro, Sardegna.
Quindi proprio al centro del Mediterraneo e la sua musica,
araba, africana e sarda. Il tutto è reso in modo
brillante, molto funky e coinvolgente ma senza perdere
di “rispetto” folk verso la materia. Ispirati
dalla benemerita lezione di Mauro Pagani, ricordato
nel booklet, Mario Brai e Marenostrum è per chi
vuole appassionarsi al cuore migrante della musica senza
confine. www.carloforte.net/marenostrum
Una
si schianta da un dirupo è un CD di nihilCDME,
credo pubblicato in forma semi-privata (ma cercatelo
senz’altro presso nihilcdme@tiscali.it).
Roberto Belli (da Cagliari, fondatore e animatore del
progetto musical-performativo Machina Amniotica, di
cui già sapete leggendo la Rivista) è
colui che sta dietro a questa nuova uscita. Elettronica
brumosa e oscura (non opprimente comunque) veicola una
voce narrante di grande fascino. Fascino malato qualcuno
obbietterà, ma di questo si tratta infatti: un
salto oltre il guardrail della nostra indifferenza,
oltre la trasformazione corpo-macchina in atto, corpi-lemming
al suicidio garantito, Roberto va oltre il linguaggio
stesso masticando aggettivi meccanico-fisiologici come
oscenità o ultime tenerezze, alla festa dell’Identità.
Il Crash, lo schianto, è già avvenuto
e non ce ne ricordiamo nemmeno più.
Chichimeca vuol dire “barbari” nell’antica
lingua olmeca (Messico). Il gruppo che porta questo
nome ha pubblicato nel 2003 un album (Barbari
per l’appunto) uscito per l’etichetta sarda
Tajra e distribuito da Audioglobe. La cantante, Claudia
Crabuzza, ha collaborato con i Tazenda e il noto gruppo
Sardo ha più che un legame con i Chichimeca.
Il CD è molto bello, suonato benissimo. Claudia
caccia fuori bei testi, molto diretti, con voce intrigante,
tra Nada e Marianne Faithfull su arrangiamenti legati
alla musica Ispano-America (ranchera, Tango e molto
Messico) unitamente alla danza popolare del Mediterraneo.
Si alternano situazioni (in lingua spagnola) di dolore
e lotta da San Cristobal, ad esempio, a canzoni agro-dolci
in italiano più vicine alla nostra tradizione
d’autore e che a me sembrano le migliori, Viola,
Oggi è Natale e La nave su
tutte. www.chichimeca.it
oppure www.kuntra.com
Per
completezza segnalo un libro L’altezza del
gioco di Giulio Stocchi anche se uscito da più
di un anno. Perché a pubblicarlo è la
CUEC di Cagliari (www.cuec.it)
nella collana EstroVersi diretta da Alberto Lecca e
Antonello Zanda, illustri autori e animatori della cultura
poetica in Sardegna. Stocchi è un poeta militante,
nato nel 1944 e attivo a Milano. Ha pubblicato vari
dischi e libri tra cui Compagno Poeta (Einaudi
1980) e l’album Cantata Rossa per Tall-el-Zaatar
insieme col jazzista Gaetano Liguori. Quindi un autore
nel cuore della poesia di ispirazione sociale legata
alle lotte operaie e internazionaliste. L’altezza
del gioco raccoglie scritti e testi di 30 anni
e contiene splendide fotografie del reporter Fulvio
Magurno. I volumi proposti da EstroVersi sono tutti
di alto livello e quest’ultimo ne è conferma.
Tu leggerai/fino all’ultima parola/del libro
che è in te/sfoglierai/pagina dopo pagina/lettera
su lettera/ti affaticherai/e il silenzio ti circonda/ma
per comprenderlo /appunto/perchè esso/parli.
Alla
prossima.
Stefano Giaccone
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